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I segreti di Primrose Square
I segreti di Primrose Square
I segreti di Primrose Square
E-book457 pagine6 ore

I segreti di Primrose Square

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Info su questo ebook

Quali storie si celano dietro le porte chiuse?

È notte fonda e la pioggia cade sulle strade di Dublino. Una madre è disperata perché la sua bambina è morta. Lascia che l’acqua le scorra addosso mentre rimane ferma davanti a una finestra, guardando all’interno della casa in cui vive il ragazzo che ritiene responsabile. In una delle cucine che si affacciano sulla stessa piazza, una ragazza aspetta il ritorno di sua madre. Sa esattamente dove si trova, ma non è sicura di poterla raggiungere. Qualche finestra più in là, una vedova è seduta da sola nella sua stanza. Sta per dare una notizia bomba alla sua famiglia, in tempo per la cena, e la sua vita sta per cambiare per sempre. Una giovane regista teatrale si è da poco trasferita in un appartamento dall’altra parte della strada. Il suo padrone di casa è assente, ma c’è qualcosa sul suo conto che proprio non torna… Ognuna delle finestre che si affacciano su Primrose Square ha una storia da raccontare. E le vite di un gruppo di donne che abitano allo stesso indirizzo stanno per intrecciarsi.

Ci sono storie nascoste dietro ogni porta

«Una storia brillante e divertente.»
The Sun

«Un ottovolante di emozioni, effervescente e struggente al tempo stesso.»
Irish Independent

«Brillante, divertente e in grado di incollarti alle pagine.»
Liz Nugent, autrice del bestseller Il mistero di Oliver Ryan

«Un’autrice piena di talento e ironia.»
Sheila O’Flanagan, autrice del bestseller Il segreto di mia madre

Claudia Carroll
vive a Dublino. È autrice di quattordici romanzi di successo, tre dei quali sono stati opzionati per diventare film o serie TV. Dopo aver trascorso molti anni affiancando la scrittura alla recitazione, ha scelto di diventare una scrittrice a tempo pieno, abbandonando il ruolo nella soap opera Fair City, che l’ha resa famosa.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2019
ISBN9788822732750
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    Anteprima del libro

    I segreti di Primrose Square - Claudia Carroll

    INVERNO

    Susan

    48, The Crescent

    Susan una volta non era così. A guardarla adesso, zuppa fino all’osso in una notte buia e ventosa, mentre se ne stava per strada davanti alla casa di un diciottenne a fissare, nient’altro che fissare, la finestra della sua camera, l’avreste presa per una sorta di maniaca squilibrata.

    Sono le otto e otto minuti, pensava, guardando l’orologio. Resterò qui finché posso, non mi importa se piove forte. Dall’amara esperienza degli ultimi mesi, sapeva di poter restare indisturbata per massimo un’ora, poi qualcuno sarebbe uscito per attaccare bottone. Per dirle di rinsavire e che a casa aveva una figlia preadolescente che aveva bisogno di lei.

    «Ma non hai niente di meglio da fare, Susan? Lo sappiamo che stai male, ma fare del male anche a noi non cambierà le cose, lo capisci?».

    Nell’ipotesi peggiore, qualcuno all’interno della casa avrebbe chiamato le forze dell’ordine (di nuovo) per denunciarla (ancora). Dopodiché, se non erano troppo occupati, avrebbero mandato una pattuglia con gli agenti, di solito tra i trentaquattro e i quarantadue minuti dopo, con i lampeggianti e le sirene spiegate, nel caso volessero davvero spaventarla.

    Sarebbero saltati fuori due poliziotti – sono sempre in due – uno dei quali in genere era una donna, che con Susan faceva la parte del poliziotto cattivo, almeno finché non sentivano la sua versione della storia. Poi, dopo averle fatto un bel discorsetto, e magari anche qualche velata minaccia sul fatto che stava correndo il rischio di farsi rinchiudere se non la smetteva, l’avrebbero riportata a Primrose Square. Lì, di solito, le preparavano una tazza di tè forte propinandole la stessa predica della serie guai a te a cui Susan aveva assistito decine di volte.

    In genere andava così, appena capivano che non era una piromane o una molestatrice o una squinternata di mezz’età innamorata di un minorenne. Solo una donna qualunque che affrontava l’inimmaginabile nell’unico modo che conosceva.

    Sarebbe passato del tempo, giorni, persino settimane. E prima o poi i poliziotti avrebbero provato a lavarsene le mani di tutta la tiritera delle scuse (un’altra volta), con la minaccia di un ordine restrittivo o di una visita dell’assistente sociale «solo per controllare come stai», e un severo avvertimento a «cercare di stare più attenta in futuro, Susan. Sappiamo che non dev’essere facile per te, ma questo tipo di comportamento non ti agevola. La prossima volta potresti finire in guai seri».

    Ne varrebbe la pena, pensava Susan mentre un autobus, nel passare, la inzaccherava, ostruendo per un attimo la visuale della casa su cui si era fissata. Ne valeva di sicuro la pena. Che male c’era, dopo tutto? Se ne stava sul suolo pubblico a farsi gli affari suoi, niente di più. Nulla che non fosse nel suo pieno diritto fare. Tra l’altro, in quella città, i poliziotti dovrebbero essere in giro a catturare i pericolosi signori della droga e non ad assillare innocue signore che non davano fastidio a nessuno. Per lo meno, nessuno che non se la fosse andata a cercare fin dall’inizio.

    Non posso dimenticare, pensava. Mai, finché avrò fiato, riuscirò a dimenticare. Perché lui non dovrebbe fare altrettanto? Perché questo stronzo dovrebbe poter dormire la notte sereno nel suo letto dopo quello che ha fatto?.

    Starò qui altri cinquantasette minuti e quarantacinque secondi stasera, ha deciso, sbirciando l’orologio nel buio gelido. Poi, a meno che non l’avessero sbattuta in prigione per la notte come misura cautelare, sarebbe ritornata l’indomani, esattamente alla stessa ora, per ripetere tutto daccapo.

    Melissa

    18, Primrose Square

    Alle 20:08 in punto Melissa Hayes era a casa, nell’estensione della cucina un tempo vanto e gioia di sua madre, a riscaldarsi dello spezzatino che nessun altro avrebbe toccato, accertandosi di lasciare poi tutto perfettamente pulito, cosa per cui nessuno l’avrebbe ringraziata. A dodici anni, cercava con tutte le forze di mantenere una parvenza di normalità.

    Almeno il padre l’aveva chiamata dall’estero, pensava mentre sbocconcellava un pezzetto di carne. (Era così buono quando l’aveva preparato durante l’ora di economia domestica della signorina Hogan, invece adesso era secco e salato, forse perché l’aveva lasciato troppo tempo nel forno). Avevano parlato solo pochi minuti, ma non importava. Melissa poteva ringraziare la sua buona stella se, almeno il padre, era un genitore di cui non si doveva preoccupare.

    Era in missione nell’esercito con le truppe di pace in Libano, dove lavorava nel corpo degli ingegneri. Un periodo di servizio di sei mesi, per il quale aveva firmato l’anno prima, non molto tempo dopo l’accaduto. Una fuga, aveva pensato Melissa all’epoca, anche se, naturalmente, non lo aveva detto ad alta voce. Il padre aveva con pazienza spiegato di non aver avuto scelta; quando si è tenente capitano nell’esercito bisogna andare ovunque si viene spediti, senza poter avere voce in capitolo.

    A ogni modo, per come la vedeva Melissa, aveva tutta l’aria di una fuga.

    «Si tratta solo di qualche mese, tesoro», aveva provato a rassicurarla prima di partire. «Tutto qui. E chiamerò la mia piccola principessa tutti i giorni, te lo prometto».

    Melissa aveva trattenuto le lacrime dicendogli che capiva, anche se non era vero. Era assurdo; per lei suo padre era come una roccia, quindi perché doveva andarsene e abbandonarle in un momento simile? Per notti e notti, invece di dormire, era rimasta ad ascoltare i genitori litigare e sapeva quanto la madre fosse sconvolta, perciò il suo compito era diventato fingere di non esserlo.

    Dopo l’accaduto, Melissa era diventata brava a fingere. Molto brava; così brava da riuscire a far credere per tutto il giorno di stare bene, quando nei dintorni c’erano degli adulti, e a tenersi le lacrime per quando restava da sola nella sua stanza. Lacrime silenziose che nessuno avrebbe mai sentito. Riusciva a far finta che non le importasse neanche un po’ quando la zia Betty le scompigliava i capelli dicendo: «Ora devi essere una ragazzina coraggiosa, cucciola. Ricordati che sei tutto ciò che resta ai tuoi genitori».

    Melissa era persino riuscita a fare un gran sorriso gioioso quell’orribile mattina in cui aveva salutato con la mano il padre, vestito di tutto punto con la sua uniforme. C’era solo Melissa a salutarlo; sua madre non si era nemmeno degnata di alzarsi dal letto. Forse perché lui stava scappando. Lei lo sapeva, sua madre lo sapeva, tutti lo sapevano. Melissa non lo incolpava nemmeno. Una parte di lei addirittura desiderava essere un po’ più grande per poter fuggire allo stesso modo.

    «Allora, dov’è tua madre?», aveva chiesto quella sera, su una linea telefonica alquanto disturbata. «Posso parlare con lei?»

    «È appena uscita a fare un po’ di spesa», aveva detto Melissa, detestando dover mentire. Ma a che scopo far preoccupare suo padre dal momento che era a migliaia di chilometri di distanza? Era solo cattiveria. Meglio far finta che tutto andasse a meraviglia a casa, nella speranza che la madre non restasse fuori troppo a lungo. Meglio fingere. Meglio tenere la verità ben nascosta.

    «E come sta?», aveva chiesto il papà, preoccupato.

    «Mamma? Oh, lei… mmm… è okay. Alla grande. Tutte e due alla grande. È solo che ci manchi papà, tutto qui».

    «D’accordo, principessa», aveva detto dopo una lunga pausa dubbiosa, con la voce che andava e veniva lì dal Medio Oriente. «Bene, dille che ho chiamato e che richiamerò domani alla stessa ora. E che vi voglio tanto bene».

    «Riferirò!». Melissa si era sforzata di dirlo con tono allegro, prima di riattaccare. Almeno aveva chiesto di lei, pensava, costringendosi a mandare giù un orribile pezzetto di quella carne gommosa. Anche se Melissa gli aveva raccontato un mucchio di bugie.

    La verità era che alle nove meno un quarto la madre non dava ancora notizie di sé. Non rispondeva neppure al telefono; Melissa aveva provato a contattarla tutta la sera senza riuscirci. Così adesso era passata dall’essere un po’ preoccupata al sentirsi proprio male, quasi sul punto di vomitare.

    Non riuscendo a sopportare l’odore dello spezzatino, lo ha spinto via e ha raccolto lo zaino di scuola dal pavimento, così almeno poteva portarsi avanti con i compiti per il giorno dopo. C’erano una montagna di panni da stirare e il bucato ancora da fare, ma quello doveva aspettare, come pure tutto il resto delle faccende.

    Tornata da scuola, Melissa aveva trovato la cucina nel caos e aveva già perso molto tempo a pulire – o almeno, a fare del suo meglio. Aveva svuotato la lavastoviglie, l’aveva riempita di nuovo, portato fuori l’immondizia – che oramai puzzava – e ripulito tutte le superfici della cucina. Non era molto, ma almeno se i vicini o gli assistenti sociali fossero ritornati a fare domande inopportune, la casa sarebbe stata decente.

    Diciamo, passabile. Le camere al piano di sopra erano un vero porcile e Melissa neanche si ricordava l’ultima volta che erano state cambiate le lenzuola o lavati gli asciugamani. Ma per quello bisognava aspettare che avesse un po’ più di tempo nel fine settimana, no?

    Era già indietro da morire con il tema d’inglese su Romeo e Giulietta e, se l’indomani non avesse consegnato qualcosa, sarebbero stati guai seri. Sally Jenkins, la psicologa della scuola, l’avrebbe presa da parte cominciando a chiederle come andavano le cose a casa e come se la stavano cavando. Ultimamente capitava spesso ed era mortificante.

    «Non voglio metterti in difficoltà con domande personali, Melissa», aveva detto Sally qualche giorno prima. «Ma sappiamo che ora come ora le cose non devono essere facili per la tua famiglia. Voglio solo dirti che, se hai bisogno di parlare, sappi che la mia porta è sempre aperta».

    Melissa sapeva che Sally era una brava persona, con un bell’ufficio dove c’erano ciotoline con frutta fresca e Maltesers a disposizione, e a Sally non importava se ne prendevi tanti da mangiare in un secondo momento.

    «Cerca solo di non rovinarti l’appetito per la cena», aveva detto allegramente a Melissa solo la settimana prima. «Altrimenti la mamma si arrabbierà con te!». Non sapeva che il mini-pacchetto di Maltesers e la mela che Melissa si era ficcata nello zaino erano la sua cena.

    Melissa non riusciva a ricordare l’ultima volta che la madre aveva fatto la spesa o cucinato o fatto qualcosa di normale, come tutte le altre madri. Sapeva che Sally aveva solo buone intenzioni, ma poteva davvero raccontarle cosa stava succedendo? Che doveva badare a se stessa perché la madre non sembrava esserne più capace? Come poteva raccontare la verità a un adulto qualsiasi senza il rischio di venire data in affidamento?

    Così Melissa aveva fatto quello che si era allenata a fare negli ultimi mesi e settimane: indossare la sua maschera più spavalda e gioiosa e convincere Sally che a casa era tutto assolutamente fantastico, grazie mille.

    «Tra l’altro, la mamma non vede l’ora di partecipare alla gara di torte di questo fine settimana». Aveva assunto un’espressione raggiante, stampandosi in faccia il sorriso più grosso e fasullo possibile per infiorettare la frottola. «Passa tutto il giorno a infornare. Vedrà i biscotti al cioccolato che ha preparato, Sally, sono la fine del mondo!».

    Tutte bugie, ovviamente. Erano mesi che la madre di Melissa non cucinava un semplice pasto, figuriamoci preparare un dolce. Probabile che Melissa non si fosse nemmeno curata di dirle della gara di torte; la madre avrebbe solo detto qualcosa del tipo: «Ah, sì?», per poi tornare ad attorcigliarsi ciocche di capelli fissando il vuoto, come faceva ultimamente. Però Melissa doveva dire qualcosa per salvare le apparenze. Qualcuno in quella famiglia doveva mandare avanti il carrozzone, giusto?

    Ha fatto un sospiro e guardato la tavola vuota, che aveva in automatico apparecchiato per quattro, per poi sentirsi triste al pensiero che ormai non ce ne sarebbe più stato bisogno. Un tempo a cena si chiacchierava un sacco di quello che era successo durante la giornata, proprio come in qualsiasi altra famiglia. Sua madre e suo padre ridevano sempre per qualche battuta tra loro, mentre sua sorella maggiore, Ella, teneva banco, di solito blaterando di politica o di qualche manifestazione a cui intendeva partecipare.

    Ella aveva sempre il naso ficcato in mezzo ai libri quando stava a tavola e la madre doveva toglierglieli tutte le volte, dicendole che era cattiva educazione leggere quando si cenava tutti insieme. Spesso loro due finivano per litigare, ma in maniera scherzosa. Finti litigi. Ella poi faceva un sospiro teatrale, dicendo qualcosa di sarcastico, tipo: «Be’, scusa tanto se cerco di ampliare i miei orizzonti, mamma». Ma Ella lanciava sempre a Melissa un’occhiata esasperata, come a dire: «Questi genitori…!», seguita da un piccolo sorriso rassicurante per mostrarle che in fondo la cosa non la infastidiva.

    C’era stata un’epoca, non molto tempo prima, in cui Melissa non doveva raccontare frottole su sua madre che preparava dolci o partecipava a gare di torte, o su come andavano le cose a casa. C’era stato un tempo in cui gli Hayes erano una famiglia normale e Melissa non avrebbe mai pensato di dover mettere piede nell’ufficio della psicologa.

    Ma quello era allora, ha pensato, togliendosi quel ricordo dalla testa mentre tirava fuori il quaderno, decisa a mettersi al lavoro sul suo tema. E questo è adesso.

    Alle 21 non c’era ancora alcuna traccia di sua madre. Con i compiti tutt’altro che abbandonati, il nodo allo stomaco dovuto alla tensione era peggiorato parecchio. Ancora nessuna risposta ai suoi messaggi, anche se a questo punto gliene aveva inviati quasi una decina.

    mamma, dove sei? per favore torna a casa, mamma. ti prego.

    Ovunque tu sia, ha pensato Melissa, rileggendo il messaggio per assicurarsi che fosse partito. Ma chi voleva prendere in giro? Sua madre poteva essere solo in un posto.

    Oramai non ci riusciva più a concentrarsi sui compiti, così ha aperto la porta d’ingresso, è scesa giù dai tre gradini di pietra che danno su Primrose Square e ha guardato rapidamente a destra e a sinistra, nel caso sbucassero da dietro l’angolo tracce riconoscibili della piccola Nissan. Era una serata buia e ventosa e si era messo a piovere, così ha afferrato il giubbotto di Ella e si è coperta la testa con il cappuccio per non bagnarsi. Odorava ancora del buon profumo al limone che Ella aveva comprato da Lush, e la cosa riusciva quasi a essere rassicurante.

    Se riesci a sentirmi, ha pregato Melissa rivolta a sua sorella, allora fa che la mamma torni a casa sana e salva. Ti prego, ti chiedo solo questo.

    Ha trascorso un’altra mezz’ora a camminare senza sosta su e giù per la piazza, pregando che la madre tornasse a casa presto, ma si erano fatte le 21:30 e ancora non si vedeva. La strada era terribilmente tranquilla a quell’ora e i cancelli del parco di Primrose Square d’inverno venivano chiusi presto, così tutto appariva deserto e faceva un po’ paura. Il vento ululava tra gli alti platani spogli e la giostrina del parco giochi cigolava, come se sopra ci fossero dei fantasmi.

    C’erano un sacco di luci accese nelle case attorno alla piazza, il fumo usciva dai comignoli, segno che dentro c’erano delle famiglie normali, impegnate in normali attività di famiglia, come cenare, fare i compiti e guardare YouTube. Non passeggiare su e giù per la piazza nella notte gelida a cercare una madre che era sparita.

    Sul lato opposto della piazza, Melissa è riuscita a vedere la dottoressa Khan salire sulla sua enorme jeep, probabilmente diretta al reparto maternità in cui lavorava a orari assurdi come anestesista. La dottoressa Khan, però, aveva l’aria seccata e andava di fretta, forse l’avevano chiamata per un’urgenza, perché non si è affatto accorta di Melissa lì fuori da sola, sotto la pioggia; è saltata in macchina allontanandosi a tutta velocità.

    Melissa ha fatto un sospiro, e stava quasi per arrendersi quando ha sentito un debole stridio, poi qualcosa di caldo e soffice tra i piedi. Era Magic, il gatto di Jayne, la vicina, che piangeva perché voleva tornare dentro.

    «Oh, Magic, ma guardati, sei zuppo», ha detto Melissa, raccogliendo quel piccolo batuffolo tremante di pelo bagnato per accoccolarselo dentro il giubbotto. «Andiamo, Jayne sarà preoccupata e ti starà cercando dappertutto».

    Ha bussato alla porta di Jayne – al numero diciannove – dove la povera vecchietta teneva il televisore a volume così alto che la sigla di Miss Marple tuonava fin sulla strada. C’è stato un lungo intervallo mentre Melissa aspettava pazientemente sotto la pioggia che la porta si aprisse – probabilmente Jayne stava frugando in giro in cerca delle chiavi.

    Jayne era una vicina adorabile, anche se doveva avere circa cent’anni. Era cordiale e affettuosa e sembrava afferrare quando uno aveva bisogno di starsene per conto proprio, a differenza di gran parte delle persone. Non trattava mai Melissa con sufficienza, o faceva la voce triste mettendola in imbarazzo con domande del tipo: «Allora, dimmi, come va a casa?», come facevano gli altri.

    Era quasi come una nonna per Melissa, eppure l’aveva sempre trattata da adulta e Melissa le voleva bene per questo. Tutti a Primrose Square adoravano Jayne – abitava lì da quando si era sposata, nel lontano Medioevo, ed era di gran lunga la residente più anziana. Jayne viveva sola da quando era morto il marito, Tom, ma tutti gli altri residenti si impegnavano a vegliare su di lei.

    C’è voluto un tempo infinito, ma alla fine Melissa ha sentito un lento scricchiolio dall’altra parte della porta, insieme alla luce dell’ingresso che si accendeva.

    «Oh, Melissa, tesoro, sei tu», ha detto Jayne, con la faccia che si apriva in un sorriso. «Che bella sorpresa. Togliti dalla pioggia, vieni dentro, cucciola, ti prenderai un accidente. E mi hai pure riportato Magic», ha aggiunto, mentre il gatto saltava via dalle braccia di Melissa e correva al caldo. «Dio solo sa cosa avrà combinato finora quella scimmietta».

    «Scusami, Jayne, non ti volevo disturbare», ha detto Melissa, scuotendosi di dosso il grosso della pioggia prima di entrare. La casa di Jayne era così accogliente, c’era sempre un bel calduccio e pulito dappertutto, anche se era zeppa di porcellane da vecchia signora, libri e dischi in vinile impilati. C’era un perenne profumo di cibo appena sfornato che proveniva dalla cucina – stasera odore di cannella e zenzero, che aveva fatto gorgogliare lo stomaco di Melissa ancora di più. Si sentiva quasi colpevole nel desiderare di poter passare la notte lì, dove sarebbe stata al sicuro e accudita, forse persino nutrita.

    «Non mi disturbi affatto», ha detto Jayne allegra. «Stavo solo armeggiando col mio nuovo computer portatile. Sto provando a usare Skype. Mi sembra che funzioni. Sono nel mezzo di una chiamata, al momento – e non mi costerà neanche un centesimo. Non è fantastico? E adesso sono anche su Facebook. Devo mandarti una richiesta di amicizia uno di questi giorni, tesoro».

    «Bene… ti lascio alle tue cose, allora», ha detto Melissa, un po’ sorpresa che una persona anziana come Jayne sapesse tutto di Skype e Facebook. «In ogni caso, devo proprio andare». Era quasi arrivata a metà dei gradini di pietra, riluttante a tornare di nuovo al freddo, quando Jayne l’ha bloccata.

    «Aspetta un attimo, cucciola», ha detto Jayne, prendendole il braccio e guardandola un po’ sospettosa. «Che ci fai fuori così tardi, di notte e con la pioggia? Senza ombrello?»

    «Oh, niente», ha balbettato Melissa. «Ho solo sentito Magic che miagolava e ho pensato che volesse entrare dentro, tutto qui».

    «Non vedo la macchina di tua madre», ha detto Jayne, uscendo fuori sotto la pioggia e scrutando su e giù la fila di macchine parcheggiate. «E comunque, dov’è Susan a quest’ora e con un tempo simile?»

    «Oh… è uscita, sai…», la voce di Melissa si affievoliva.

    «Non dirmi che sei stata sola tutta la sera!».

    «No, niente affatto». Melissa ha cominciato a mentire, soprattutto per forza d’abitudine, ma gli occhi preoccupati di Jayne hanno subito intuito tutto.

    «Non hai bisogno di fare quella faccia da coraggiosa con me, cucciola, lo sai», ha detto, guardandola con attenzione. «È con me che stai parlando. Ti puoi fidare, non dirò una parola. Voglio solo che tu stia al sicuro, tutto qui».

    «La mamma… non c’è», ha detto Melissa con una vocina tremante, inclinando la testa, grata di potersi liberare di un simile peso.

    «Non lo sai dove è andata?».

    Silenzio. Melissa ha scosso solo un po’ la testa, il massimo che riusciva a fare senza scoppiare a piangere.

    «Bene. Resta qui, tesoro. Prendo le chiavi della macchina e vado a cercarla».

    «Ma sei nel bel mezzo di una telefonata su Skype…».

    «Non ti preoccupare di questo», ha detto Jayne senza indugio. «Tu sei molto più importante di una telefonata. Credo che tutte e due sappiamo esattamente dove trovare tua madre, quindi andiamo e riportiamola a casa, va bene? E non ti preoccupare, piccola, non ne farò parola con nessuno. Sarà il nostro piccolo segreto».

    Jayne

    19, Primrose Square

    «Ciao, Tom, amore, sono io. Di nuovo», ha detto Jayne mentre dava dei cazzotti all’impasto di pane che stava preparando, chiacchierando nella cucina vuota.

    «È che devo assolutamente parlarne con qualcuno prima di perdere la ragione. Immagina di avere una grossa notizia da dare alla famiglia e di non sapere come farlo. Ho cercato di nascondere il più a lungo possibile quello che sta succedendo, ma non credo sia giusto che io continui a tenerlo per me. Bisogna dirlo a Jason; e pure subito – è il minimo che possa fare per il nostro unico figlio. Quel che è giusto è giusto e, dopo tutto, questo potrebbe cambiargli la vita tanto quanto a me.

    «Quindi gli ho mandato una mail (Già… proprio io, Tom, e le mail… L’avresti mai detto? Dicevi sempre che dovevo prendermi un computer e adesso chi mi ferma più?) e l’ho invitato a venire più tardi per una bella cenetta. L’idea è di preparare delle costolette di maiale per Jason – le adora – e, se si porta appresso anche Irene, vorrà dire che a lei farò un po’ di lattuga fin quando non avrà finito con questa scemenza della 5:2, o qualunque sia l’ultima dieta che sta seguendo al momento. Poi aspetto fino a quando non avranno finito di mangiare tutti e due, perché lo sai benissimo che con Jason si ragiona molto meglio dopo che si è riempito lo stomaco.

    «Lo so che potrà sembrare un po’ maleducato da parte mia, tesoro», ha continuato, rovesciando l’impasto sul piano da lavoro e spruzzandovi sopra della farina, «ma in realtà spero che non riescano a trovare una babysitter, così Jason non potrà portarsi appresso Irene. Certo, quella donna ha i suoi pregi e tu ti affannavi sempre a ricordarmi che fantastica moglie sia per lui e anche una brava mamma per i gemelli, ma Madre divina, metterebbe a dura prova la pazienza di un santo.

    «Ti ricordi la volta in cui Irene è venuta, non molto tempo dopo il tuo funerale, dicendomi che poteva far valutare la casa da un professionista senza spendere nulla?

    «L’agenzia immobiliare per cui lavoro sarà ben felice di prendersene carico per te, mi ha detto, con quella sua faccia tosta. Poi, per tutta la sera, non ha fatto altro che parlare di sua madre alla casa di cura, di come all’inizio l’idea la terrorizzasse e di come si è subito trovata benissimo nell’istante in cui ci è entrata. Oh, alla mamma hanno insegnato come disporre i fiori in maniera professionale e ha persino imparato a fare i dolci in casa, mi ha detto la gran dama, proprio qui nella mia cucina, con te, seduto proprio lì nella tua urna, come testimone, Tom.

    «È un’idea da prendere in considerazione, sai, mi ha detto, tutta orgogliosa e con un gran sorriso falso in faccia. Nessuno di noi ringiovanisce. E vivere da sola non è facile, soprattutto da quando Tom ci ha lasciati. Siamo la sola famiglia che hai e ci preoccupiamo per te.

    «Be’, solo la buona educazione mi ha impedito di darle uno sganassone su quella sua faccetta da impunita. Le ho detto che non andavo proprio da nessuna parte e che l’unico modo in cui avrei lasciato questa casa sarebbe stato dentro una bara. E quanto all’arte di disporre i fiori e alla preparazione di dolci, le ho detto, sappi che il mio pan di Spagna al Madeira è arrivato terzo alla gara di dolci di Primrose Square quest’anno.

    «Allora ha continuato con la stessa solfa, parlando della casa al civico ventiquattro, in fondo alla strada, che ha i lavori di ristrutturazione in corso da una vita. La mia agenzia la metterà in affitto molto presto, mi ha detto, senza dar segno di voler chiudere quella boccaccia. "Siamo sicuri di farci almeno duemila al mese, e io sarei strafelice di poter ottenere lo stesso con la tua, Jayne. Mi pregio di essere capace di affittare qualsiasi cosa – se vuoi ti mostro alcune piccole bomboniere che offriamo a certe cifre! Potresti affittare questo posto, trasferirti da noi e dividerci i proventi. Non starai mai più sola – dimmi, non sarebbe fantastico?".

    «Figurati, Tom! Non riuscirei mai a lasciare Primrose Square! Con tutti i bei ricordi che abbiamo qui! Rammenti come ci siamo quasi rovinati quando l’abbiamo comprata appena sposati, tanti anni fa? Avevamo sì e no qualche soldo, e tutti ci dicevano che una casa vittoriana a tre piani, con stanze così grandi e bei soffitti alti, in una zona così vicino al centro, era fuori dalla nostra portata.

    «Ma ce l’abbiamo comunque fatta, non è vero? Sapevi che mi sarei innamorata di Primrose Square; le stanze da letto che affacciano proprio sulla piazza, e come diventa bella a primavera quando sbocciano i ciliegi e i bambini del quartiere si divertono al parco giochi. Che Dio ti benedica, Tom, hai sempre voluto che i tuoi figli crescessero in una zona bella e sicura come questa, con dei bei vicini con cui giocare.

    «È pur vero che il cielo ci ha mandato un solo figlio, che a quanto pare ha sempre preferito trascorrere quasi tutta l’infanzia chiuso in casa davanti alla tv piuttosto che uscire in piazza a giocare a pallone con i coetanei, ma non è stata colpa nostra, no? Jason se ne è andato da un bel po’ e tu non ci sei più oramai, Tom, ma tengo ancora la casa identica a come quando eri vivo. Quasi come se potessi entrare dalla porta d’ingresso in qualsiasi momento, buttarti sulla tua vecchia poltrona consunta che ti piaceva tanto, e dire: Che c’è per cena, amore?. Tutte le tue cose le ho impilate qui decine di anni fa; i tuoi vecchi libri e la collezione di vinili, che ancora oggi non riesco a dare via.

    «Tom, tu più di tutti sai quanto i vicini siano stati come una seconda famiglia per me, soprattutto da quando non ci sei più e io sono rimasta sola. Sono loro che mi hanno aiutato a superare i giorni bui, quando tutto il mio mondo sembrava svanire senza di te, e dovrà nevicare all’inferno prima che io possa mai lasciarli.

    «Lo sai quanto voglio bene ai miei vicini e che farei qualsiasi cosa per loro. Proprio ieri sera, quello scricciolo che abita qua accanto, Melissa Hayes, è venuta a bussare, a un’ora un po’ troppo tarda per essere in giro da sola alla sua età. Della madre nessuna traccia, naturalmente, e so che la famiglia ha avuto un bel po’ di guai ma, dico io, come si fa a lasciare una ragazzina come lei a casa da sola di questi tempi?

    «Melissa è come un’altra nipote per me, lo sai, quindi ho fatto quello che farebbe chiunque per una nipote – sono saltata in macchina con Melissa per riportare sua madre a casa. Ero nel bel mezzo di una chiamata Skype con – be’, sai già tutto al riguardo Tom, no? Ti basti sapere che ho abbandonato la telefonata che stavo facendo, ho afferrato le chiavi della macchina e siamo andate.

    «Povera, piccola Melissa. Spezzerebbe il cuore anche a te. Lo so che era piccola quando tu sei venuto a mancare, tesoro, ma ricordi che esserino vivace e affettuoso che era? Tu non sei la mia vera nonna, diceva tutte le volte che mi abbracciava, ma sei mia nonna per finta preferita.

    «E so che se tu fossi qui, Tom, saresti il primo a dirmi di farmi i cavoletti miei, ma sul serio, lasciare una ragazzina così piccola da sola proprio non si fa. Susan Hayes deve ritenersi molto fortunata che sia stata io a trovarla l’altra sera e che l’abbia riportata a casa senza problemi, e non un qualche assistente sociale che le avrebbe solo fatto passare un brutto momento. Quella povera donna ha bisogno di sostegno e non di una strigliata dai servizi sociali. In ogni caso, però, lei ha delle responsabilità e una figlia che ha bisogno di sua madre.

    «Ovviamente, non ci abbiamo messo molto a trovare Susan. Se ne stava in bella vista proprio di fronte alla casa di quel ragazzino, Josh o come si chiama, quello che tutti dicono sia responsabile di quanto successo. Era completamente zuppa, tremava ed era blu per il freddo, ma credo fosse grata del fatto che l’avevo trovata io e non qualcun altro. Sono riuscita a farla entrare in macchina senza troppi problemi, poi è rimasta in silenzio per tutto il tragitto fino a casa, attorcigliandosi i capelli attorno alle dita e fissando fuori dal finestrino. Non le è uscita neanche una parola. Quando siamo tornate a Primrose Square, non mi ha neanche ringraziata, e non che fossi in cerca di gratitudine.

    «Però sono preoccupata, Tom. Susan Hayes ha passato l’inferno e nessuno può biasimarla se si comporta in modo un po’ strano. Ma penso alla povera Melissa. Non ha neanche tredici anni e, con suo padre in servizio all’estero, ha solo Susan a doversi prendere cura di lei. Certo, butto sempre un occhio su quella povera cucciola, ma mi spezza il cuore pensare di non poter fare altro.

    «Comunque, tornando a Jason», Jayne chiacchierava con l’urna sopra il televisore mentre continuava a dare pugni all’impasto che stava lavorando. «Chissà come reagirà a quello che ho da dirgli, ma spero non se la prenda troppo. Prega per me, tesoro. Metti una buona parola con il Signore lassù. Se riesco a superare questo, potrò superare tutto.

    «Ora che ci penso, un bel pan di Spagna al Madeira non sarebbe l’ideale per mettere il ragazzo di buonumore? Del resto, Tom, tu dicevi sempre che non c’è guaio al mondo che non possa essere addolcito dal mio pan di Spagna al Madeira, o no?».

    Nancy

    Appartamento 6B, secondo piano, condominio Crampton

    Ti prego, fa’ che sia questo, pensava Nancy trascinandosi per l’ennesima volta su per un’altra rampa di scale, col cuore che martellava per la corsa folle che aveva dovuto fare per arrivare in tempo all’appuntamento.

    Non ne ho già visti abbastanza? Ti prego Gesù/Budda/Babbo Natale – chiunque lassù mi stia ascoltando – per favore, per favore, per favore, fa che sia questo.

    «Allora, qui abbiamo la zona giorno», ha detto in tono vivace l’agente immobiliare con un movimento autoritario del braccio, indicando poco più che una poltrona e un tavolinetto. Nient’altro.

    «Come può vedere, l’appartamento è bello e confortevole», raccontava a Nancy, con un grosso sorriso falso stampato in faccia. «Compatto. Ideale per una persona single. Assolutamente perfetto per una donna impegnata come lei».

    Poi, abbassando di colpo la voce, ha aggiunto: «Che resti tra noi, signorina Thomson, c’è una richiesta enorme di appartamenti in questa fascia di prezzo, quindi, al posto suo, mi risparmierei un bel po’ di tempo e firmerei subito sopra la linea tratteggiata. Ho altri tre potenziali inquilini in attesa di vedere questo posto subito dopo di lei e sono certa che entro fine giornata sarà preso.

    «Ma la buona notizia è che lei mi sta piuttosto simpatica», ha aggiunto con un sorrisino di superiorità. «E so bene che sistemarsi in una nuova città non è così facile – soprattutto una città come Dublino, dove gli immobili sono così cari. La sto solo avvisando, tutto qui».

    «Molto gentile da parte sua». Nancy ha sorriso per educazione, girandosi su se stessa per poter cogliere meglio le dimensioni ridottissime dell’appartamento. «Potrei solo chiederle… dove ha detto che è il soggiorno?».

    Questo perché, di fatto, davanti a sé vedeva tutto fuorché un vero soggiorno. Ha notato la scialba moquette grigia che doveva essere d’ordinanza per gli immobili in locazione – ne aveva già viste di uguali in decine di altri appartamenti di Dublino fino a quel momento. E la minuscola finestra Velux in alto, che per arrivarci bisognava salire su una scala. E il fatto che era quasi mezzogiorno, eppure in casa era così buio da dover accendere le luci per poter vedere qualcosa.

    Per non parlare della puzza, ha pensato. Dio santo, la puzza. Umidità mista a pittura fresca, in un chiaro tentativo di dissimulazione da parte del disperato proprietario. Ormai Nancy era alla ricerca di un appartamento a Dublino con tale accanimento che riconosceva quel lezzo inconfondibile a chilometri di distanza. E come se ciò non bastasse, l’appartamento era proprio adiacente a un vicolo pieno di cassonetti dell’immondizia, e questo non aiutava in quanto a fetore.

    «No, no, no, tesorino. Credo lei intendesse la zona giorno», ha detto l’agente immobiliare, che si chiamava Irene

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