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La strada che mi porta da te
La strada che mi porta da te
La strada che mi porta da te
E-book438 pagine5 ore

La strada che mi porta da te

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Info su questo ebook

Rex Gunner è tanto bello quanto impossibile da avvicinare. La vita l’ha scottato e adesso ha deciso che non permetterà più a nessuno di ferirlo. Preferisce dedicarsi alla sua azienda, una ditta di costruzioni a Gingham Lakes, e badare a sua figlia. Essere un padre single non è facile, specialmente lottando per nascondere un cuore spezzato. 
Rynna Dayne è scappata da Gingham Lakes quando aveva solo diciassette anni. Si era ripromessa di non tornare mai più, ma quando sua nonna è morta ha dovuto fare i conti con il ristorante che le ha lasciato in eredità, e ora è a casa. 
Rex non si aspettava che la sua nuova vicina potesse fargli provare sensazioni che credeva seppellite per sempre. Rynna è dolce e bellissima, per questo non deve lasciarsi andare. Anche se questa volta tutta la sua determinazione potrebbe essere messa a dura prova... 

A.L. Jackson
è un'autrice bestseller di New York Times e USA Today. Gli ingredienti dei suoi romanzi rosa sono emozioni intense, passioni travolgenti e protagonisti dal carattere forte. Quando non scrive trascorre del tempo insieme alla sua famiglia, assaggiando cocktail o con il naso immerso tra le pagine di un libro.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2019
ISBN9788822735386
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    Anteprima del libro

    La strada che mi porta da te - A.L. Jackson

    2427

    Titolo originale: Show Me The Way

    Copyright © 2017 A.L. Jackson Books Inc.

    Traduzione dall’inglese di Micol Cerato

    Prima edizione ebook: settembre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l, Roma

    ISBN 978-88-227-3538-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    A.L. Jackson

    La strada che mi porta da te

    Indice

    Prologo

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Nove

    Dieci

    Undici

    Dodici

    Tredici

    Quattordici

    Quindici

    Sedici

    Diciassette

    Diciotto

    Diciannove

    Venti

    Ventuno

    Ventidue

    Ventitré

    Ventiquattro

    Venticinque

    Ventisei

    Ventisette

    Ventotto

    Ventinove

    Trenta

    Trentuno

    Trentadue

    Trentatré

    Trentaquattro

    Trentacinque

    Trentasei

    Trentasette

    Trentotto

    Trentanove

    Quaranta

    Quarantuno

    Quarantadue

    Quarantatré

    Gli epiloghi

    Questa è un’opera di finzione. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono il frutto della fantasia dell’autrice o sono usati in maniera fittizia, e qualunque somiglianza con persone, viventi o defunte, è da ritenersi puramente casuale.

    Prologo

    Alabama – Undici anni prima

    La pioggia scrosciava dal cielo furioso, e pesanti raffiche di vento ululavano tra gli alberi scossi nella notte sempre più nera. Tormentata dal dolore correvo, certa che il battito del mio cuore fosse assordante quanto il tuono che rimbombava nel cielo.

    Sussultai quando scivolai con il piede sul terreno fangoso, e inciampai, cadendo con violenza sulle ginocchia. Urlai, senza capire da dove provenisse il dolore: dalla mente, dal cuore o dalle carni straziate.

    Perché mi hanno fatto questo?

    Piansi ricurva sul terreno, affranta dal dolore, dal senso di tradimento, poi mi rialzai in piedi cercando di non scivolare. Barcollai verso la casa, che emanava luce e calore, appena in fondo alla strada. Afferrando la ringhiera di legno mi spinsi in avanti, poi spalancai la porta ed entrai a tentoni.

    Quando mi fermai per guardarmi intorno lanciai un gemito infelice. Il senso di sconfitta mi colpì con la stessa violenza della tempesta che infuriava all’esterno.

    Perché mi hanno fatto questo? Come hanno potuto essere così crudeli?

    Dovetti fare appello a tutte le mie forze, ma mi costrinsi a muovermi, sapendo che non potevo restare. Dovevo andarmene. Fuggire. Soffocando i singhiozzi, mi aggrappai al corrimano e mi trascinai di sopra, in camera mia. Con le ginocchia incrostate di fango e sangue, mi lasciai cadere per terra e recuperai la valigia da sotto il letto. Mi rialzai barcollando e andai verso l’armadio.

    Gli occhi offuscati dalle lacrime, tirai via gli abiti dalle grucce e li stipai nella valigia che avevo gettato sul letto, con movimenti che diventavano più frenetici a ogni nuovo capo che raccoglievo. L’impulso di fuggire non fece che intensificarsi quando mi spostai alla cassettiera. Disperata, divelsi i cassetti dalle guide e li capovolsi, scaraventando in valigia tutto ciò per cui trovavo spazio.

    Per tutto il tempo, mi sforzai di trattenere i singhiozzi nella gola. Di restare in silenzio. Di fingere che non fosse successo. Fingere di non doverlo fare.

    Con dita tremanti, strattonai la cerniera.

    «Rynna, che succede?». La voce assonnata mi colpì alle spalle, piena di preoccupazione.

    Il dolore fu come un colpo di frusta. Chiusi di scatto gli occhi, e le parole mi uscirono di bocca tremanti. «Mi dispiace, nonna, ma devo andare».

    Il pavimento scricchiolò sotto i suoi passi. Mia nonna inspirò di colpo, sconvolta, quando mi girò intorno e vide come ero ridotta. «Oh signore, cosa ti è successo?». Le tremava la voce. «Chi è stato a farti del male? Dimmelo, Rynna. Chi è stato? Non posso tollerarlo».

    Scossi la testa con forza, cercando di inventarmi qualcosa. «Nessuno. È solo… Non posso restare un solo secondo di più in questa stupida città. Vado a cercare la mamma».

    Lo odiai. Il modo in cui quell’accenno a mia madre fece contrarre il volto di mia nonna dal dolore.

    «Cosa stai dicendo?»

    «Sto dicendo che me ne vado».

    Una mano segnata dal tempo scattò ad afferrarmi il braccio. «Ma manca appena un mese al diploma. Devi fare il tuo discorso. Attraversare il palco con la veste e il cappello da cerimonia. In tutta la mia vita, non ho mai visto nessuno tanto eccitato per qualcosa. E adesso te ne vorresti andare? Se non puoi fidarti di me, non puoi fidarti di nessuno. Dimmi cos’è successo stanotte. Sei uscita che eri felice, e adesso sei terrorizzata».

    Con le guance rigate di lacrime, mi costrinsi a guardare la donna che significava tutto per me. «Sei l’unica persona di cui mi fidi, nonna. Per questo devo andarmene. Chiudiamola qui».

    Il suo vecchio volto si corrugò per l’angoscia. «Rynna, non ti lascerò andare via così».

    Tese la mano e mi asciugò una lacrima. Con delicatezza inclinò la testa di lato, la bocca curvata in un accenno dello stesso sorriso tenero con cui mi aveva guardato almeno un milione di volte. «Non dimenticarlo mai, se non ridi, piangi. Ora, quale delle due preferisci?». Fece una pausa, e io non trovai la forza di rispondere. «Asciugati queste lacrime e cerchiamo una soluzione. Come sempre».

    Nella minuscola stanza, la tristezza si gonfiò quasi fosse una creatura viva. Senso di sconfitta. Rimorso. Come un’eco di tutti gli incoraggiamenti che mia nonna mi avesse mai sussurrato all’orecchio. «Non posso restare qui, nonna. Per favore, non me lo chiedere».

    A quella preghiera, lei fece una smorfia. In fretta mi chinai e le posai un lungo bacio sulla guancia, inspirando il profumo di vaniglia e zucchero che sempre l’accompagnava per imprimermelo nella memoria.

    Tirai giù la valigia dal letto e mi incamminai verso la porta.

    Mia nonna tese la mano e mi sfiorò il braccio con la punta delle dita, implorando: «Rynna, non andare. Ti prego, non lasciarmi così. Non c’è niente di così brutto che non potrei capire. Che non potremmo risolvere».

    Io non rallentai. Non risposi.

    Fuggii.

    E non mi guardai indietro.

    Uno

    Rynna

    Le ombre delle foglie balenavano sul parabrezza, frammentate dai raggi accecanti del sole che cadevano dal cielo, brucianti, mentre passavo in auto sotto la pesante volta di alberi lungo la tortuosa strada a due corsie.

    Più mi avvicinavo, più il cuore mi batteva forte nella prigione del petto mentre il respiro cresceva. Stringendo la presa sul volante, sbirciai il cartello sbiadito sul lato della strada.

    Benvenuti a Gingham Lakes, Alabama, dove l’erba è davvero più verde e la gente più dolce.

    L’ansia mi artigliò i nervi.

    Erano passati undici anni, quasi un’intera vita, da quando avevo lasciato quella che poteva essere considerata non più che una cittadina. Mi ero ripromessa che non sarei mai tornata.

    E invece, eccomi lì.

    Rimpiangevo solo di non aver infranto prima quella promessa. Invece che adesso, quando sembrava ormai troppo tardi.

    «Terra chiama Ryn».

    Sobbalzai quando la voce rimbombò dalle casse dell’auto. Stavo perdendo la testa. Niente di strano, del resto. Era da quando avevo firmato sulla linea tratteggiata che dubitavo della mia sanità mentale.

    «Sei ancora lì, o ti ho già perso nel Profondo Sud?», chiese Macy. Potevo quasi vederla inarcare un sopracciglio scuro.

    «Sei proprio decisa a spezzare il mio fragile cuoricino, vero?», proseguì. «Mi hai lasciato qui a badare a me stessa. Senza un’anima con cui uscire il venerdì sera e nessuno che mi prepari una colazione miracolosa per il dopo-sbornia del sabato mattina. È una vergogna. Non osare dilaniarmelo ancora di più fingendo che io non esista. Amiche per sempre, ricordi? Non dimenticarlo, o mi presenterò da te con il solo scopo di prenderti a calci nel tuo sedere ossuto. Oh, e per riprendermi i jeans neri che mi hai fregato. Sono due giorni che li cerco. Scommetto che li hai nascosti in fondo a uno di quegli scatoloni».

    «Non mi permetterei mai», scherzai parlando a stento per il nodo di angoscia che mi stringeva la gola. «Quei jeans saranno sotto il tuo letto, in quel disastro che chiami stanza. Sei peggio di un ragazzino adolescente».

    Mi sforzavo di risultare allegra, ma non riuscii a camuffare il sussulto quando dopo una curva la città divenne visibile nella valle sottostante.

    Gingham Lakes.

    Dio, era bellissima.

    La valle era un’ampia distesa di verde. Ricca di alberi rigogliosi. Il grande lago ai piedi della catena montuosa sembrava poco più che uno scintillante miracolo in lontananza, il fiume scorreva sereno e calmo attraverso il centro della città dividendola in due metà identiche.

    Quel luogo era pieno dei miei ricordi più belli e più brutti.

    Di gente bellissima e acerrimi nemici.

    C’era una sola persona che avrebbe potuto convincermi a tornare. E che nonna l’avrebbe fatto nel modo più subdolo, avrei dovuto aspettarmelo.

    «Dimmi che non stai avendo dei ripensamenti proprio adesso che hai fatto tutta quella strada attraverso il Paese! Da sola, sia chiaro, visto che non mi hai lasciato venire. Ti comporti come se fossi un disturbo invece di un aiuto. Riesco a sollevare tipo… cinquecento chili. Devo essere la migliore addetta ai traslochi della storia».

    «Disse la ragazza che pensava fosse una buona idea far rotolare lungo una rampa di scale uno scatolone pieno di bicchieri invece di portarlo giù normalmente».

    Macy ridacchiò. «Non essere gelosa. Basta aggiungere creativa al mio elenco di talenti».

    «Creatrice di disastri, vorrai dire».

    Finse un sussulto. «Guarda che mi offendo! Ho persino preparato la pizza senza dar fuoco all’appartamento».

    «No», la presi in giro.

    «Giuro».

    Una risata sommessa si alzò, libera, mentre la gravità della situazione si faceva sentire. «Mi mancherai, Mace».

    In quel momento San Francisco sembrava lontana un milione di chilometri. Una galassia alternativa. Davvero, era un’altra realtà rispetto a quella a cui ero diretta.

    Un silenzio cupo riempì l’abitacolo, e Macy abbassò la voce. «Sicura che sia davvero questo quello che vuoi? Hai lasciato la città che ami e un appartamento incredibile nel centro. Ti sei licenziata da un lavoro per cui chiunque di noi sarebbe stato disposto a uccidere. Diavolo, avevi scalato metà della gerarchia aziendale. Ma la cosa peggiore è che hai lasciato me».

    Il cuore mi si strinse mentre resistevo all’impulso di fare inversione e tornare a San Francisco. Non ero più la ragazza spezzata che era fuggita da Gingham Lakes undici anni prima. Ero forte, e di certo non ero il tipo che si arrendeva. «Sai perché devo farlo».

    «Lo so, e so quanto dev’essere difficile per te».

    Il dolore mi schiacciò lo spirito, compensando perfettamente la determinazione che mi foderava come acciaio. «È così, ma devo farlo per lei quasi quanto per me stessa».

    «La città non sarà la stessa senza di te, Ryn». In tutti gli anni in cui avevamo vissuto insieme, l’avevo vista piangere una volta sola. Sapevo che stava cercando di trattenersi. Eppure, i suoni sommessi filtrarono dal telefono, toccandomi nonostante la distanza.

    Mi premetti una mano sulla bocca e cercai di tenere a bada il guazzabuglio di emozioni che vibravano e tremavano dentro di me. «Verrai a trovarmi».

    Scoppiò in una risata bagnata dalle lacrime. «Diavolo, no. Laggiù ci sono, tipo, gli alligatori. Uno sguardo alle mie curve deliziose ed esuberanti, e subito inviterebbero gli amici per un banchetto».

    Avrei voluto dirle che io ero decisamente esuberante quando ero fuggita da quella città. Gli alligatori erano l’ultima delle sue preoccupazioni. Mi trattenni, lasciando le vecchie insicurezze sepolte dove meritavano di stare.

    «Non pensi che io valga il rischio?», chiesi invece.

    Tirò su con il naso, e mi sembrò di vedere il suo sorriso. «Sì, Ryn, lo vali eccome».

    Mi schiarii la gola per l’emozione, chiedendomi come avrei fatto ad andare fino in fondo, quando la strada fece un’altra curva stretta e il limite di velocità si abbassò. «Devo andare. Sto per entrare in città».

    «Buona fortuna, tesoro. Ce la farai. Voglio dirti che sono fiera di te, anche se mi mancherai da morire».

    «Grazie, Mace», risposi.

    Ne avrei avuto decisamente bisogno.

    Due

    Rex

    Sgranai gli occhi, fermandomi di botto sulla soglia della sua stanza.

    «Sicura di voler indossare proprio quello?». Passandomi una mano tra le lunghe ciocche di capelli bagnati, cercai con tutte le mie forze di nascondere il panico nella voce.

    Sinceramente, non sapevo se scoppiare a ridere o crollare in ginocchio e piangere.

    Quella era la mia vita.

    Eravamo già in ritardo di dieci minuti ed ecco che mi ritrovavo lei sul pavimento, con un tutù rosa shocking sopra un costume da bagno.

    «Ah-ah. Per danza dobbiamo essere super carine. Annie dice che tutte le ballerine più brave hanno gli scaldamuscoli, e sua mamma glieli ha comprati di tutti i colori. Come un arcobaleno», spiegò parlando a macchinetta mentre si infilava le Converse nere alte fino alla caviglia che il weekend precedente si era fatta comprare al centro commerciale.

    Sopra un paio di vecchi calzini sportivi che doveva aver trovato in uno dei miei cassetti.

    Quelli orribili con le due strisce blu in cima, che avrei dovuto bruciare da anni.

    «Così ho preso questi». Dondolò i talloni mentre si sedeva ad ammirare il suo lavoro.

    D’un tratto mi guardò con quel sorriso che scavava un cratere al centro del mio cuore di pietra. Il dente mancante nell’arcata inferiore e l’abbozzo di chignon che la faceva sembrare appena uscita da una bufera erano la cosa più carina che avessi mai visto.

    «Sono la ballerina più brava del mondo, giusto, papà?»

    «Sei la ballerina più brava e bella dell’universo, Fiorellino Frankie Leigh».

    Ero pronto a scommettere che quella stronza repressa, la signora Jezlyn, non sarebbe stata d’accordo. Avevo già ricevuto una stupida lettera sulla tenuta appropriata per danza, che consisteva strettamente in un body nero con calzamaglia color salmone (ma che cazzo?) senza smagliature. A quanto pareva, Frankie non stava rispettando quegli standard.

    Era quello che mi meritavo per essere andato a prenderla in ritardo da mia madre, prima di tornare a casa e dirle di prepararsi da sola mentre io facevo una doccia veloce. Avevo passato il giorno in cantiere, ero coperto di sudore e grasso e sporcizia e stavo facendo del mio meglio per partire con il piede giusto.

    Il problema era che faticavo a capire se il mio meglio sarebbe mai stato abbastanza.

    Congiunsi i palmi in una specie di strana preghiera. Poi li abbassai e sospirai rassegnato. «D’accordo, allora. Dobbiamo darci una mossa, o ti farò finire ancora più nei guai».

    Frankie saltò in piedi e mise in alto le braccia. «Pronta!».

    Ridacchiando, afferrai il suo borsone di danza dalla panca rosa all’entrata della cameretta, me lo gettai sulla spalla e le tesi la mano. «Andiamo, Mini Ballerina».

    Con una risatina lei mi raggiunse e lasciò che le prendessi la mano, minuscola e vulnerabile nella grandezza della mia.

    Seguendomi fuori dalla stanza, saltellò al mio fianco lungo il corridoio.

    Innocente.

    La gioia mi illuminò da dentro. Ero pronto a giurare che la sua dolcezza avesse il potere di abbattere le tonnellate di amarezza annerita accumulate intorno al mio cuore. Cioè, vicino a quella bambina era leggero come una piuma.

    Il giorno in cui era nata avevo fatto un giuramento a me stesso. Le avrei evitato tutto il male del nostro mondo feroce e crudele. Mi rifiutavo di lasciare che la macchiasse come aveva fatto con me.

    Avrei dedicato la mia intera vita a proteggerla.

    Avevo appena afferrato le chiavi dal tavolo all’ingresso quando sentii sbattere una portiera da qualche parte fuori di casa. Corrugando la fronte, mi sporsi all’indietro per sbirciare la strada dalla finestra.

    Una vecchia Jeep Grand Cherokee bianca era parcheggiata nel vialetto della vecchia casa della signora Dayne.

    A quanto pareva, l’avevano finalmente messa in vendita. La signora Dayne aveva vissuto lì tutta la vita, da molto prima che noi ci trasferissimo di fronte a lei cinque anni prima, ma negli ultimi due mesi la casa era rimasta vuota.

    Mi si strinse lo stomaco per un dolore che non avrei dovuto permettermi di provare. Ma era stata così buona con Frankie che non avevo saputo tenerla a distanza. Diavolo, aveva fatto irruzione nella nostra vita come se ne avesse il diritto, portandoci di continuo la cena e le deliziose torte della tavola calda che gestiva al centro.

    Fiondandosi fuori, Frankie uscì sulla pedana al lato della nostra casa.

    Era una disposizione comune a tutte le case del vicinato. Si trovavano in posizione elevata rispetto al suolo, con le porte d’ingresso situate sulla parete laterale invece che sul davanti. Ciascuna aveva una pedana scoperta che si estendeva verso l’esterno, offrendo una vista sulla strada e sulle case dei vicini. I gradini delle verande giravano in quella direzione e portavano ai vialetti che salivano fino all’altro lato della casa.

    L’effetto sarebbe stato strano, probabilmente, non fosse stato per i grandi alberi frondosi che segnavano il perimetro di ciascun terreno.

    Davano un senso di intimità e isolamento.

    Proprio come piaceva a me.

    Era una delle principali ragioni per cui avevo insistito su quel posto quando stavo cercando una casa da ristrutturare.

    Frankie mi lasciò andare la mano e indicò dall’altra parte della strada. «Ehi, papi, guarda. C’è qualcuno a casa della signora Dayne!».

    Uscendo dietro di lei, chiusi la porta prima di provare a domare un paio di ciocche che erano sfuggite al suo chignon e le svolazzavano intorno al viso mosse dalla brezza calda. Le diedi un bacio sulla fronte. «Sarà un agente immobiliare che la sta mettendo in vendita, Frankie Leigh. Ricordi che ne abbiamo parlato?».

    Inclinando la testa all’indietro, mi guardò con occhi castani confusi ma speranzosi. «È andata in paradiso?»

    «Già», mormorai in tono sommesso.

    La porta a zanzariera sul lato della casa della signora Dayne sbatté, e alzando la testa di scatto vidi una donna attraversare la piccola pedana e scendere di corsa i gradini per tornare verso il SUV.

    Dannazione.

    Forse ero stato solo preso alla sprovvista.

    Ma soltanto guardarla mi lasciò del tutto senza fiato.

    Limitiamoci a dire che non ero preparato a una donna del genere. Probabilmente me ne aspettavo una tutta agghindata. Più adulta. E invece ecco quella ragazza, scompigliata in un modo sexy, naturale. Un’enorme massa di capelli ancora più indomabili di quelli di Frankie era raccolta a casaccio sulla sua testa, ciocche ondulate le cadevano tutt’intorno. Indossava un top bianco super attillato che scompariva sotto jeans a vita alta.

    Quei jeans avrebbero dovuto darle un aspetto sciatto e trasandato, invece tutto l’insieme mi fece sfrecciare un guizzo di desiderio nelle vene, pungolandomi l’uccello.

    Era il tipo di donna che avrebbe potuto far inciampare un uomo adulto.

    Stupenda.

    Uno schianto.

    Troppo sexy per il suo bene.

    O forse per il mio.

    Avrei potuto dare la colpa alla mia prolungata astinenza, ma ero certo che nessuna donna avesse mai suscitato in me una simile reazione con una semplice occhiata.

    Si passò il braccio sulla fronte madida di sudore mentre andava dritto verso il bagagliaio del SUV, strapieno di scatoloni. Non mi sarebbe importato se avessi avuto l’impressione che stava svuotando la casa di fronte alla nostra, ma in realtà sembrava proprio che stesse portando dentro le sue cose.

    Ditemi che questa ragazza non si sta trasferendo di fronte a noi.

    Serrai la mascella e presi Frankie per mano, dovevamo andarcene.

    «Su, Frankie Leigh, diamoci una mossa. Sei già in ritardo».

    Ma Frankie era già partita, saltellava giù per le scale e lungo il vialetto sventolando la mano libera. Come un’aggiunta ai raggi del sole che splendevano accesi nel tramonto. «Ciao, ciao, ciao! Io sono Frankie! Tu chi sei?», urlò attraverso la strada.

    Trasalendo, la donna fece saettare lo sguardo verso di noi, e alla vista di mia figlia i suoi passi finora determinati rallentarono.

    Il bocciolo rosa della sua bocca si allargò in un sorriso divertito mentre faceva scorrere lo sguardo sulla sua tenuta assurda. Per un istante sembrò esitare, guardandosi intorno come in cerca di qualcosa, poi cambiò direzione e venne verso di noi. «Ciao, Frankie, io sono Corinne Dayne, ma tutti mi chiamano Rynna».

    Rynna Dayne.

    Porca miseria, ma che diavolo?

    Percepii fin troppo bene l’eccitazione frastornata che percorse mia figlia mentre io me ne stavo lì, a maledire il mondo che si divertiva tanto a maledire me. «Ti chiami Corinne pure tu? Anche la signora Dayne si chiamava così. Lavorava alla tavola calda Pepper’s Pies e faceva tantissime torte, e mio papà le mangiava tutte, tutte, tutte, fino a finirle. A volte andavamo a mangiare lì, ma di solito mangiavamo a casa mia, che è proprio qui dietro, ma adesso lei è andata in paradiso».

    Sul volto della ragazza passò un lampo di tristezza che, cazzo, colpì pure me. Eppure, il suo sorriso non fece che allargarsi. «Faceva le torte migliori del mondo, vero?».

    L’eccitazione di Frankie si amplificò ulteriormente. «Sì! La conoscevi anche tu?».

    Lei cominciò ad attraversare la strada stretta, tutta capelli castani e occhi color giada e un corpo fatto per la tentazione.

    La consapevolezza mi trafisse la spina dorsale come un fulmine d’acciaio, e indietreggiai di un passo, serrando la mascella nello stesso istante in cui, protettivo, afferravo la mano di mia figlia.

    Le donne non erano nient’altro che quello.

    Tentazione.

    Problemi.

    Il cazzo di frutto proibito.

    Perché alla fine non facevano che dannarti. Così, mi tenevo alla larga. Restavo a distanza. Se non fossi entrato nel fuoco, non mi sarei bruciato.

    Inginocchiandosi di fronte a mia figlia, la ragazza tese la mano. «È un vero piacere conoscerti, Frankie. A quanto pare eri molto amica di mia nonna».

    Quindi sì.

    L’avevo già intuito.

    Questo non mi impedì di sussultare.

    Frankie aveva le stelline negli occhi mentre le stringeva la mano entusiasta. Sembrava stesse incontrando Taylor Swift. «Mi ha detto che ero la sua amica preferita, la preferita in assoluto, e a volte mi lasciava persino andare da lei e fare qualche torta».

    «Davvero?», chiese Rynna in tono scherzoso.

    «Sì-sì».

    Rynna si sporse in avanti, e io sentii il profumo di qualcosa di dolce. «Vuoi sapere un segreto?», sussurrò.

    Frankie saltellò in punta di piedi. «Oh sì, sì per favore. Adoro i segreti. Non lo racconterò a nessuno».

    Lei fece una risata leggera. Era sempre più difficile non fissare la sua bocca, tutta morbida e rosa e perfettamente imbronciata. «Be’, questo è davvero un segreto da non dire a nessuno, perché indovina? Ho la ricetta di alcune di quelle torte».

    Frankie restò a bocca aperta e, dannazione, anche il mio stomaco scelse quel cazzo di momento per brontolare.

    «Me ne farai qualcuna?», si entusiasmò mia figlia.

    «Certo», rispose Rynna, approfittandone per guardarmi con la minaccia di un sorriso sul visetto grazioso, l’angolo della mascella affilato quando tutto il resto di lei era morbido.

    Riecco quel profumo dolce. Si gonfiava nella brezza. Era un calore che la circondava. Calda torta di ciliegie.

    Strinsi i denti, e nel vedere la mia espressione irritata il sorriso le scomparve dal volto. Avvertii con chiarezza come trattenne il fiato incontrando il mio sguardo torvo. Vidi la sua gola tremare un pochino quando si rialzò e fece un passo indietro.

    Nonostante questo, mi tenne testa.

    C’era un che di risoluto, in lei. Come se avesse qualcosa da dimostrare. Se a sé stessa o a me, non avrei saputo dirlo.

    «Ciao. Io sono Rynna Dayne. Mi hanno chiamata così in onore di mia nonna», riuscì a dire, ma aveva la voce roca quando mi tese la mano come aveva fatto con mia figlia.

    Io rimasi a fissarla come se contenesse il veleno del morso di una vipera. Alla fine le risposi con un cenno del mento, facendo appello a tutta la cordialità che riuscii a recuperare. Non era molta. «Rex Gunner. Mi spiace per tua nonna. E siamo in ritardo, quindi… Se vuoi scusarci…».

    Diedi un leggero strattone alla mano di Frankie. «Su, Frankie Leigh. Dobbiamo andare a danza».

    Lei mi trotterellò accanto, guardandosi indietro con quello che doveva essere uno dei suoi sorrisetti adorabili.

    «Che stronzo», borbottò Rynna alle mie spalle quando mi voltai e guidai mia figlia verso il lato destro del mio pick-up.

    L’amarezza bruciò.

    Sì.

    Ero uno stronzo.

    Un bastardo.

    Pazienza.

    Meglio bruciare i ponti prima che qualcuno avesse modo di attraversarli.

    Mi scrollai il pensiero di dosso e issai Frankie nell’abitacolo, facendola strillare e fingendo che stesse volando. La legai nel seggiolino e corsi dalla parte opposta dell’auto. Saltai al volante e imboccai la strada, chiedendomi se fosse possibile che il rombo del motore coprisse il dolore che aveva fatto afflosciare le spalle di Rynna.

    Domandandomi perché mi sentissi un vero pezzo di merda quando la intravidi nello specchietto retrovisore. Rimase lì nel crepuscolo, come intrappolata in un sogno.

    Guardandoci andare via con la delusione sul volto.

    Fare amicizia con una dolce vecchietta era una cosa.

    Lasciare che una come Rynna Dayne – una ragazza che suscitava quella reazione nel mio corpo – entrasse nelle nostre vite? Quella sarebbe stata pura stupidità.

    Tre

    Rynna

    Perché lo sto facendo?

    L’ansia mi scuoteva tutta mentre aspettavo che il computer si accendesse. La verità era che non potevo non sapere. Mi connessi all’hotspot ed effettuai l’accesso a Facebook. Lo schermo sembrò sfarfallare in eterno prima di illuminarsi come una finestra sul passato. Potevo quasi sentirlo allungare le dita e toccarmi. Irridermi con il controllo che aveva esercitato su di me tanto a lungo.

    Troppo.

    Con dita tremanti, riuscii a digitare il nome nella barra delle ricerche. Un gesto che avevo tentato almeno venti volte prima di partire per il mio viaggio di ritorno. Non avevo mai trovato il coraggio di premere invio.

    Quel giorno, lo feci.

    Lei era la terza dell’elenco. Una foto sgranata. Quasi indistinguibile. Ma sapevo che era lei.

    Missouri.

    Viveva in Missouri.

    Richiusi il coperchio di scatto.

    Non avevo bisogno di sapere altro.

    Finché non era in città, potevo sopportare di vivere lì senza alcun problema.

    «Dimmi che stai malissimo senza di me».

    Feci una risata sommessa, gironzolando per la cucina a piedi nudi. Avevo il cellulare incastrato tra l’orecchio e la spalla mentre tiravo fuori con calma le poche cose che mi ero portata. Non avevo bisogno di molto dato che mia nonna mi aveva lasciato tutto ciò che possedeva.

    «Malissimissimo», risposi a Macy, lasciando che la canzonatura si insinuasse nel tono mentre mi alzavo in punta di piedi per posare la mia tazza di Natale preferita su uno dei piani più alti della credenza.

    «Oh. Strano. Io non mi ero neanche accorta che te ne fossi andata», commentò lei, imperturbabile.

    «Disse la ragazza che quest’oggi mi ha già chiamato tipo dieci volte», la provocai.

    Ridacchiò. «D’accordo, d’accordo, potrei aver notato qualcosa». Abbassò la voce a un bisbiglio. «È solo che penso che l’appartamento sia infestato dai fantasmi».

    «L’appartamento è infestato? E sarebbe successo a un certo punto degli ultimi tre giorni?». Lo scetticismo mi scivolò sulla lingua.

    «Sai come funzionano queste cose. La ragazza fantasma mi stava stalkerando, e nell’istante in cui ha avvertito la tua assenza è venuta a prendere il tuo posto».

    «Sai di essere del tutto ridicola, vero?»

    «Ed è proprio per questo che mi adori».

    Un palpito di affetto. Come avrei fatto a vivere senza vederla tutti i giorni?

    «Sinceramente, però, Ryn. Come te la stai cavando laggiù per conto tuo? Dev’essere strano vivere da sola in quella vecchia casa. Dio sa quanto è strano da queste parti, senza di te».

    Mi fermai e, guardandomi intorno, studiai l’arredamento datato: i pavimenti di linoleum, i mobiletti che richiamavano i primi anni Ottanta, i piani di formica beige scoloriti e sbiaditi in un giallo uggioso. L’arredo era composto essenzialmente di tutte le carabattole accumulate da mia nonna nel corso degli anni, e sul tavolino rotondo c’erano ancora le due tovagliette a fiori che ricordavo dalla mia infanzia.

    Era come se non avesse fatto altro che aspettare il mio ritorno. Non era cambiato quasi nulla da quando me n’ero andata undici anni prima.

    La casa aveva bisogno di un restauro completo, ma ci avrei pensato quando, o se, avessi mai avuto i soldi per farlo. In tutta sincerità, ancora non sapevo come avrei fatto a stringere la presa su tutti quei fili sfrangiati, se sarei riuscita a tornare lì e continuare l’opera lasciata in sospeso da mia nonna. Se avevo i numeri per infondere nuova vita in tutto ciò che aveva costruito.

    Quando inspiravo, però, sentivo quasi il profumo dello zucchero che imbruniva nel forno, come un ricordo tangibile. Se mi concentravo abbastanza, ritrovavo il sapore di amarene e pastafrolla che mi si scioglievano sulla lingua. Se tendevo le orecchie, potevo quasi sentire la sua voce ferma e sicura che echeggiava dalle pareti.

    «Sinceramente?»

    «Sì», rispose.

    Un calore conosciuto mi avvolse, mischiato ai dubbi e alle paure che mi avevano tenuto lontana per tanti anni. «Mi sembra di essere a casa. Come se non fossi mai partita. Come se bastasse varcare la soglia per rivedere mia nonna in piedi in questa cucina, che tira fuori dal forno un pasticcio di carne per cena». Deglutii il groppo che mi stringeva forte la gola, il senso di perdita che faceva eco alla sua presenza. «Vorrei solo essere tornata prima. Prima che fosse troppo tardi».

    Il cuore mi si strinse al ricordo della telefonata che avevo ricevuto due mesi prima. Dall’altro capo della linea, un assistente sociale mi

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