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Liebesträume
Liebesträume
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E-book255 pagine3 ore

Liebesträume

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Info su questo ebook

La fitta coltre di nebbia che impediva di vedere il cielo, a qualsiasi ora del giorno, era davvero insolita. C’era chi lavorava tutto il giorno in miniera e quindi non ci faceva caso, chi scrollava le spalle non curandosene e c’era una vecchina che con le sue carte aveva letto che il colore che l’aria aveva da un mese fosse senza ombra di dubbio un cattivo presagio. Qualcosa di terribile stava per succedere nel castello di Cassano D’Adda, i Tarocchi dicevano sempre la stessa cosa: sangue e dolore. Ma anche se si sapeva a chi sarebbe successo, il corso ineluttabile del destino non si poteva cambiare, non si poteva fare nulla. Nella nebbia si celava la malvagità e l’avidità di un uomo crudele e la commovente storia d’amore senza tempo della contessina Miranda Varriale e del giovane Laerte. Passato e presente si intrecciano, un incubo si trasforma in un sogno d’amore che, nelle dolci note melodiche e romantiche di Liebesträume suonato al pianoforte, ci riporta nell’Ottocento anche se si dovrà aspettare oltre centocinquanta anni perché il sogno si realizzi.

Daniela Iannone è nata a Roma nel 1982. Oltre a scrivere, collabora con registi per adattamenti cinematografici dei suoi inediti. Con il Gruppo Albatros Il Filo ha già pubblicato Il volto dello specchio (2005) e Il veleno dei santi (2015).
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2021
ISBN9788830638976
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    Liebesträume - Daniela Iannone

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    Daniela Iannone

    Liebesträume

    - sogno d’amore –

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-3349-0

    III edizione gennaio 2021

    Finito di stampare nel mese di gennaio 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Liebesträume

    - sogno d’amore –

    A Miranda

    che ha lottato tutta la vita e oltre.

    "Chi vuol raggiungere qualcosa ha l’ardore del desiderio.

    Il desiderio è la sete dell’anima."

    Sant’Agostino

    Prima parte

    In paese si era abituati al freddo umido e ai nuvoloni grigi carichi di pioggia; l’inverno, era così da quelle parti. Ma la fitta coltre di nebbia che impediva di vedere il cielo a qualsiasi ora del giorno, era davvero insolita.

    C’era chi diceva che la causa fosse il fumo dei camini, tenuti accesi per troppo tempo. C’era chi lavorava tutto il giorno in miniera e quindi non ci faceva caso, chi scrollava le spalle non curandosene e, c’era una vecchina che con le sue carte, aveva stabilito che il colore che l’aria aveva da un mese, fosse senza ombra di dubbio un cattivo presagio.

    Qualcosa di terribile stava per colpirli; e la causa di tutto era da attribuire a un uomo che non abitava abitualmente in paese. Forse un forestiero, un turista… questo non si sapeva…

    Alla strega, come la chiamavano grandi e piccini, nessuno le aveva mai creduto. Neppure quando le sue previsioni si erano rivelate giuste, anzi, la temevano standole lontani.

    Le carte le dicevano cosa e a chi sarebbe successo ma non poteva evitarlo; manteneva dunque il segreto come tante altre volte aveva dovuto fare.

    Il parroco uscì dal confessionale togliendosi la stola dalle spalle; la baciò e la piegò a metà. Dopo essersi inginocchiato davanti al grande crocifisso, si diresse verso la sacrestia.

    «Padre…» tornò a supplicarlo il bracciante. Con dita corrose dal freddo e dal lavoro, torceva nervoso un cappello di lana e indossava una giacca troppo leggera per quel periodo dell’anno. Gli occhi azzurri come il cielo di primavera non erano sorridenti da tempo. Troppo tristi per un giovane che aveva da poco compiuto vent’anni. «Non voltateci anche Voi le spalle…»

    «Ragazzo mio, mi chiedi una cosa impossibile. Non posso aiutarti» era sincero.

    «Il matrimonio è un sacramento Padre; vi state forse rifiutando di adempiere un sacramento?».

    «Lei è già promessa a un altro. Stai commettendo un gravissimo peccato… ricordi il nono comandamento? Non desiderare la donna d’altri».

    «Conosco questo comandamento, ma non sono io a peccare, un altro uomo che non si cura del male procurato, lo sta infrangendo… e purtroppo non solo questo! E Dio glielo sta permettendo…»

    «Non bestemmiare» lo ammonì.

    «Ma è la verità!»

    «Laerte, adesso basta!» continuò, severo come un genitore che non sa come giustificare un’opinione contraria, imposta a fin di bene.

    «Voi non avete cuore, Padre».

    Don Azeglio gli si avvicinò di nuovo e parlò a voce bassissima. Il tono era benevolo «Se vi unissi in matrimonio, sarà la mia morte, insieme alla tua e a quella della contessina» cercò di farlo ragionare.

    Sembrava non aver ascoltato «Dio non può volere la morte di due persone che si amano. Lui deve aiutarmi e può servirsi di voi, Padre…»

    «Lui potrà farlo. Io no, purtroppo…» gli prese le mani per consolarlo e incoraggiarlo «Prega ragazzo mio, prega affinché il Buon Dio ti dia la forza di accettare ciò che non puoi cambiare».

    Laerte sfuggì al gesto d’affetto ritraendo le mani e gesticolando frenetico. «Non voglio accettare niente. Voglio sposarla e anche lei lo vuole. Ci amiamo». Fece una breve pausa; si aspettava parole di conforto che non arrivarono e proseguì con le lacrime agli occhi. «Voi durante la messa di domenica scorsa, avete più volte ripetuto che l’amore è una benedizione».

    Don Azeglio cercò di nuovo le sue mani. «Infatti lo è. Basta saperlo vedere…» sorrise. «Evelina, la figlia del fornaio, nutre dei forti sentimenti per te. Ha già chiesto a me di parlarti»

    «Lasciate stare Evelina…» lo implorò, stanco di quel nome che voleva a tutti i costi sostituirne un altro.

    «Segui il consiglio di questo vecchio prete… Evelina viene da una famiglia onesta, sarà una brava moglie e una madre premurosa. Và a casa, dà la notizia ai tuoi genitori e iniziate i preparativi».

    Laerte annuì. Rassegnato, non a sposare un’altra ragazza, ma al fatto che non avrebbe ricevuto aiuto da don Azeglio. «È certo che presto celebrerete una funzione Padre, ma non sarà il mio matrimonio seppur io sarò l’ospite d’onore». Le parole non celarono la visione di ciò che sarebbe accaduto. Non alludeva al suicidio, conosceva il destino che lo avrebbe atteso e che don Azeglio stava cercando di evitargli; ne aveva paura ma sapeva di non poterlo eludere.

    Il parroco lo guardò andare via. Quel ragazzo lo aveva battezzato, aveva sfamato lui e la sua famiglia nei momenti di carestia, lo amava come un figlio e, purtroppo, lo conosceva bene; era certo che non si sarebbe mai arreso e si ritirò in preghiera, decidendo di digiunare per due giorni affinché gli fosse risparmiata la vita.

    * * *

    Miranda passeggiava tra le perfette geometrie delle siepi al fianco della sua dama di compagnia.

    Camminava senza guardare dove stesse andando, lasciava che fosse Carolina a guidarla. Dove andassero, non le importava.

    Si trascinava lenta a testa china e mani giunte. Nascondeva un rosario sussurrando a fior di labbra sempre le stesse parole. L’invocazione era accorata, a tal punto da non dar spazio alla consueta chiacchierata che c’era tra le ragazze ogni volta che si trovavano insieme.

    Suo padre dall’alto delle sue stanze la osservava, anzi, la controllava. Controllava che facesse davvero la sua passeggiata come lui le aveva ordinato e non andasse alle scuderie. Da tempo le aveva duramente proibito di avvicinarsi ai cavalli ma soprattutto allo stalliere.

    Il Conte Alvise consultò il prezioso Vacheron Constantin da taschino e prese a fumare la pipa con aria compiaciuta ma non del tutto soddisfatta.

    La moglie colse subito cos’era che non andava «Alvise, se solo mi aveste dato ragione» sospirò la moglie «Miranda a quest’ora sarebbe una suora e non vi avrebbe dato i pensieri che tanto vi assillano»

    «Mia figlia sposerà Philippe Béjart» la zittì con autorità. «Né il suo Dio né nessun’altro. Béjart!».

    La donna abbassò lo sguardo e non lo rialzò fin quando il marito non uscì dalla stanza sbattendo furiosamente la porta.

    * * *

    «Si è fatto tardi, Contessina». La dama interruppe la preghiera. «Dovete cambiarvi per la cena».

    La cena… Come poteva Carolina pensare a cambiarsi per la cena e mangiare? Perché tutti ignoravano il fatto che lei aveva bisogno di altro per vivere? Né di pane, né di acqua, né di aria. Solo di poter stare al fianco della persona che amava.

    Miranda non riusciva a comprendere come nessuno si accorgesse dello stato d’animo in cui riversava, o peggio, come tutti fossero così indifferenti al suo dolore tanto evidente.

    Le persone che aveva intorno, la stavano uccidendo poco alla volta freddi e spietati. Ognuno ricava qualcosa dalla sua infelicità.

    Continuavano tutti nel loro intento.

    Miranda aveva lasciato tirare i lacci del corpetto fino ad avere difficoltà a respirare. I capelli, raccolti in uno chignon, le erano stati tirati tanto da averle procurato un fortissimo mal di testa e, il vestito che le avevano infilato le cameriere era talmente pesante da farla camminare lenta e affaticata. Ma non un cenno di sofferenza, non una parola.

    «Siete bellissima» disse una cameriera facendola mostrare allo specchio.

    Lei si mirò ma non vide nulla di bello. Era come se davanti ai suoi occhi ci fosse del fumo denso che offuscasse il mondo intero. Non rispose; restò con l’espressione infelice a cui suo padre l’aveva condannata.

    «Vi stanno aspettando» incalzò Carolina in tono fermo capendo che sarebbe scoppiata a piangere da lì a poco.

    Annuì debolmente e si alzò dalla sedia davanti allo specchio per scendere al piano di sotto.

    Fu preceduta dal delizioso odore di lavanda che l’accompagnava qualsiasi abito indossasse, poiché desiderava che venisse messo un sacchettino di fiori secchi, vicino ad ogni suo indumento nell’armadio o nei cassetti.

    Al suo ingresso i due uomini smisero di parlare e la madre, seduta al pianoforte, interruppe la musica che li intratteneva.

    Tutti si voltarono a guardarla.

    «Buonasera Generale Béjart» salutò tendendogli la mano con reticenza.

    «Contessina!». L’uomo, poco più giovane di suo padre, le prese e la baciò con raffinata eleganza. «Mi chiedevo dove foste, avete portato la luce in questa stanza!»

    «Sono desolata per essermi fatta attendere»

    «Se questo splendido viso è il risarcimento; sono oltremodo felice di avervi aspettato».

    Miranda ritrasse la mano, concessagli fin troppo a lungo, e abbozzò un sorriso fingendo di essere lusingata dal complimento.

    «Dovrò farvi visita più spesso… la mia memoria mi tradisce; siete ancora più bella di come vi ricordavo».

    «Le lettere che mi fate recapitare ogni settimana, sanno rimediare alla vostra assenza, Generale». Il tono della voce non fece sospettare che quelle lettere finivano ad attizzare il fuoco del camino, senza che le aprisse.

    «Peccato che io non possa dire lo stesso delle Vostre, visto che non ne ricevo» disse Béjart continuando in tono gentile.

    «Eppure, vi assicuro, che faccio partire la risposta lo stesso giorno che le ricevo. Vi fidate di chi vi consegna le missive, Generale?».

    L’ospite indesiderato preferì non ribattere e cambiare discorso mostrando il suo sorriso migliore. «Vi prego, chiamatemi Philippe».

    Miranda guardò il Conte. «Mio padre converrà con me che è prematura tale confidenza»

    «Se il mio nome vi da imbarazzo, continuate pure a chiamarmi Generale Béjart; ma spero che vi passi presto, perché sarebbe imbarazzante per me se mia moglie mi chiamasse Generale. Non credete Contessina?»

    «Non sono Vostra moglie, Generale»

    «Ancora no. Ma lo sarete presto»

    «Non vi metterò mai in imbarazzo, statene certo. Dovrete solo indicarmi quali saranno le persone davanti le quali dovrò chiamarvi Philippe».

    Il Generale Béjart stava per innervosirsi ma decise di rimanere calmo per non offendere i Conti.

    «Miranda, perché non ci suoni qualcosa?» più che una domanda, la madre le offrì un consiglio per uscire da quella conversazione.

    Miranda adorava suonare e, seppure sarebbe servito ad allontanarsi per un po’ da quell’uomo, non aveva voglia di concedergli la sua musica, che reputava qualcosa da donare alle persone che amava. «Mamma, stavate suonando così bene, continuate…».

    Il Generale capì perfettamente il significato del complimento fatto alla madre e cominciò a riprendersi la sua rivincita «L’ultima volta che ci siamo visti avevate promesso che avreste suonato qualcosa in mio onore. Quindi non farò torto a vostra madre se insisto perché suoniate al suo posto».

    Miranda deglutì impedendosi di piangere «Come desiderate». Andò a sedersi, perse tempo volutamente a sistemarsi il vestito con l’intento di annoiarlo e fargli cambiare proposito invece, lui aspettava paziente, comodamente in poltrona.

    Non poté prolungarsi ulteriormente e cominciò a suonare il pezzo che più non le piaceva di cui non ricordava neppure le note esatte.

    Mentre convinceva le dita a muoversi sui tasti, notò la finestra lasciata aperta per mandar via il fumo del focolare e cambiò improvvisamente brano. Scelse la sonata più romantica che esistesse e la eseguì tenendo gli occhi chiusi.

    Pensava al suo grande amore.

    Le note del Notturno più dolce dell’epoca, fluttuò nell’aria fredda di dicembre fino ad arrivare, seppur molto debolmente, dall’altra parte del giardino.

    Laerte stava spalando il letame. Faceva freddo ma era sudato per la fatica del lavoro.

    Appena la musica toccò le sue orecchie si fermò voltando la sguardo verso il castello. Riuscì a scorgere una sagoma dietro la finestra. Da quella distanza, nessuno avrebbe potuto dire chi fosse la persona che stava suonando; ma lui era pronto a giurare che si trattava della sua amata.

    «Cosa fai lì impalato?». Suo padre lo scosse senza arroganza. «Non ti sono bastate le frustate di ieri?» domandò con immenso dispiacere, ripensando alla punizione che il Conte Varriale aveva inferto al figlio per essersi avvicinato troppo alla Contessina. Gli fece una carezza affettuosa sulla spalla. «Rimettiti a lavorare. Tua madre non reggerebbe di vederti di nuovo con la camicia strappata sulla schiena».

    A Laerte non importava delle frustate. Le aveva ricevute senza dimostrare alcun dolore fisico. Il dolore lo provò nell’anima, perché il Conte aveva costretto sua figlia a vedere cosa succedeva a chi non stava al proprio posto. Aveva tenuto gli occhi aperti per guardare i suoi e rassicurarla. Non si era lamentato per non dare soddisfazione al suo padrone, ma quel silenzio fece più male a Miranda che sentì il suono secco e crudele della sferza sulla sua pelle.

    Laerte sapeva che Miranda aveva sofferto come mai prima e, se voleva evitare punizioni, era solo per lei e non per paura del Conte.

    Riprese a lavorare senza, però, smettere di ascoltarla.

    Anche Miranda stava pensando al giorno prima e sperò che quelle note arrivassero a Laerte e potessero alleviargli il dolore.

    Appena il pezzo finì, i tre applaudirono composti.

    «Orecchio finissimo, Contessina» la lodò avvicinandolesi. «Questa che avete appena eseguita, non è una sonata ascoltata al concerto di Franz Liszt a Parigi?»

    «Il mio orecchio è fine ma la vostra memoria è di ferro» il tono non aveva nulla a che fare con un complimento «È proprio un’Opera del Maestro Liszt». Continuò seccata, si scollò di dosso la sua mano che, sulla spalla, la costringeva seduta e si alzò.

    «E sapete come si chiama?».

    Sapeva dove voleva arrivare. Metterla in difficoltà davanti al padre e magari procurarle una punizione come quella subita insieme a Laerte. Aveva paura ma non si lasciò sopraffare e lo sfidò guardandolo dritto negli occhi. Gli rispose esattamente quello che il Generale voleva sentire e lo fece alzando il viso «Liebesträume».

    «Sogno d’Amore!» tradusse. «Una vera dichiarazione!» infierì conoscendo il vero destinatario dell’aria, ma alludendo a sé stesso.

    «È solo un brano per pianoforte che ho avuto la fortuna di ricordare quanto basta per poterlo riproporre, Generale. Non conosco la storia di questa sonata». Gli sorrise e si avvicinò al padre. «Vorrei il permesso per ritirarmi nelle mie stanze. Sono molto stanca»

    «Il Generale Béjart è qui per la tua compagnia, Miranda. Vuoi usargli tale scortesia?»

    «Se la Contessina è stanca, non desidero che resti a causa mia».

    Miranda chiuse gli occhi e cercò di respirare per liberarsi da quella oppressione; ma il corpetto toppo stretto e lo sguardo severo del padre, glielo impedirono. «No, Generale. È un piacere».

    Una cameriera parlò all’orecchio della donna più anziana e, appena uscì, la Contessa Clotilde annunciò che la cena era servita.

    «Dunque è vero ciò che ha affermato quel poeta… beh ora non ricordo il nome ma ha detto che l’amore toglie l’appetito» disse il francese a Miranda facendo notare ai Conti la cena intatta della figlia. «Finalmente la Contessina lascia capire i suoi sentimenti per me» le accarezzò la mano.

    Miranda la sottrasse a un bacio ipocrita, prese il cucchiaio e iniziò a mangiare.

    Il Conte serrò i pugni fino a far diventare le mani livide; dovette lottare contro sé stesso per non dar sfogo all’ira suscitata dalla sfrontatezza della figlia. Decise che doveva, ad ogni costo, metter fine a quell’ignominia. Con qualunque mezzo.

    * * *

    Rachele mescolava la farina di granturco nel paiolo di rame sul camino e cercava di non pensare al suo mal di schiena. I ricci color oro ondeggiavano seguendo i movimenti del suo corpo.

    «Questa mattina sono stata da Giustina e mi ha dato un unguento per le ferite di Laerte. Appena torna gli farò le medicazioni» disse al suocero che stava apparecchiando.

    «Purtroppo, le ferite di Laerte non stanno sulla schiena ma nel cuore… e il cuore non si può medicare».

    Rachele sospirò preoccupata «Ho incontrato Evelina al mercato, mi sembrava fiduciosa; dice di aver parlato con don Azeglio per intercedere con il matrimonio tra loro».

    Ad Anselmo, quell’argomento lo adirava. «Non vuole sentire ragioni. Ha sentimenti solo per la Contessina. Ma che avrà in quella testa!»

    «Nulla, è solo innamorato»

    «L’amore tra un figlio di contadini e una Contessa, non è una cosa possibile».

    Rachele dovette dargli tristemente ragione. «Laerte non si rassegnerà mai»

    «Ne basteranno le frustate del Conte, per tenerlo lontano da sua figlia»

    «Cosa possiamo fare?»

    «Avevo intenzione di mandarlo da mio fratello a Roma. Non posso permettere che sua madre lo veda ancora tornare a casa sanguinante. Già non mi perdono di non aver fatto abbastanza per evitarle il dispiacere provato ieri»

    «E Laerte come ha preso la tua decisione?»

    «Ancora non ne ho parlato con lui. Lo farò stasera a cena»

    La giovane donna annuì. Anche se le sarebbe dispiaciuto enormemente, vedeva l’allontanamento come unica soluzione per evitare al ragazzo tragiche conseguenze. Si trattenne dal fare un commento per una fitta avvertita alla schiena che contrasse il suo viso in una smorfia di dolore.

    Con la mano fermò Anselmo che stava accorrendole in aiuto. «Va tutto bene… non preoccuparti».

    Lui si avvicinò nonostante le rassicurazioni e le tolse il mestolo dalle mani. «Questo bambino lo farai nascere sfaticato se tu continui a lavorare così tanto! Devi riposarti un po’»

    «E lasciarvi tutti affamati?» rispose la ragazza con un sorriso che svelava tutto l’amore che provava per la sua famiglia.

    «Finisco io. Va a sederti»

    «C’è da portare dentro la legna, ancora» disse asciugandosi la fronte con il polso.

    «Non provare ad andarla a prendere! Ci vado io appena ho finito qui»

    Rachele lo baciò sulla fronte. «Fa troppo freddo per le tue ossa». Uscì riparandosi la testa dal vento gelido, con il grembiule legato sotto al mento.

    Tornò

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