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Il quadro segreto di Leonardo
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E-book390 pagine4 ore

Il quadro segreto di Leonardo

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Info su questo ebook

Quale mistero nasconde il ritratto più enigmatico di Leonardo Da Vinci?

Roma, 1516. Nella vita di Leonardo da Vinci c’è una donna, affascinante e misteriosa. Una donna con un dono speciale che, insieme alla sua bellezza, suscita le brame di uomini potenti. Leonardo fa di tutto per proteggerla e spera di riuscire presto a portarla con sé in Francia. Una notte, nei pressi di Castel Sant’Angelo, è testimone involontario di un omicidio. Sulle prime sembrerebbe un caso di ordinaria criminalità, ma qualcosa di oscuro si sta invece muovendo nell’ombra: un antico segreto è stato violato e un oggetto molto prezioso è stato rubato da un monastero. Leonardo è chiamato dal cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena a indagare sull’accaduto, per rintracciare gli artefici del furto: ma più scava in quel mistero, più si convince che c’è un collegamento tra i furti e l’omicidio cui ha assistito. Eventi terribili stanno per abbattersi su Roma e la donna che ama potrebbe essere in serio pericolo. Ha così inizio, per Leonardo, una corsa contro il tempo tra tetre sale anatomiche, meandri di antichi monasteri e misteri biblici. Riuscirà a scongiurare la minaccia che incombe sulla Città Eterna e sulla donna che ama?

Eventi terribili stanno per abbattersi sulla città eterna
Quale codice si cela dietro il ritratto più famoso della storia?

Hanno scritto dei suoi libri:
«La miglior new entry è il giallo storico di Fabio Delizzos.»
Corriere della Sera

«Alchimia, arte e indagini. Il Rinascimento è un thriller. Il romanzo è picaresco, diverte ma è al tempo stesso efficace e preciso.»
Il Giornale

«Un thriller magnifico.»
la Repubblica

Fabio Delizzos
Nato a Torino nel 1969, è cresciuto in Sardegna e vive a Roma. Laureato in Filosofia, creativo pubblicitario, per la Newton Compton ha pubblicato con grande successo i romanzi La setta degli alchimisti; La cattedrale dell’Anticristo; La loggia nera dei veggenti; La stanza segreta del papa; Il libro segreto del Graal; Il collezionista di quadri perduti, Il cacciatore di libri proibiti e La cattedrale dei vangeli perduti. Sempre ai vertici delle classifiche di vendita, i suoi romanzi sono stati tradotti in diversi Paesi.
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2019
ISBN9788822736567
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    Anteprima del libro

    Il quadro segreto di Leonardo - Fabio Delizzos

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    2448

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Prima edizione ebook: settembre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3656-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Fabio Delizzos

    Il quadro segreto

    di Leonardo

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    Newton Compton editori

    Indice

    prima fase

    il disegno preparatorio

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    seconda fase

    la tavola di pioppo

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    13

    terza fase

    la preparazione dell’olio

    14

    15

    16

    17

    18

    19

    20

    quarta fase

    la preparazione

    dei colori

    21

    22

    23

    24

    25

    26

    27

    28

    quinta fase

    l’imprimitura

    29

    30

    31

    32

    33

    34

    35

    36

    37

    38

    sesta fase

    la trasposizione del

    disegno sulla tavola

    39

    40

    41

    42

    43

    44

    45

    46

    47

    48

    49

    settima fase

    lo sfumato leonardesco

    50

    51

    52

    53

    54

    55

    56

    57

    58

    59

    60

    61

    62

    epilogo

    il craquelé

    63

    nota dell’autore

    Ringraziamenti

    A Mattia Delizzos

    prima fase

    il disegno preparatorio

    1

    Roma, 2 maggio 1516

    «Spogliati e inginocchiati, Maria Maddalena».

    «Perché, reverenda madre?». La giovane clarissa si guardò attorno, come a cercare una spiegazione. I suoi occhi vedevano per la prima volta l’ambiente disadorno e umile in cui viveva la badessa: pareti candide con un crocifisso, un tavolo con delle sedie, una cassapanca, l’umile luce di una lampada a olio che si mescolava al bagliore algido della luna. «Chiedo perdono se ho commesso uno sbaglio. Io non avrei voluto».

    «Sbaglio! Così lo definisci?». La badessa sfilò le mani dalle ampie maniche della veste: la destra stringeva un panno avvolto e annodato a mo’ di fagotto, che emetteva uno scricchiolio metallico. «E questi, allora? Trenta scudi d’oro. Chi te li ha dati?»

    «Non ne so niente».

    «Erano nella tua cella».

    «Io…».

    «Tu hai tradito per denaro come Giuda. Per colpa tua il nostro prezioso segreto è stato violato».

    «Vi sbagliate, reverenda madre».

    La badessa emise un sospiro lungo e profondo, che tuttavia non bastò a espellere tutta la rabbia. «Vorrei tanto sbagliarmi», disse, e andò verso la cassapanca. Sollevò il coperchio, prese una verga sporca di sangue secco e la mostrò alla giovane.

    «Che cosa volete fare?»

    «Insegnarti a tacere».

    «Ma io non ho avuto scelta».

    «Scopri la schiena e inginocchiati».

    La giovane clarissa abbassò lo sguardo, si sfilò il velo dalla testa, fece scivolare la tonaca sulle spalle fino a scoprire del tutto la schiena e, in segno di accettazione del dolore, baciò la verga che le veniva porta dalla badessa. Poi si inginocchiò per terra rivolgendo la pelle nuda del dorso alla luna. Portava già i segni dell’autoflagellazione che, da quando era entrata nel monastero, si infliggeva quotidianamente con la disciplina. «Non è come credete, madre, lasciatemi spiegare».

    «Ormai è tutto finito», disse la badessa con un sussurro ringhiante. «Hai venduto la vita di tutte noi».

    «No, reverendissima madre».

    La badessa serrò i pugni e le palpebre. Avrebbe voluto pregare, ma non ci riusciva. Ormai tutto le appariva compromesso irreparabilmente. «Cos’altro ti hanno fatto dire, che cosa ancora hai venduto al demonio?»

    «Niente».

    «E allora questo denaro?». Scaraventò l’involto contro il muro facendo schizzare le monete d’oro come scintille nel buio. «Per che cosa sei stata pagata?»

    «Loro», singhiozzò Maria Maddalena, «volevano sapere i nomi delle monache danzatrici, dove trovare chi conosce a memoria i passi della danza sacra, e chiunque sia a conoscenza del segreto custodito dal nostro monastero».

    «Gliel’hai detto?».

    La giovane monaca schiacciò la faccia sui palmi delle mani e pianse. «O, Dio, perdonami. Ho commesso un grave errore».

    «Maledetta cagna!». Il primo colpo di verga echeggiò insieme a un grido soffocato: aveva inizio una musica che, secondo le monache, era gradita alle orecchie di Dio.

    «Sei una lurida serva del diavolo!».

    Maria Maddalena gemette un misero: «Sì».

    «Tu non hai idea della gravità di ciò che hai fatto!».

    «No, reverendissima madre».

    «Avresti dovuto proteggere il nostro segreto a costo della tua vita».

    «Lo so, ma…».

    I colpi diventarono più violenti, una successione rapida e serrata, e aprirono una crepa nella pelle già martoriata della monaca. Schizzò il primo sangue.

    Maria Maddalena pianse disperata: «Come potevo oppormi al Santo Padre?»

    «Tu dovevi tacere!». La verga affondò di nuovo nella carne risuonando sorda sulle ossa. «Tu non immagini quello che potrà accadere a causa tua».

    «Ma io…».

    «Taci!». Altri colpi frusciarono nell’aria e si abbatterono con forza sul collo di Maria Maddalena. «Hai scoperchiato il vaso di Pandora, hai scatenato l’apocalisse!».

    «Perdono», mormorò la giovane religiosa, mentre veniva sferzata con brutalità. Non riusciva più a ragionare, era annebbiata; la verga percuoteva e mandava in frantumi ogni pensiero. Adesso sanguinava dal collo copiosamente.

    La badessa era fuori di sé. Gli occhi vitrei, le labbra contorte, continuò ad assestare virgarum verbera sulla monaca con una tale forza che iniziò ad ansare; schiocchi umidi e squillanti o secchi e sordi, secondo il punto che veniva colpito e l’angolazione della verga, si susseguirono senza sosta producendo una sorta di macabra punteggiatura sonora. Finché il corpo della ragazza non reagì più alle percosse. Il busto cadde in avanti e restò fermo in modo innaturale.

    Quando la badessa tornò in sé, fu invasa dall’orrore. Cosa aveva fatto? Il viso le grondava del sangue che le era schizzato addosso, le gocce le scivolavano sul mento, le vedeva cadere per terra, davanti ai propri sandali, vicino al corpo esanime di suor Maria Maddalena.

    Si fregò la faccia con un cencio e strofinò la verga, che poi, senza sapere perché, ripose nella cassapanca. Afferrò il corpo della monaca e lo tolse dalla pozza di sangue. Per un attimo pensò di lavarlo e di portarlo nella sua cella, e di lasciarlo lì, con la frusta in pugno, davanti al crocifisso, in modo che si pensasse a un eccesso di autoflagellazione, ma poi si rese conto che non era necessario.

    Si limitò a bisbigliare qualche parola di una preghiera. Quindi, uscì rasentando i muri alla ricerca di un’ombra che potesse nasconderla agli occhi di Dio.

    Andò in cucina, prese un vaso pieno di strutto, che sarebbe servito l’indomani per i biscotti, e lo spalmò sulle parti in legno dell’edificio che le capitarono a portata di mano. Infine, prese una candela accesa, si fece il segno della croce e appiccò il fuoco.

    Le prime fiamme le illuminavano la schiena mentre correva verso il cortile.

    Uscì, percorse il porticato tutt’attorno e raggiunse il sentiero che conduceva alla chiesa di San Silvestro in Capite. Salì sul campanile.

    Giunta in cima, vide il monastero che bruciava rischiarando la notte di bagliori rosso sangue. Il vento incoraggiava le fiamme, e l’antico edificio le nutriva. Dalle celle delle suore non giungevano grida di aiuto o di dolore, perché erano state fatte evacuare poco prima dell’arrivo degli uomini inviati dal papa.

    Una parte dell’olio segreto era stata portata via insieme alle monache. Ma il danno era di proporzioni immense. Il segreto era stato esposto, calpestato. Bisognava cancellare tutto il possibile e sperare che a cercare la ricetta del miracolo fossero persone troppo stupide per comprenderla e… usarla.

    «Dio Padre onnipotente», sussurrò rivolta al cielo nero, «proteggi il nostro segreto, fa’ che l’arcano sia riservato solo ai giusti e ai puri di cuore». Dopodiché la badessa si lasciò precipitare all’indietro nel vuoto, contenta di portarsi nella tomba tutto ciò che sapeva al riguardo.

    L’aspettava l’inferno per quel che aveva appena fatto a suor Maria Maddalena e per il grave peccato del suicidio: ma chissà, pensò in un ultimo barlume di speranza, forse l’estremo sacrificio di sé che stava compiendo a fin di bene poteva mitigare la severità del Signore.

    Precipitò fendendo l’aria surriscaldata dal rogo, volando a braccia aperte fra le scintille scoppiettanti che salivano verso il cielo e si univano alle stelle; poco prima di toccare il suolo ebbe un ultimo e irragionevole ripensamento e provò disperatamente ad aggrapparsi al disco della luna. «Padre onnipotente», urlò, «salva la mia…».

    2

    Mezzanotte. Leonardo era sul ponte Elio e aspettava, con la testa sporta oltre il parapetto di marmo. Fissava assorto lo scorrere del Tevere sotto di sé, illuminato dalle fiaccole di Castel Sant’Angelo e dalla luna piena, l’acqua nera e gorgogliante che scorreva placida disegnando linee e riccioli simili ai suoi lunghi capelli.

    Quella notte c’era una quiete magnifica, pensò, inalando a pieni polmoni l’aria umida di Roma. Nel silenzio si udivano chiaramente lo sciabordio del fiume contro le rive e le voci lontane delle guardie del papa, che parlavano solo il tedesco e a tratti esplodevano in grasse risate.

    Guardare l’acqua fluire gli era sempre piaciuto, fin da quando era un bambino. Amava ancora adesso stare per ore e ore a osservare la corrente, lasciandosi incantare dalle mutazioni dei gorghi, meditando sulle regole segrete della natura.

    Anche osservare il cielo notturno lo aveva sempre appagato. Spesso saltava giù dal letto senza vestiti addosso e usciva all’aperto a rimirare le stelle. Stavolta non si trovava lì per quello – aveva un bizzarro appuntamento con uno sconosciuto, e quasi si stava pentendo di esservisi recato – ma, visto che non arrivava nessuno, decise che tanto valeva approfittarne: si mise sul naso una specie di maschera di cuoio che aveva due dischi di vetro al posto degli occhi; li afferrò con le punte delle dita e li allontanò dal viso, trasformandoli in due tubi lunghi un palmo. Aveva battezzato quell’invenzione occhiali da vedere la Luna grande. Quel che si trovava a cento passi, pareva trovarsi a dieci.

    «E la luna densa e grave», mormorò cercandola nel cielo, «come sta la luna? Oh, stai benissimo, mia cara amica».

    Quella notte si vedeva perfettamente e sembrava fatta d’acqua e sabbia dorate.

    La osservò per un po’, poi sospirando si tolse gli occhiali e volse lo sguardo alla sua destra verso il rione Ponte.

    Nessuno.

    Guardò a sinistra, verso la mole imponente di Castel Sant’Angelo, perché l’uomo che stava aspettando sarebbe potuto arrivare anche dal Vaticano.

    Ma non c’era nessuno in vista da nessuna parte.

    Chiunque fosse, il misterioso padre Allacci era di sicuro un ritardatario.

    Leonardo sospirò, deluso e sollevato allo stesso tempo. Gli dispiaceva soprattutto di aver disdetto un altro impegno per recarsi a quell’appuntamento fasullo.

    Che qualcuno gli stesse facendo uno scherzo? Ma chi? Non gli veniva in mente nessuno, anche se nella città del papa non mancavano le persone desiderose di umiliarlo e prendersi gioco di lui. Piuttosto poteva trattarsi di qualcos’altro, qualcosa di decisamente meno accettabile di una burla: una trappola per eliminarlo.

    Non era certo da escludere.

    A Roma, in molti si sentivano infastiditi e scandalizzati dalle sue ricerche anatomiche e dalle affermazioni eretiche sull’anima, a iniziare dal Santo Padre.

    E a quell’ora, nell’oscurità, sul ponte desolato, sarebbe stato facile sopraffare un uomo da solo e gettarlo in acqua.

    Leonardo immaginò di finire, come gli altri morti annegati in circostanze poco chiare, sul tavolo anatomico del dottor Gaiaco; si vide livido e immobile sotto un lenzuolo fradicio, e gli venne da ridere. Al pensiero che il suo amico lo avrebbe sezionato provò quasi invidia nei suoi confronti. Da molti mesi, infatti, la pratica dell’anatomia gli era vietata, a Roma.

    Ma non aveva paura di morire, non più ormai. Alla veneranda età di sessantacinque anni gli era rimasto un timore soltanto, quello di andarsene dal mondo senza lasciare una traccia indelebile, senza aver conquistato la gloria eterna.

    E purtroppo questo timore andava sempre più assumendo le sembianze di una certezza definitiva.

    Il volo umano era rimasto un sogno irraggiungibile; nessuna opera importante era stata portata a termine; da Milano giungevano brutte notizie riguardanti l’affresco del Cenacolo, che stava andando in malora rapidamente; tutto il lavoro di una vita giaceva ancora sepolto nei suoi mille quaderni in attesa di un’improbabile pubblicazione. Leonardo non credeva più che fosse possibile mettere ordine nella confusione sparsa in quella montagna di pagine: neppure lui riusciva più a raccapezzarsi in quel mastodontico coacervo di appunti e disegni che aveva creato negli anni.

    Da quando si era trasferito a Roma non riusciva a pensare ad altro che al proprio fallimento.

    Scosse la testa e cercò di allontanare i brutti presagi.

    Ascoltò la notte.

    Roma dormiva.

    Estrasse dalla manica il biglietto e lo rilesse. Gli era stato recapitato nel pomeriggio mentre camminava per strada, da un piccolo vagabondo, il quale non aveva saputo dire chi glielo avesse affidato, e poi era scappato via veloce come un fulmine.

    Il messaggio, vergato da una mano visibilmente tremante, diceva:

    olosad etinev oile etnopla ettonazzema odranoel ressem ocilppusiv padre Allacci

    Le ultime due parole erano forse la firma, perché a differenza del restante testo, se lette al contrario, non avevano alcun significato, per cui Leonardo aveva ipotizzato che potesse trattarsi del vero nome del mittente.

    Un prete, quindi.

    Vi supplico, messer Leonardo. A mezzanotte, al ponte Elio. Venite da solo.

    La curiosità lo aveva attirato lì a quell’ora tarda, da solo come richiesto, facendogli rinunciare a una piacevole conversazione con il dottor Gaiaco e, magari, anche a una dissezione nel suo laboratorio anatomico. A quel pensiero, Leonardo assestò un simbolico pugno sul marmo fresco e ruvido. Mastro Gaiaco era uno dei pochi amici, a Roma, e procurava i cadaveri migliori, quelli di uomini e donne morti annegati, motivo per cui non era mai un bene rifiutare i suoi inviti.

    Mise via il biglietto e si guardò ancora attorno, sforzando la vista nell’oscurità; cercò di individuare persone in movimento in direzione opposta al Vaticano, dove iniziava la ramificazione di vie del centro urbano.

    Nessuno.

    A tratti, l’aria era percorsa dai lamenti dei reclusi nella prigione di Tor di Nona, che si trovava poco oltre il ponte, sulla riva sinistra, ma per il resto non si avvertiva la presenza di un’anima.

    Anima, anima… Ricordati di scrivere bene e in modo inequivocabile la tua scoperta, mio caro Leonardo. Devi dire chiaro e tondo che tutti i sensi umani sono collegati a un punto preciso del cervello: là dove arriva il nervo che conduce la luce dalla pupilla si trova la sede dell’anima.

    Stava per abbandonarsi alle riflessioni che quella scoperta comportava – l’anima umana era uno spirito immortale o no? – e sentiva un piacevole desiderio di tornarsene a casa a scrivere, quando la sua attenzione fu catturata da qualcos’altro.

    Un trapestio di passi e poi due uomini che arrivavano di corsa. Li vide fermarsi all’inizio del ponte, dall’altra parte del fiume rispetto al castello. Avevano l’aria di stare cercando qualcosa. Adesso guardavano proprio nella sua direzione e fecero per avvicinarsi.

    Leonardo alzò una mano e gli andò incontro, ma non era ancora arrivato a metà del ponte che quelli, anziché avvicinarsi, indietreggiarono e sparirono nel buio.

    Purtroppo, a quanto pareva, non era padre Allacci.

    Leonardo scosse il capo e tornò a guardare il fiume.

    Avrebbe potuto aspettare ancora un po’, dopotutto non aveva sonno e la solitudine non gli era mai dispiaciuta, però era una notte insolitamente fredda e, nonostante il giubbone foderato di volpe stesse facendo il suo dovere, l’umidità iniziava a penetrargli nelle ossa.

    Decise di tornarsene a casa. Meglio infilarsi sotto le coperte e disegnare feti umani in placente di vacca fino all’alba, piuttosto che restare lì.

    Per di più, se qualcuno lo avesse notato, si sarebbe domandato cosa stesse facendo a quell’ora, da solo, quel vecchio matto. Poteva sentirli blaterare. Quel pittore stravagante sta peggiorando nella follia!. Stanotte andava avanti e indietro sul ponte Elio come uno spirito in pena. L’ho visto che fissava l’acqua, quasi avesse intenzione di gettarvisi dentro e lasciarsi annegare. Aveva una maschera demoniaca per scrutare la volontà delle stelle.

    Pregustando il confortevole abbraccio del letto, sorrise. Poi quell’emozione gli si pietrificò sulle labbra.

    Un grido si espanse nel silenzio.

    Leonardo si voltò di scatto e spinse lo sguardo nella direzione da cui gli era parso fosse giunta la voce. Un urlo agghiacciante di terrore, breve, strozzato.

    Gli tornò in mente il messaggio.

    Vi supplico, messer Leonardo. A mezzanotte, al ponte Elio.

    E la voce di prima gridò ancora. Un urlo più lungo e disperato del precedente. Poi tornò il silenzio.

    Padre Allacci era in pericolo?

    Leonardo non aveva idea di chi fosse, però gli aveva chiesto aiuto e questo era sufficiente a farlo sentire coinvolto e responsabile. Naturalmente, come sempre, la curiosità gli diede la spinta definitiva.

    Corse verso il punto da cui erano venuti i rumori e le grida. Dopo un po’, tra i ciuffi di capelli che gli cadevano sulla faccia scorse delle ombre.

    Sembravano due uomini nell’atto di sollevarne un terzo, pronti a gettarlo nel fiume.

    Il cuore che gli tonfava tra le costole, Leonardo indossò gli occhiali, allungò le canne oculari e le indirizzò nel buio.

    Il plenilunio consentiva di percepire le forme con una certa chiarezza e lui ebbe la netta impressione di non essersi sbagliato: i due uomini stavano proprio scaraventando una persona nel Tevere.

    L’uomo volò senza emettere un lamento e un istante dopo tonfò nell’acqua come un peso morto.

    Per un attimo, Leonardo si chiese se non stesse facendo lavorare troppo la fantasia: ma aveva visto bene.

    I due uomini corsero via, svelti come ladri, silenziosi come ombre, e sparirono ancora una volta nel nulla.

    Provare a inseguirli non sarebbe stata una buona idea, si disse. Non era in grado di raggiungerli. Preferì occuparsi dell’uomo gettato nel fiume, che forse non era ancora morto e si poteva salvare.

    «Ehi!», gridò strozzandosi la voce in gola per non attirare l’attenzione delle guardie papali. «Ehi!», ma dal buio non giunse nessuna risposta.

    Nonostante il rischio che sapeva di correre, discese la sponda ripida e si spinse fino in riva. Raccolse un bastone, lo usò per tastare il suolo e anche per tenersi in equilibrio. Provò spasmodicamente a individuare il corpo, chiamò perfino il nome di padre Allacci, più di una volta. Cercò ovunque riuscisse, e alla fine non trovò nient’altro che pietre e acqua nera.

    Si accinse a risalire la sponda, che in quel punto digradava di parecchi palmi, ma ora una nuvola a forma di girino aveva oscurato la luna. Risalire al buio non sarebbe stato agevole. Dovette aspettare che la nuvola passasse, prima di inerpicarsi. Il vento la sospingeva lentamente e impiegò qualche minuto per farla transitare oltre il disco lunare. Quando ormai restava solo la coda della nube a oscurarlo parzialmente, Leonardo si immobilizzò e ascoltò con il fiato mozzato in gola.

    Rumori.

    Due voci.

    Passi.

    Stava arrivando qualcuno. Forse gli stessi uomini di prima. E venivano proprio in quella direzione.

    Si accucciò dietro una grossa pietra, l’unico riparo a disposizione. Sei stato uno stupido!, si disse colpendosi la fronte, dovevi portare le pistole!.

    3

    Stava arrivando qualcuno anche dal fiume. Una piccola imbarcazione procedeva silenziosa, a prua la lanterna accesa, ma coperta da un telo scuro per ridurre al minimo il bagliore. Mentre si avvicinava, Leonardo riuscì a scorgere la sagoma del rematore.

    Quel punto del fiume era il più sorvegliato della città, insieme ai tratti in cui si trovavano i porti fluviali di Ripa e Ripetta. Ma con la differenza che nei pressi di Castel Sant’Angelo vigilavano molte più guardie del papa.

    Sì, quella barca non trasportava un pescatore, benché fosse lecito pensarlo, visto che poco più a valle, all’altezza dell’isola Tiberina, si trovavano le peschiere. In quella zona c’erano anche molti mulini.

    Ma perché un pescatore o un molitore avrebbero dovuto navigare a luci spente?

    Non bisognava avere facoltà premonitrici per sapere che la barca stava per accostare e prendere a bordo i due uomini.

    Leonardo si schiacciò più che poté contro il masso e si preparò al peggio.

    I due stavano scendendo, erano quasi arrivati sulla riva.

    Come previsto, il natante scivolò sull’acqua davanti a lui, a una distanza inferiore a dieci passi, e poi si fermò.

    Gli uomini a terra, invece, transitarono molto più vicino di quanto Leonardo avesse immaginato e temuto: non più di due passi di distanza.

    Poteva sentirne l’odore, che non era gradevole.

    «Vedi qualcosa?»

    «No».

    Passarono senza accorgersi della sua presenza, ma non velocemente come Leonardo sperava. Procedettero piano, a tratti si fermavano e si guardavano intorno; sembrava stessero cercando qualcosa per terra.

    Poi uno dei due uomini tornò indietro, gli occhi intenti a perlustrare il suolo e l’acqua, come avesse avuto l’impressione di aver scorto qualcosa.

    «Che fai?», lo richiamò il compagno con voce strozzata. «Sbrigati, scemo!».

    Quello scosse la testa e lasciò perdere, tornò verso la barca.

    Leonardo ricominciò a respirare.

    «Le avete prese?», chiese il barcaiolo.

    «Vai, svelto!», gli risposero gli altri.

    «Le avete prese o no?»

    «Sì».

    «Solo questa? Doveva averne due, perfettamente identiche. Avete controllato bene? Magari una l’ha nascosta o gettata via».

    «Secondo te cosa stavamo facendo?»

    «E il prete?»

    «Ce ne siamo sbarazzati».

    «Che cosa? Maledizione, poteva dirci dove ha messo l’altra ampolla».

    «Te l’avevo detto, scemo!».

    «Ma l’ordine era di farlo fuori!».

    Leonardo non riuscì a cogliere altre parole. I due saltarono dentro lo scafo e i remi affondarono nel liquido oscuro. La barca si allontanò, dapprincipio lenta, poi, agevolata dalla corrente, sempre più spedita.

    La mente di Leonardo era colma di curiosità, non c’era spazio per la paura: doveva scoprire, sapere.

    Chi erano quegli uomini, dove si stavano recando?

    L’uomo che avevano ucciso era proprio padre Allacci?

    Risalì la sponda con un vigore che non credeva più di avere nelle gambe. E quando arrivò al piano della strada, benché il cuore pareva volesse uscirgli dalla gola, si lanciò all’inseguimento della barca, di corsa, lungo il Tevere.

    Ma per quanto avrebbe potuto resistere?

    Non ricordava se il cielo notturno gli fosse mai scivolato sulla testa a una tale velocità. No, non era mai accaduto. Infatti, dopo un centinaio di falcate gli mancò il respiro e il cuore prese a battere rapido come un trillo, i muscoli delle gambe cominciarono a bruciare.

    Non si fermò.

    La barca sarebbe apparsa come un’ombra o poco più, se non ci fosse stato quel leggero spettro luminoso della lanterna coperta dal telo.

    Duecento, trecento, quattrocento passi… La teneva d’occhio.

    Dopo un po’, la luce divenne più forte, tanto che si rifletteva sull’acqua intorno alla prua. Il telo doveva essere stato rimosso.

    Leonardo non rallentò per rifiatare. La luce sul fiume, però, correva più veloce di lui. La barca non aveva un cuore a cui rispondere, né muscoli infuocati, né polmoni avvizziti dall’età che parevano stretti in una morsa d’acciaio.

    Di colpo Leonardo fu costretto a fermarsi, mentre la luce della barca si allontanava nell’oscurità, in un tratto dove non si scorgeva più neppure la forma del corso d’acqua. Stava per sparire dalla sua vista.

    Riprese a correre, ma molto più lentamente di prima. Era uscito con ai piedi gli stivaletti di pelle turchesca, i più comodi che aveva, ciò nonostante le gambe si stavano tramutando in due tronchi di legno.

    Forza, forza, si disse.

    Il sangue fiottava e martellava sulle tempie e nelle orecchie.

    Riavvistò la barca e riprese animo, aiutato anche dal tanfo insopportabile di una saponeria, che doveva trovarsi nelle vicinanze ed esalava fumi infernali. Si vedeva la cenere volare nell’aria, e il lezzo di olio rancido emanato dalle caldiere e dagli scarti di lavorazione era mefitico.

    Passò oltre cercando di aumentare il più possibile l’andatura, però rallentava a ogni falcata contro la propria volontà, inesorabilmente.

    Un dolore crudo e persistente si era acceso sotto le costole, a sinistra; i polpacci si indurivano.

    Più avanti, non appena l’aria tornò a essere respirabile, si fermò per saziarsene. Si piegò in avanti con le mani sulle ginocchia, inchinandosi al volere di Madre Natura, e boccheggiò sperando che il cuore rallentasse.

    Infilò gli occhiali, guardò in lontananza.

    Vide bene l’isola Tiberina. Si poteva udire chiaramente il rumore sordo dei mulini e sentire l’odore delle peschiere. La luce della barca se ne stava andando senza di lui. Tremolò ancora per un po’ e infine scomparve.

    Leonardo tornò verso casa con la consapevolezza di aver visto quella notte qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.

    Ci sarebbero state delle conseguenze, lo temeva.

    Senza neppure accorgersene, evitò la luce lunare prediligendo l’oscurità, benché si aspettasse che

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