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Gli errori che hanno cambiato la storia
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E-book428 pagine4 ore

Gli errori che hanno cambiato la storia

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Sviste epocali ed equivoci imperdonabili che hanno portato a tragiche decisioni sbagliate

Se dicessimo: «Piovono gatti e cani», riusciremmo difficilmente a farci capire dal nostro interlocutore. Eppure avremmo semplicemente tradotto alla lettera un modo di dire inglese che indica una pioggia abbondante. Quando si traduce, è fondamentale prestare attenzione non solo alla lettera ma anche al senso di ciò che si intende comunicare. Sbagli clamorosi nelle traduzioni hanno persino cambiato il corso della storia. Un esempio tra tutti è il bombardamento nucleare su Hiroshima, frutto dell’equivoco sulla parola giapponese mokusatsu. E che dire degli errori nel dispaccio prussiano di Ems (1870), nel trattato di Uccialli (fine Ottocento) o in quello dell’Ebro (fine III secolo a.C.), che portarono a guerre sanguinose e al crollo di imperi? O della svista di un ufficiale inglese che, nel 1944, indusse alla decisione di distruggere l’antica Abbazia di Montecassino? Sono innumerevoli gli esempi di come traduzioni eseguite con superficialità e ignoranza abbiano portato a sviluppi sconvolgenti, tali da imprimere agli eventi un corso differente: sono i casi in cui una sola parola ha cambiato la storia.

Alcune delle decisioni cruciali della storia sono il frutto di equivoci dovuti a una traduzione mal fatta e così gli eventi hanno preso una strada diversa, se non opposta a quella pianificata nel documento “tradito” e non tradotto

Tra gli errori trattati nel libro:
• Abt o Abteilung? L’errore che portò alla distruzione di Montecassino
• Mokusatsu. L’enigmatica risposta del Giappone e la tragedia di Hiroshima
• Il «Trattato di Uccialli» fra Italia ed Etiopia che portò alla disfatta italiana di Adua
• La «trappola» ideata da Bismarck con il «Dispaccio di Ems», casus belli della guerra franco-prussiana del 1870
• Annibale e la presa di Sagunto del 219 a.C., casus belli della Seconda guerra punica
• I «canali di Marte» (1877): ma allora esistono i Marziani? 
• La «Convenzione di Oviedo» sulla bioetica e l’errore scoperto da un ricercatore italiano
• «Sì, tu devi commettere adulterio»: l’imperdonabile errore della «Bibbia immorale»
• «Il dado è tratto», o forse no? (49 a.C.)

Gianni Fazzini
È nato e cresciuto a Roma, dove si è laureato in Economia e, successivamente, in Lettere classiche. Ha collaborato con il Dizionario Biografico degli Italiani (Treccani), con quotidiani nazionali e  internazionali, come «il Messaggero» e «The Daily American of Rome», e con riviste di cultura come «Capitolium», «Cronache Medievali » e «Voce Romana». Dal 2017 è membro dell’Accademia Internazionale “Città di Roma” di Scienze Arte Cultura Spettacolo. Attualmente è docente dell’Università Popolare di Roma e collaboratore della Strenna dei Romanisti, prestigiosa pubblicazione di approfondimento culturale.
LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2019
ISBN9788822738875
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    Anteprima del libro

    Gli errori che hanno cambiato la storia - Gianni Fazzini

    671

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Prima edizione ebook: novembre 2019

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3887-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Gianni Fazzini

    Gli errori che hanno cambiato la Storia

    Sviste epocali ed equivoci imperdonabili che hanno portato a tragiche decisioni sbagliate

    Prefazione di Franco Onorati

    Indice

    Prefazione

    Capitolo primo. Ma la traduzione, tradisce?

    Parte prima. Casi storici di errori di traduzione

    Capitolo secondo. Abt o Abteilung? L’errore che portò alla distruzione di Montecassino (1944)

    Capitolo terzo. Mokusatsu. L’enigmatica risposta del Giappone e la tragedia di Hiroshima (1945)

    Capitolo quarto. Il trattato di Uccialli fra Italia ed Etiopia (1889) che portò alla disfatta italiana di Adua (1896)

    Capitolo quinto. La trappola ideata da Bismarck con il Dispaccio di Ems, casus belli della guerra franco-prussiana del 1870

    Capitolo sesto. Annibale e la presa di Sagunto del 219 a.C., casus belli della seconda guerra punica

    Capitolo settimo. La Mazzei letter e la politica americana nel 1796

    Parte seconda. La Storia tra errori e incomprensioni

    Capitolo ottavo. I canali di Marte (1877): ma allora esistono i marziani?

    Capitolo nono. La montagna di Mann non è più incantata (1932 e 2010)

    Capitolo decimo. La Convenzione di Oviedo sulla bioetica e l’errore scoperto da un ricercatore italiano (1997 e 2010)

    Capitolo undicesimo. «Sì, tu devi commettere adulterio»: l’imperdonabile errore della Bibbia immorale (1631)

    Capitolo dodicesimo. Il dado è tratto, o forse no? (49 a.C.)

    Parte terza. Fra Storia e leggenda: travisamenti, imposture e fake news

    Capitolo tredicesimo. Nella Storia

    Capitolo quattordicesimo. Nel vivere quotidiano

    Capitolo quindicesimo. Nella Bibbia

    Epilogo

    Capitolo sedicesimo. L’ingrato compito del traduttore

    Ringraziamenti

    Bibliografia e sitografia

    A Renato Mammucari

    perché ama confessare

    che piuttosto che nei libri che ha scritto

    si ritrova in quelli che ha letto

    Prefazione

    Non è la prima volta che Gianni Fazzini mi invita a introdurre un suo libro: e ogni volta gli dico che lo fa a suo rischio e pericolo, dato che la stima amichevole che mi professa deve necessariamente misurarsi con la mia dichiarata incompetenza nelle materie oggetto delle sue ricerche.

    Che si tratti di archeologia in senso lato, ed è stato il caso delle Colonne di Roma. Storia e leggende, ovvero degli errori tragici o tragicomici che una traduzione sbagliata può causare – e siamo nel caso di questo volume – Fazzini sa che l’adesione al suo invito non significa acritica valutazione del suo operato, né tanto meno propensione a elogi fuor di misura, perché su tutti prevale l’onestà intellettuale che deve guidare il prefatore.

    Con questi scritti l’autore si misura ancora una volta con la Storia con la

    S

    maiuscola: colta peraltro nella accidentale intersezione con la storia minore, perché sotto la pelle degli avvenimenti che hanno segnato, nel bene ma quasi sempre nel male, lo scorrere dei secoli si insinuano figure di secondo piano, oscuri copisti, anonimi gazzettieri, disinvolti tipografi, ognuno dei quali con i propri errori ha maldestramente influito sugli eventi nei quali ha giocato un ruolo nefasto, anche se di rilevanza minore; nefasto al punto di determinare conseguenze negative e durevoli nella storia dell’umanità.

    Fazzini si è dunque cimentato nella individuazione di quei casi in cui il tradimento operato da questi comprimari della storia, generalmente riconducibili alla figura del traduttore, ha deciso perché gli eventi andassero in un senso contrario a quello enunciato nel documento tradito e non tradotto.

    Undici sono i casi considerati: che in relazione al peso specifico di ciascuno, Fazzini distingue in due categorie: quella definita dei grandi drammi – che sono sei – e quella dei drammi minori.

    In un procedimento a ritroso:

    • si parte dal Novecento, con i casi di Montecassino e di Hiroshima;

    • per passare all’Ottocento, ove il focus è rivolto alla sconfitta italiana di Adua e alla guerra franco-prussiana;

    • segue una finestra sulla seconda guerra punica;

    • per chiudere questa sessione con l’epistolario di fine Settecento fra Jefferson e l’italiano Mazzei.

    In questa prima parte prevale la rievocazione di pagine tragiche come, appunto, il bombardamento dell’abbazia di Montecassino o il lancio della bomba atomica sulle due città martiri di Hiroshima e Nagasaki: epilogo tragico nel quale ha giocato un ruolo non secondario l’errore di traduzione, nel primo caso della parola Abt interpretata dall’anonimo ufficiale inglese addetto all’intelligence come abbreviazione del termine Abteilung (= battaglione militare), invece che abate; nel secondo caso della parola polimorfa giapponese mokusatsu, la cui difficile traduzione – resa più ostica dal valore polisemico che aveva nella lingua di partenza – fu assunta dagli americani come espressione del rifiuto giapponese alla resa incondizionata. Con le conseguenze, in entrambi i casi, che ben conosciamo.

    Dello stesso tenore i capitoli nei quali l’autore si sofferma rispettivamente sulla politica coloniale dell’Italia nell’ultimo ventennio del

    XIX

    secolo e sul conflitto franco-prussiano. Nel primo caso, bisogna dare atto a Fazzini del giudizio assai severo che pronuncia nei confronti dei vari protagonisti (dal diplomatico Pietro Antonelli, al primo ministro Crispi, al negus Menelik), il cui comportamento concorse a determinare – assieme al diverso significato che avevano nella lingua italiana e in quella amarica alcuni termini inseriti nel trattato di amicizia firmato fra l’Italia e l’Etiopia – il fallimento dell’espansione coloniale dell’Italia. Anche nel secondo caso, centrale è il peso svolto dal testo di un dispaccio mal tradotto. Ma qui l’autore ha buon gioco nel rilevare che l’andamento di quella storia (e in generale di tutte le storie) fu determinato dalla miscela di diffidenza, sospetto, presunzione, arroganza che caratterizzava gli atteggiamenti dei principali soggetti attivi in quel quadrante storico, da Guglielmo

    I

    a Bismarck per finire con Napoleone

    III

    ; come dire che molto spesso gli accadimenti storici sono in diretta connessione con gli umori, i sentimenti, le prevenzioni di un imperatore o di un primo ministro, trovando cioè la causa scatenante nella natura umana.

    Il quinto capitolo consente all’autore un’immersione nella storia antica nella quale già in precedenza s’era misurato, con le opere dedicate alla triade di imperatori romani (Augusto, Vespasiano e Costantino). Qui si narrano le alterne vicende di Annibale, dall’assedio di Sagunto alla sconfitta di Zama, passando per il trionfo di Canne.

    Fin qui il lettore si trova di fronte a pagine luttuose della storia dell’umanità, con migliaia e talora milioni di morti, ove il lutto assume una valenza tragicamente paradossale se a monte di quegli eventi c’è una clamorosa svista di un traduttore rimasto quasi sempre anonimo.

    Altra musica nella seconda parte del libro, quella dedicata ai casi minori: qui Fazzini si sposta dalla storia alla cronaca, sia questa scientifica, come nel caso dei canali di Marte nei quali parecchi astronomi videro le prove dell’esistenza della vita sul Pianeta rosso; sia quella culturale, ed è il caso della simpatica trouvaille occorsa al romanzo di Thomas Mann Der Zauberberg, titolo che la prima traduttrice dell’opera (Bice Giachetti-Sorteni) mutò in La montagna incantata invece che – come avrebbe dovuto – in La montagna magica: e qui si dà il caso di un errore che pur riconosciuto come tale si è imposto anche a molti dei successivi traduttori, per la forza d’inerzia e per ragioni prevalentemente commerciali.

    Non meno singolari le vicende contemplate nei tre capitoli successivi, tra i quali il più godibile è certamente quello che riguarda nientemeno che la Bibbia: in una traduzione commissionata nel 1631 da Carlo

    I

    re d’Inghilterra uno dei dieci comandamenti, e precisamente il sesto, che nell’originale inglese suonava "Thou shalt not commit adultery, nella versione – a causa dell’omissione della negazione not – divenne l’esatto contrario: Thou shalt commit adultery", come a dire licenza biblica generalizzata all’allegra pratica dell’adulterio!

    Nella terza parte di questa sua vasta ricognizione, l’autore prende in considerazione travisamenti, imposture e fake news che nella loro genesi si apparentano ai casi descritti nella prime due sezioni dell’opera, tranne che per le loro dimensioni, spesso riconducibili a diversità di opinioni dottrinali o ideologiche.

    Anche qui lo spettro dell’indagine è notevolmente ampio: si va dalla gigantesca mistificazione che la Chiesa ha realizzato nella celebre donazione di Costantino a curiosità di tipo lessicale, grammaticale o sintattico come nei casi di Caligola e del suo cavallo senatore, a quello delle crociate dei fanciulli o a quello, davvero gustoso, delle corna di Mosè. Il tono qui si fa più leggero, assumendo la definizione di leggerezza che Italo Calvino ci ha segnalato. Con esiti spesso divertenti e risibili che aggiungono all’intera operazione confluita in questo libro un clima direi ameno.

    C’è comunque in tutte queste pagine una implicita ammonizione: dovere dello storiografo è quello di verificare sempre e comunque le fonti della notizia, risalendo a ritroso fra le varie interpretazioni che ne sono state date; e se i diversi punti di vista sono in contrasto fra di loro, Fazzini ritiene suo dovere farne comunque la citazione, se mai esprimendosi a favore dell’una o dell’altra tesi, con una procedura che direi dettata dal buon senso. Sicché il lettore agnostico come il sottoscritto ha la sensazione di un saccheggio fra le pieghe degli avvenimenti storici compiuto con un tono di voce medio, vorrei dire pacato, privo di supponenza come anche di esibizione di cultura. Come dire che l’autore ci invita, quasi fosse un compagno di viaggio, a un percorso nel vasto pelago delle luci e delle ombre di cui è impastata la storia.

    Quello che impressiona (favorevolmente) in questa ricerca è la notevole abilità che Fazzini ha nel navigare in rete: si notino le decine, forse centinaia di citazioni attinte dai vari siti informatici, citazioni che si aggiungono a quelle classiche bibliografiche, fornendo al lettore un ricco supporto di informazioni, tutte verificabili.

    Al termine di questa lunga cavalcata si ha l’impressione che l’autore abbia messo a punto una esaustiva antologia dei fenomeni qui considerati, antologia alla quale attingere di volta in volta, guidati dai singoli capitoli o dagli evidenti titoli, che consentono al lettore di scegliere a suo piacimento l’argomento preferito. A fare da cerniera su questa vasta casistica Fazzini premette il primo e l’ultimo capitolo, nei quali affronta il periglioso argomento della traduzione, argomento che da Omero in giù alimenta discussioni fra gli addetti ai lavori, fino ad aver acquisito dignità accademica di materia universitaria con tanto di cattedratici.

    La mia personale esperienza di studioso delle traduzioni dei sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli in diverse lingue straniere, tra cui inglese, francese, spagnolo, russo, tedesco, ceco e croato, mi porta a far mia la seguente conclusione: ogni poesia tradotta riduce il suo potenziale espressivo, ma mantiene almeno quello della comunicazione. E se questo è vero per una poesia scritta in un dialetto dell’Ottocento, è tanto più vero per le prose in cui sono stati redatti i documenti passati in rassegna in questo libro. Purché, ovviamente, come ammonisce l’autore, la traduzione sia il frutto di una scrupolosa professionalità.

    Resta da accennare alla versatilità di cui Fazzini dà prova in quest’opera: la sua curiosità onnivora lo cimenta a imprese per le quali la passione diventa competenza; se ne ha conferma nella vastità delle fonti consultate, citate in appendice nella folta bibliografia.

    E bravo Fazzini, esci a testa alta da questa avventura, offrendo al lettore un campionario esaustivo dei casi di traduzioni-tradimenti; e il lettore non si sente tradito, perché la tua prosa scorrevole, priva di impennate filologiche e sempre attenta a coniugare la divulgazione con il dovere della scientificità, si conferma devota allo spirito di servizio.

    FRANCO ONORATI

    Capitolo primo

    Ma la traduzione, tradisce?

    Stanno piovendo gatti e cani: ma cosa vuol dire?

    È semplicemente la traduzione letterale – parola per parola – dell’espressione inglese "It’s raining cats and dogs, a parte la semplice ed elementare considerazione – esclusivamente stilistica – che anche volendo tradurre alla lettera, in italiano diremmo cani e gatti, anziché l’inverso, perché è così, in quest’ordine – tra l’eufonico e lo zoologico – che ci esprimiamo solitamente nella nostra lingua: infatti in italiano cani e gatti suona meglio (direi quasi che scivola meglio) di gatti e cani. Ebbene, affermando It’s raining cats and dogs"¹ un inglese, ovviamente, non vuole dire che dal cielo stanno cadendo quei graziosi animali, bensì lascia semplicemente intendere che sta piovendo a catinelle ovvero – come, alternativamente, potremmo tradurre in italiano – che sta venendo giù un diluvio: anche questo, peraltro, in senso figurato e come iperbole poiché, per fortuna, non si tratterà certamente del diluvio universale di cui si narra nella Bibbia o nell’Epopea di Gilgamesh, o in qualche altro testo di epica sacra.

    Umberto Eco, in un suo saggio tanto accurato quanto godibile (pur se talora molto tecnico e quindi di ardua e scostante lettura), pone l’accento sul fatto di quanto sia problematico effettuare, o meno, una traduzione letterale: il tutto condito dalla sua garbata e sottile ironia. Eco – nel prendere in esame proprio l’espressione "It’s raining cats and dogs" nelle sue varie sfaccettature di significato e conseguenti possibilità di traduzione – infatti dice:

    Supponiamo che in un romanzo inglese un personaggio dica it’s raining cats and dogs. Sciocco sarebbe quel traduttore che, pensando di dire la stessa cosa, traducesse letteralmente piove cani e gatti². Si tradurrà piove a catinelle o piove come Dio la manda. Ma se il romanzo fosse di fantascienza, scritto da un adepto di scienze dette fortiane³, e raccontasse che davvero piovono cani e gatti? Si tradurrebbe letteralmente, d’accordo. Ma se il personaggio stesse andando dal dottor Freud per raccontargli che soffre di una curiosa ossessione verso cani e gatti da cui si sente minacciato persino quando piove? Si tradurrebbe ancora letteralmente, ma si sarebbe perduta la sfumatura che quell’Uomo dei Gatti è ossessionato anche dalle frasi idiomatiche. E se in un romanzo italiano chi dice che stanno piovendo cani e gatti fosse uno studente della Berlitz⁴, che non riesce a sottrarsi alla tentazione di ornare il suo discorso con anglicismi penosi? Traducendo letteralmente, l’ignaro lettore italiano non capirebbe che quello sta usando un anglicismo. E se poi quel romanzo italiano dovesse essere tradotto in inglese, come si renderebbe questo vezzo anglicizzante? Si dovrebbe cambiare nazionalità al personaggio e farlo diventare un inglese con vezzi italianizzanti, o un operaio londinese che ostenta senza successo un accento oxoniense (della città di Oxford)? Sarebbe una licenza insopportabile. E se it’s raining cats and dogs lo dicesse, in inglese, un personaggio di un romanzo francese? Come si tradurrebbe in inglese? Vedete come è difficile dire quale sia la cosa che un testo vuole trasmettere, e come trasmetterla⁵.

    Le ipotesi prospettate da Eco, oltre che varie e fantasiose, sono interessanti e del tutto plausibili e dimostrano efficacemente quanto sia delicato tradurre poiché, è ancora Eco che parla, «tradurre significa sempre limare via alcune delle conseguenze che il termine originale implicava»; occorre comunque tenere a mente quanto sia fondamentale trasporre un’opera dalla lingua originaria a quella del lettore poiché «ogni lingua è un mondo a se stante» per cui, come ama dire George Steiner, «senza la traduzione abiteremmo province confinanti con il silenzio»⁶ (una frase ormai famosa e citatissima che, non a caso, è stata poi adottata come slogan da tutte le più importanti agenzie che offrono qualificati servizi di traduzione!)⁷.

    Ma forse uno dei pezzi più interessanti che siano stati scritti sulle vicissitudini del mestiere di traduttore è il resoconto – anche se pervaso da una certa malinconia mista a disorientamento – che Luciano Bianciardi fa di una delle sue prime esperienze in quel campo, nel piccolo capolavoro, largamente autobiografico, La vita agra.

    Il personaggio principale del libro – volutamente anonimo ma da identificarsi nello stesso Bianciardi – chiamato a effettuare un lavoro di prova per il suo primo incarico di traduttore presso una grande rivista, si presenta nella redazione per conoscere il giudizio sulla traduzione che gli era stata assegnata e che aveva poi riconsegnata dopo alcuni giorni di lavoro. Si presenta quindi alla gentile vedova Anna Viganò, responsabile del settore traduzioni dall’inglese in italiano per quel giornale, dicendo di lei che era «la gentile signora che… mi diede i suoi consigli, e io ne feci tesoro, perché oltre ai consigli dava il lavoro, quella. Mi raccomandò di tenermi fedele al testo, di consultare spesso il dizionario, di badare ai frequenti tranelli linguistici… di evitare le rime, ato ato, ente ente, zione zione, così consuete nei traduttori alle prime armi»⁸.

    Il protagonista aveva svolto al meglio il proprio incarico e confidava in un giudizio positivo, anche perché la vedova Viganò (in realtà era lui a essersela immaginata vedova!⁹), maternamente, l’aveva preso a benvolere, vedendolo giovane, timido, inesperto e, soprattutto, bisognoso di lavorare.

    L’esito fu invece disastroso.

    La Viganò, materna e comprensiva quanto si vuole, sicuramente ottima conoscitrice della lingua inglese – e, beninteso, di quella italiana – non possedeva tuttavia quella sensibilità che dovrebbe essere propria di un traduttore, ovvero sapersi immedesimare nel pensiero dell’autore, cogliendo quindi l’essenza e l’intimo significato della narrazione così come è nella lingua originale, per poi trasportarli nella lingua di arrivo, tenendo sempre bene a mente che, nel corso dei secoli, Orazio non è stato il solo ad affermare che «da buon traduttore dovrai avere cura di non tradurre parola per parola»¹⁰.

    Invece – dopo l’impietosa disamina del testo che era stato tradotto dal protagonista – ecco l’amorevole vedova raccomandargli «io lo dico sempre ai traduttori: non cercate di inventare, state sempre dietro al testo, che oltre tutto è più facile» e quindi continuare con una sfilza di annotazioni, osservazioni, correzioni che definire un misto di pedanteria, capziosità e pignoleria sarebbe poco; dice la Viganò: «Benedetto figliolo… lei mi traduce: Gli strinse la mano. Ebbene, l’inglese è più preciso e dice infatti: He shook his hand, cioè egli strinse, ma più precisamente scosse la sua mano, o se vuole, meglio ancora, egli scosse la mano di lui» e, ancora, «a volte lei appiattisce certi bei modi di dire inglesi… i mezzi da sbarco erano le mille miglia lontani dalle coste laziali. Questo suo le mille miglia è assai meno efficace che nel testo inglese, dove si parla di a hell of a distance, cioè di un inferno di distanza. Sente come è bello?… È molto più robusto, questo inferno di distanza, non le pare?». Infine la vedova Viganò conclude in questo modo il suo giudizio complessivo sul modus operandi del povero Bianciardi: «Vuole un consiglio? Si faccia prima le ossa con qualche editore minore, poi ritorni fra qualche mese, un anno. E si ricordi i miei consigli».

    Quindi traduttore bocciato, lavoro negato.

    Così si esprimeva la buona Viganò – nella sua semplicità di mente – lasciando del tutto interdetto l’altrettanto buon Bianciardi che, però, si rendeva ben conto di quanto una traduzione non dovesse mai appiattirsi sull’originale, anche a costo di tradirlo un poco, meglio se pochissimo (ove possibile!); lo riconosce Franco Cardini che, nel presentare un volume da lui curato sul complesso tema del Tradurre, tràdere, tradire¹¹, ha dichiarato «questo libro spiega, anche attraverso lo stesso titolo, come la traduzione sia uno strumento di comprensione di vitale importanza per tràdere, trasportare e condurre le nostre conoscenze… anche se ogni traduzione racchiude un principio di inevitabile tradimento rispetto al testo originale».

    Un altro notevole contributo al concetto che – sì! – la traduzione tradisce, ci viene offerto da Ann Goldstein. Rinomata autrice, a un certo punto della sua vita ha deciso di cimentarsi nella traduzione, ottenendo ottimi risultati anche in questo campo¹². Dopo aver tradotto Giacomo Leopardi, Primo Levi e Pier Paolo Pasolini l’autrice americana e redattrice per lunghi anni del «New Yorker» ha tradotto alcuni lavori della misteriosa Elena Ferrante riscuotendo un grande successo: intervistata a proposito delle difficoltà incontrate in questa sua più recente fatica, la Goldstein ha affermato con sicurezza che talvolta i traduttori sbagliano «per non aver capito l’intenzione o lo stile dell’autore», per poi riconoscere – in una successiva intervista rilasciata a Giuseppe Fontana per l’edizione italiana di «Huffington Post» – che inevitabilmente «ogni traduttore è un traditore»¹³.

    Andando indietro nel tempo, in materia di traduzione una citazione di grande valore spetta a Madame de Staël, che nel gennaio 1816, col suo saggio Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni¹⁴, attirò l’attenzione del mondo colto europeo su questo importante modo di trasmissione della cultura. All’epoca, tuttavia, il punto principale su cui dibattere non era la possibilità che una traduzione, per buona che fosse, potesse tradire l’originale; piuttosto, concerneva la querelle in atto fra classicisti e romantici – tutta italiana – nella quale i primi venivano criticati per la ripetitività e la staticità della loro ispirazione, che attingeva troppo alla mitologia classica. Madame de Staël (che prendeva le parti dei romantici) consigliava pertanto ai classicisti di trarre i propri motivi creativi dalle letterature europee romantiche – in primis la tedesca e l’inglese – che, nel pensiero dell’aristocratica parigina, presentavano interessanti spunti di modernità e innovazione: il suggerimento era di leggere quegli autori ricorrendo – auspicabilmente – a una traduzione.

    Madame de Staël che, in odio a Napoleone, era vissuta per una decina di anni in esilio nelle sue proprietà sul lago di Ginevra – in una sorta di dorato buen retiro – iniziava questo suo saggio in favore delle traduzioni (scritto finalmente in Francia, dove era appena rientrata dopo la caduta del Bonaparte) affermando che: «Trasportare da una ad altra favella le opere eccellenti dell’umano ingegno è il maggior benefizio che far si possa alle lettere», anche se aggiungeva che «il miglior mezzo per non abbisognare di traduzioni sarebbe il conoscere tutte le lingue nelle quali scrissero i grandi… Ma quanta fatica, quanto tempo, quanti aiuti domanda un tale studio!». Proseguendo, la de Staël dichiarava: «Dirò di più: se alcuno intenda compiutamente le favelle straniere, e ciò non ostante prenda a leggere nella propria lingua una buona traduzione, sentirà un piacere per così dire più domestico ed intimo provenirgli da que’ nuovi colori, da que’ modi insoliti, che lo stil nazionale acquista appropriandosi quelle forestiere bellezze». Poi, scendendo più in dettaglio e passando a occuparsi delle cose italiane, Madame de Staël affermava: «Dovrebbero a mio avviso gl’Italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro cittadini, i quali per lo più stanno contenti all’antica mitologia… Perciò gl’intelletti della bella Italia, se amano di non giacere oziosi, rivolgano spesso l’attenzione al di là dall’Alpi».

    Quella di Madame de Staël era l’esaltazione del movimento romantico europeo ma, indirettamente, dava l’avvio a un dibattito – che dura ancora oggi – sull’utilità di ricorrere alle traduzioni e, soprattutto, sulla loro fedeltà al testo originario. Quest’ultimo punto, oggi divenuto una vexata quaestio, va ormai reclamando un’importanza sempre maggiore e una propria autonomia di trattazione, come argomento a se stante riassunto nella cruciale domanda ma la traduzione, tradisce?: la risposta è sì, non potrebbe essere altrimenti. Ciò è riconosciuto dai più, fra i tanti Carlo Dossi che, nelle Note azzurre, ha scritto «le traduzioni delle opere letterarie, o sono fedeli e non possono essere se non cattive, o sono buone e non possono essere se non infedeli»¹⁵.

    In conclusione, a fondamento di qualsiasi impegno di traduzione, andrebbero ricordate le sagge e concilianti parole di Giovanni Mariotti: «Non sempre una traduzione può essere rigorosamente fedele, ma lo deve essere ogni volta che può»¹⁶.

    ¹ La cultura anglosassone non ha una spiegazione univoca sul come e sul perché sia nata una simile espressione, ma un’esauriente esposizione la troviamo nel sito della Library of Congress di Washington D.C.: https://www.loc.gov/rr/scitech/mysteries/rainingcats.html.

    ² Come si vede, neanche l’illustre semiologo,

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