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Dopo tutto sei arrivato tu
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E-book359 pagine6 ore

Dopo tutto sei arrivato tu

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Info su questo ebook

«Uno di quei libri che ti fanno innamorare dell’amore.»
Autrice bestseller del New York Times

Emmett Hill è un perfetto gentiluomo. O almeno, questo è quello che la sua agente vuole far credere. Considerando che è bello ed estremamente affascinante, non dovrebbe essere un compito troppo difficile. Si tratta solo di riabilitare la sua reputazione, perché negli ultimi tempi Emmett è balzato all’onore delle cronache per risse da bar, scandali e comportamenti poco opportuni. Se non vuole ritrovarsi relegato a interpretare per sempre ruoli secondari, deve rendere più presentabile la sua immagine. Alyssa Martin è insoddisfatta e frustrata: il lavoro che fa è noiosissimo e i suoi appuntamenti sono un fallimento dopo l’altro. Possibile che l’uomo giusto per lei non esista? Quando Emmett e Alyssa si incontrano a un matrimonio, non immaginano che passare la notte insieme cambierà la loro vita. La stampa, infatti, è entusiasta della “brava ragazza” immortalata insieme all’attore, e gli agenti di Emmett premono perché la relazione vada avanti, anche solo per finta. Peccato che, fuori dalla camera da letto, i due siano come cane e gatto…

Un attore sempre in cerca di guai.
Una brava ragazza in cerca dell’amore.
Potranno mai andare d’accordo?

«Uno di quei libri che ti fanno innamorare dell’amore. Sexy, ma anche dolce e divertentissimo.»

«Una lettura divertente, ho amato i due protagonisti alla follia. Consigliato a chi cerca una lettura romantica, ma non vuole rinunciare a un po’ di irresistibile ironia!»

«Un romanzo deliziosamente complicato, che crea dipendenza.»
Karina Halle
È cresciuta a Vancouver, in Canada. Ha una laurea in sceneggiatura e una in giornalismo e ha collaborato con diverse riviste. È autrice di numerosi libri di successo. Patto d’amore, il primo volume della serie Dream, è stato in classifica per diverse settimane sul «New York Times», il «Wall Street Journal» e «USA Today».
LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2018
ISBN9788822724601
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    Anteprima del libro

    Dopo tutto sei arrivato tu - Karina Halle

    Prologo

    Emmett

    Nel passato

    Emmett Hill aveva appena compiuto dieci anni. Una settimana dopo, tutto cambiò.

    Non era un bambino felice, in realtà. Ma la vita che aveva era anche l’unica che conosceva. E sebbene spesso sognasse la vita migliore che vedeva nei quartieri giusti della città, a lui sembrava solo una favola. Qualcosa che non sarebbe mai successo, qualcosa da tenere nascosto nei sogni. La vita, fuori dalle brutte e sporche strade della zona est di Vancouver, era come un film, un racconto, uno spettacolo su un palcoscenico. E lui era bloccato dietro le quinte.

    Ma, come la maggior parte dei bambini, si adattava. E di quell’essere bloccato aveva fatto il suo stile di vita. Ogni giorno era uguale al precedente, e questo rendeva le difficoltà più accettabili.

    Si svegliava di mattina nel minuscolo appartamento con un solo bagno che condivideva con sua madre, e lei gli portava la colazione a letto, con quelle mani esili e tremanti. Di solito, non era altro che una tazza di cereali zuccherati con l’acqua al posto del latte, ma quei cereali zuccherati per lui erano come un dolce, perciò non aveva importanza.

    Poi si preparava per andare a scuola. Il suo armadio era pieno di vestiti o troppo grandi o troppo piccoli per lui, vestiti che avevano il nome di altri bambini sull’etichetta all’interno del colletto, ma almeno aveva un po’ di varietà. La sua scuola ci teneva a regalare a lui, e ad altri bambini che portavano scarpe un po’ troppo grandi per loro, i vestiti che venivano donati in beneficenza. Anche sua madre era sempre a caccia di abiti puliti, quando non cercava la sua medicina.

    Sua madre di solito lo accompagnava a piedi attraverso i dieci isolati che lo separavano dalla scuola, anche se a volte era Jimmy, l’amico di sua madre, a farlo, ed Emmett immaginava sempre che quella passeggiata fosse come un teletrasporto o un ponte attraverso il tempo. Leggeva tanti libri, e uno dei suoi preferiti era Nelle pieghe del tempo; talvolta, provava a immaginare che il tragitto per arrivare alla scuola passasse attraverso un tesseract. Lasciavano le brutture della Hastings, della Main e delle altre strade dove regnava l’illegalità e ogni speranza veniva schiacciata, e attraversavano Chinatown, dove i negozianti si alzavano sempre presto per esporre le loro colorate mercanzie, mentre l’aria si riempiva della fragranza della carne cotta e delle spezie. Poi, Chinatown lasciava il posto a piccole file di abitazioni in cui Emmett immaginava che vivessero delle persone ricche, che si potevano permettere una vera casa e avevano perfino un pezzetto di giardino, con l’erba che di solito arrivava al petto e giocattoli arrugginiti lasciati alle intemperie.

    Ovviamente, non erano affatto case di ricchi, ma tutto quello che non era l’appartamento dove viveva Emmett (e dove c’era sempre qualcuno che dormiva nel corridoio fuori dalla porta, o che usava le scale come un gabinetto) a lui sembrava qualcosa di principesco.

    Una volta raggiunta la scuola, sua madre andava a lavorare come cameriera in un piccolo ristorante lì vicino, e lui spariva nell’edificio, per imparare e giocare con i suoi amici. Uno dei giochi che preferiva era fare delle recite durante la ricreazione, storie in cui lui era sempre l’eroe. A un certo punto durante la giornata, di solito dopo pranzo, dove lui mandava giù la solita barretta ai cereali, uno dei suoi insegnanti lo prendeva da parte. Gli chiedevano come stava, come stava sua madre, se avesse avuto problemi. Poi gli davano un frutto, a volte anche un sandwich (una volta, la signora Marsden gli aveva portato un Happy Meal del McDonald’s in fondo alla strada: quel giorno non l’avrebbe mai dimenticato).

    Non sapeva, in realtà, perché gli insegnanti ci tenessero tanto a lui, ma spesso gli dicevano che era bello e intelligente, e che avrebbe avuto un futuro radioso, quindi pensava che forse doveva essere speciale. E gli piaceva, essere speciale.

    Alla fine, le ore di lezione si concludevano, e lui si sentiva sempre un po’ triste. Lì era tutto divertente, allegro e piacevole, e perfino imparare le materie più antipatiche come la matematica non era poi così male.

    Ma sua madre, oppure Jimmy, lo aspettavano dietro l’angolo. Nessuno dei due andava a prenderlo al cancello della scuola, e quando aveva chiesto perché, aveva avuto due risposte diverse. Jimmy aveva detto: «Sembrerebbe brutto; loro non sanno che io sono un tuo amico». Sua madre, invece, aveva spiegato: «C’è troppa gente». Lo aveva detto come se non le piacessero i luoghi affollati, quando in realtà la loro intera esistenza era sempre piena di gente, nell’appartamento, in strada, ovunque.

    Ma erano persone del loro genere.

    Drogati. Ubriaconi. Ladri. Senzatetto e senza speranza.

    Quella era la gente da cui erano circondati ogni giorno.

    Ed Emmett non era un idiota. Anche se era cresciuto in quell’orribile appartamento e vedeva sempre le stesse scene, alla fine aveva capito che la medicina che sua madre prendeva, e che tutti gli altri prendevano, era eroina, oppure un’altra droga.

    Tuttavia, anche quando sua madre smise di andare a lavorare, anche quando cominciò a starsene sempre più tempo abbandonata sul divano, anche quando la gente che veniva a casa cominciò a essere più sporca e spaventosa, lui continuò a pensare che alla fine tutto sarebbe andato bene.

    Fino a quando invece non andò tutto male.

    Un giorno, sua madre non venne a prenderlo a scuola. Lui svoltò l’angolo della solita vecchia cassetta delle lettere grigia dove lei lo aspettava, ma non c’era. E neanche Jimmy.

    Poiché aveva compiuto dieci anni, pensò che avrebbe atteso per un po’ e poi sarebbe tornato a casa da solo. Dal giorno del suo decimo compleanno, si sentiva più grande e più saggio. Dopo un’ora, si sistemò sulle spalle lo zaino consumato, con il grosso libro di scienze che lo rendeva più pesante del solito, e si incamminò verso casa.

    Conosceva la strada e non si sarebbe perso. In effetti, mentre camminava, nessuno lo guardò. Quella, almeno, era una cosa buona di quella zona della città. Per quanto fosse sporca e spaventosa, la gente che ci viveva non rapiva né aggrediva le persone. Volevano soltanto soldi per procurarsi la droga. E visto che Emmett era solo un bambino, e non poteva avere con sé del denaro, nessuno gli prestò attenzione.

    Quando si avvicinò all’appartamento, cominciò a sentirsi più grande. Come un vero, giovane uomo. Non solo era riuscito a tornare a casa da solo, attraversando il tesseract, ma la gente non gli aveva prestato la minima attenzione. Non si sentiva più un bambino. Si sentiva invincibile.

    Così, smise di preoccuparsi del fatto che sua madre non fosse venuta a prenderlo a scuola. Corse su per le scale salendo i gradini due alla volta fino all’ultimo piano del palazzo ed entrò in casa, ansioso di raccontare alla madre della sua conquista.

    Ma lei non c’era.

    Si chiese se non fosse tornata al lavoro. Sarebbe stato bello, visto che era da parecchio tempo che non si godeva un buon pasto caldo. Poi andò da Jimmy, in fondo al pianerottolo, per chiedergli se sapesse dov’era.

    Bussò più e più volte, e alla fine l’uomo che stava dormicchiando sul pavimento vicino alle scale lo guardò e disse: «Non è in casa. Hai un dollaro, figliolo?».

    Emmett scosse la testa. «Se avessi un dollaro, mi ci sarei comprato un ghiacciolo. Hai visto mia madre?».

    L’uomo lo fissò per un attimo, stringendo gli occhi, e poi rispose: «Sì. Emily, giusto? L’ultima volta che l’ho vista era fuori dalla macelleria».

    Non sembrava male. C’era una macelleria a un isolato di distanza, che offriva qualche ritaglio di carne a buon prezzo. A volte, sua madre andava lì a prendere qualcosa da mangiare per loro. Forse gli avrebbe preparato una cena decente, quella sera. Non aveva avuto nulla di speciale per il suo decimo compleanno.

    Così, si mise in testa quel pensiero, scacciando le preoccupazioni, e tornò a casa. Si sedette sul divano, guardò l’orologio e attese.

    Passarono le ore.

    Calò la notte.

    E sua madre non tornò a casa.

    Cercò qualcosa da mangiare nella dispensa e trovò un pacchetto di cracker raffermi che divorò senza pensarci due volte. Poi decise di andare a cercarla.

    Tutto faceva più paura, al buio. Di giorno, almeno, poteva vedere gli orrori che ci sono intorno, ma di notte erano nascosti, nell’ombra, e questo li rendeva ancora più mostruosi. Emmett si sentì molto coraggioso per quello che stava per fare, ora che tutto era diventato più pericoloso, più fuori controllo. Ma ricordò che la gente lo aveva ignorato, prima, e si rese conto che non poteva stare ad aspettare sua madre per sempre. E se le fosse accaduto qualcosa?

    Per una volta, quella che era solo un’ipotesi sembrava una concreta realtà. Mentre correva per le strade, chiamando sua madre, cercandola, ritrovandosi davanti a persone che lo spaventavano a morte, cominciò a pensarci, alla morte. Allo scenario peggiore. Sua madre si drogava sempre di più, e sembrava stare sempre peggio.

    E se… e se… e se…?

    Fu quando si costrinse a spingersi nei vicoli più remoti che capì di essere vicino alla morte.

    Poteva sentirne l’odore, avvertirne la vibrazione oscura e opprimente.

    I muri di mattoni erano coperti di graffiti, il marciapiede costellato di escrementi, pozze di vomito, bustine di plastica, siringhe usate.

    C’erano persone anche lì, ma non molte si muovevano.

    Per la maggior parte, se ne stavano buttate a terra, con l’ago ancora piantato nel braccio che scintillava alla luce fioca.

    Guardò in faccia ciascuno di loro.

    Erano vivi, ma a malapena. Persi nella nebbia dell’eroina.

    Continuò a procedere.

    Perché ora lo sapeva, sapeva, nel suo giovane e piccolo cuore, che sua madre poteva essere una di loro.

    Continuò a camminare per quei vicoli per quella che gli sembrò un’eternità. Infine, si ritrovò proprio dietro casa sua, e a quel punto vide un paio di scarpe da tennis sporche e familiari che spuntavano dal retro di un cassonetto.

    Il respiro gli si fermò nei polmoni. Il sapore della bile gli riempì la bocca.

    Un terrore puro e sconvolgente lo bloccò, come una creatura vivente che lo schiacciava, fino a fargli avere la sensazione di affogare.

    Le gambe di sua madre erano immobili.

    Nella luce fredda di un lampione, sembravano quasi bluastre.

    Non avrebbe saputo dire per quanto tempo restò lì, gelato dalla paura, mentre il cuore gli si sgretolava nel petto. Nonostante tutti i suoi difetti, quella era sua madre, ed era l’unica persona al mondo a cui volesse davvero bene. Non voleva vederla in quel modo. Voleva che tutto tornasse come era prima. Se avesse potuto passare di nuovo attraverso il tesseract, al tempo in cui sua madre non giaceva immobile in quel vicolo, prima che la sua vita cambiasse per sempre, lo avrebbe fatto.

    Sii forte, si disse. Sei grande, ormai.

    E lo era davvero. Raddrizzò le spalle.

    Prese un respiro profondo.

    E guardò oltre il cassonetto.

    Quella notte, tutti sentirono le grida di quel bambino.

    Sembrarono riecheggiare sui muri del vicolo per sempre, soffocando il rumore delle sirene e il caos nelle strade.

    Un grido terribile, che avrebbe risvegliato anche i morti.

    Ma non risvegliò sua madre.

    Capitolo 1

    Emmett

    28 anni dopo

    «Lo sai che se mi tocchi, lui ti ucciderà».

    Le sue parole restano sospese nell’aria. Un po’ troppo a lungo per i miei gusti, ma reagisco come stabilito.

    «E come lo sai che a te non piacerà, se ti tocco?», le domando, caricando la voce del giusto quantitativo di sarcasmo. Avanzo di un passo minaccioso verso di lei, girata di spalle, con la luce che investe il suo profilo alla perfezione, finché non mi trovo proprio dietro di lei. «Sarà il nostro piccolo segreto».

    Attendo per qualche istante, contando mentalmente, poi abbasso la voce mentre le scosto i capelli dalla spalla. Sanno di lacca, e la mano mi rimane quasi appiccicata alle ciocche. «So che è da tanto tempo che desideri assaggiare l’oscurità. Questa è la tua occasione. Arrenditi a me».

    Quando si irrigidisce, è quasi realistico. Forse la disgusto davvero? Be’, non era certo così, qualche settimana fa, quando l’ho scopata nella sua roulotte.

    «Stop!», esclama Jackson, con la voce che riecheggia sul set. «Scusami, Emmett, ma il copione dice lato oscuro, non oscurità».

    Roteo gli occhi, allontanandomi da Madison e girandomi a guardarlo. È lì, accanto allo sfondo, stanco e frustrato. Sono le undici di venerdì sera, e stiamo facendo di nuovo gli straordinari. Vogliamo tutti andarcene a casa, me compreso, anche perché domattina dovrò svegliarmi presto per il matrimonio del mio amico Will. E già sono abbastanza di malumore, dovendo saltare la cena di prova del ricevimento, stasera.

    «So benissimo cosa dice il copione», rispondo al regista della settimana, cercando di non sembrare antipatico. «Ma assaggiare il lato oscuro mi sembrava un po’ troppo Darth Vader, per i miei gusti».

    «Lo so. Ma ricordati chi è il nostro pubblico», ribatte Jackson. «Stiamo parlando di cw Network. Sanno tutti chi è Darth Vader, ed è giusto che lo associno a te. Tu sei il cattivo, qui, e sei quello che tutti vogliono guardare».

    «Per ora», borbotta Madison tra i denti. Le lancio un’occhiataccia, e lei non si degna neanche di rispondere con un sorriso falso.

    «Certo, vogliono vedere anche Madison», soggiunge Jackson. «Ma torniamo a te, Emmett. Tu sei Cole Black. Il Dottor Morte. La gente si aspetta le battute, si aspetta che tu sia sopra le righe. Ormai lo sai, no?».

    Sospiro. Ben mi sta, per aver provato a recitare come si deve. A quanto pare, tutti quegli anni nei teatri del West End di Londra non contano niente, quando sei il cattivo di una serie televisiva di supereroi per ragazzi.

    Ma non mi lamento di certo. Non mi andava così bene da almeno dieci anni. Al diavolo, fino a sei mesi fa, mi segnalavano come un fallito della televisione canadese. Insomma, inizi a capire che la tua carriera sta andando in malora quando il fottuto Canada comincia a trattarti male.

    Ma da quando ho ottenuto il ruolo del Dottor Morte nella più ridicola serie di supereroi per la tv, Boomerang, la mia vita è totalmente cambiata.

    In meglio, ovvio.

    O, almeno, ne sono abbastanza convinto.

    Sapete quando vi capita di sognare qualcosa per così tanto tempo, di desiderarlo così tanto, che poi, quando succede, non sapete neanche bene come gestirlo o come sentirvi in merito?

    È quello che sto provando io.

    Qualcuno potrebbe anche dire che non lo sto gestendo affatto bene.

    Cerco di non ascoltare quelle voci. Soprattutto se vengono dai media.

    Il problema è che anche Autumn, la mia agente, comincia a dirlo.

    Ma, a parte andare a letto con Madison e aver litigato con uno degli sceneggiatori, sto cercando di essere un vero angelo, sul set. È solo che, per il resto, i guai sembrano volermi seguire.

    Con quei pensieri in testa, prendo un profondo respiro, soffoco l’orgoglio e regalo a Jackson un sorriso vincente.

    «D’accordo, rifacciamola», gli dico. «Seguirò alla lettera il copione. Promesso».

    Madison sbuffa, accanto a me. Sa quanto me che seguire il copione non è mai stato il mio forte. Una metafora che potrebbe essere interpretata in mille modi diversi.

    Per fortuna, riesco a cavarmela, costringendomi a interpretare un Cole Black al limite del cliché e della caricatura, ed entro un’ora finiamo di girare.

    Saluto la troupe e lascio lo studio di Vancouver nord sulla mia Audi acquistata da poco. Sebbene abbia risparmiato parecchio, lavorando sodo da quando avevo vent’anni, e così abbia potuto acquistare la mia attuale casa sulla costa, sono sempre stato molto attento con il denaro.

    Ma, con il mio ruolo in Boomerang sono arrivati anche i soldi veri, e tante opportunità in più, specialmente nella pubblicità. Fino a poco tempo fa, non faceva bene alla reputazione di un attore recitare negli spot pubblicitari, a meno che non si facesse all’estero, per esempio per un whisky giapponese. Ma ormai Matthew McConaughey, con quel suo dannato accento strascicato, e le auto della Lincoln l’hanno reso accettabile. Danny DeVito e George Clooney con il Nescafé, poi, hanno addirittura fatto diventare il business qualcosa di apprezzato.

    Quindi, serie televisiva popolare e qualche spot pubblicitario: ed eccomi finalmente pieno di denaro che non ho paura di spendere. Ehi, non fraintendetemi: sono stato il ragazzo prodigio e poi sono scomparso dalle scene. A trentotto anni, so più di chiunque altro quanto è facile perdere tutto, e non parlo soltanto della fama o del lavoro. È la vita, in generale. E basta un battito di ciglia.

    Non so perché i miei pensieri abbiano preso questa direzione negativa, ma sento la necessità di fermarmi davanti a un negozio di alcolici, nella speranza di comprare qualcosa per domattina, quando Will e Ted verranno da me prima della cerimonia. Ovviamente è una scusa, perché ho un armadietto pieno di bottiglie, a casa, ma non riesco a togliermi questa voglia dalla testa. E, come temevo, essendo ormai tardi, e visto che in questa città tutti i negozi chiudono presto, lo trovo chiuso.

    Dovrei andarmene, rientrare in macchina e puntare verso il Second Narrows Bridge, verso casa. Prendere una bottiglia di whisky dalla mia scorta, mettermi comodo e rilassarmi. Addormentarmi davanti alla tv. O qualcosa del genere.

    Ma c’è un fuoco che mi brucia nelle vene, adesso. Non torno in macchina, attraverso il parcheggio, supero il minimarket e altri negozi chiusi, e raggiungo El Rodeo.

    Non chiedetemi perché si chiami così. Non offre piatti messicani, anzi non servono proprio cibo, e non ha un arredamento in stile western. Semmai, ha un vago stile nautico. Ma è un bar, di solito frequentato da attori e tecnici che lavorano agli studi cinematografici.

    Essendo venerdì sera, c’è un po’ di gente all’interno, e qualcuno lo riconosco, ma resto per conto mio e mi siedo al bancone. Cerco di non bere troppo in questo locale, perché spesso non mancano cacciatori di autografi, blogger di pettegolezzi e paparazzi, e poi le leggi sulla guida in stato di ebbrezza, in Columbia Britannica, sono molto severe, e l’ultima cosa che voglio e di cui ho bisogno è finire dietro le sbarre.

    Ma, per qualche motivo, mi ritrovo a buttare giù whisky come se fosse acqua, e al quarto bicchiere mi rendo conto che dovrò prendere un taxi per tornare a casa. Forse è colpa della frustrazione che sto provando, e che mi ricorda che dovrei fissare un nuovo appuntamento con la mia terapista, Christine. O forse è il fatto che Will stia per sposarsi, e sebbene io sia felice per il mio migliore amico e per Jackie, la sua giovane e dolce futura moglie, che tra l’altro è anche incinta, questo mi ricorda che, mentre la mia carriera sta di nuovo procedendo, la mia vita personale è maledettamente ferma come sempre. Un passo avanti in una direzione, due passi indietro nell’altra.

    Qualunque sia il motivo, me ne resto lì finché il bar non chiude e il barista mi chiama un taxi. Mi sento la testa annebbiata, ma il battito cardiaco balla a mille. Provo ancora quella vaga frustrazione mista a rabbia, anche se non so perché o cosa farci. L’alcol non l’ha cancellata, anzi, l’ha solo incoraggiata.

    «Ehi, amico», dice qualcuno alle mie spalle, dopo che esco dal bar. Il taxi non è ancora qui, ma a quanto pare non sono solo.

    Mi giro e noto un uomo grasso, con la pancia prominente, che mi fissa, con il cellulare puntato verso di me e un sorriso idiota su quella faccia rotonda.

    «Dici a me?», gli chiedo. Non dovrei neanche aprire bocca, specie quando sono ubriaco.

    «Ma guardalo, si crede il nuovo De Niro». L’uomo ride, guardando lo schermo del telefono. A quanto pare, sta riprendendo la scena.

    Respira a fondo. Non reagire. Il mondo è pieno di gente pronta a insultarti, e questo fa capire molto di più su di loro che su di te.

    Mi ripeto quello che la mia terapista mi ha insegnato.

    Ma, al momento, niente di tutto questo ha importanza.

    «Stai registrando?», chiedo alla testa di cazzo, cercando di scandire le parole.

    «Ehi, amico, come ci si sente a passare da Cruiser McGill a Scimmione?», mi chiede, in tono maligno.

    Il mio nuovo soprannome.

    E so benissimo perché lo sta facendo. Sta cercando di rovinarmi la reputazione. Di farmi dire qualcosa di stupido, qualcosa da registrare sul telefono e poi vendere a qualche sito di gossip.

    In qualche modo, riesco a tenere a bada l’istinto di dargli ciò che vuole. Ovvero, di mollargli un pugno sul naso. Due settimane fa, l’ho fatto con il buttafuori di un bar al centro, e forse è da lì che è venuto il soprannome Scimmione. O forse è successo una settimana prima, quando ho detto a un paparazzo che mi aveva scattato una foto con una giovane attrice fuori dalla casa di lei di andare a farsi fottere, minacciandolo di sfasciargli la fotocamera.

    Non sono molto popolare, ultimamente.

    Gli volto le spalle, serrando i pugni, desiderando che quel dannato taxi si sbrighi ad arrivare. Non posso andare via, e quello stronzo è ancora qui.

    «Ehi, hai tipo quanto, quarant’anni, amico?», continua il tizio alle mie spalle, e sento che si sta avvicinando. «Pensi che fare il Dottor Morte stia aiutando la tua carriera? È finita quando hai lasciato Degrassi, Ryan Reynolds dei poveri».

    Giuro, non ho niente contro Ryan Reynolds.

    Ma quelle parole mi fanno esplodere.

    Mi giro di scatto e quasi lo prendo a pugni in faccia.

    Querela, querela.

    Quelle parole, che mi lampeggiano in testa come una sirena, sono l’unica cosa che mi salva.

    Afferro il cellulare e lo lancio sul marciapiede, per poi colpirlo con il tacco finché non sento lo schermo frantumarsi.

    «Porca puttana!», esclama il tipo, e a quel punto, quando lo guardo negli occhi, mi rendo conto di sembrare ubriaco e pazzo, ma quel gesto è sufficiente a farlo arretrare scuotendo la testa.

    «Mi hai spaccato il telefono! Hai distrutto il mio cazzo di telefono!».

    «Avevi bisogno di una rottura netta con i social media», gli dico, sarcastico, tirando fuori una battuta da Dottor Morte.

    Dannazione, ma che ho nella testa?

    Devo andarmene da qui.

    In quel preciso istante, il taxi si ferma nel parcheggio e io agito un braccio, scattando a correre per raggiungerlo.

    Scivolo sul sedile posteriore e dico al tassista il mio indirizzo. Non riesco a evitare di guardare fuori dal finestrino, verso l’uomo grasso che cerca di recuperare i pezzi del suo telefono.

    Sospirando, mi passo una mano tra i capelli e mi appoggio allo schienale del sedile, mentre l’abitacolo del taxi comincia a girare intorno a me.

    Quante possibilità ci sono che tutta questa storia non venga fuori?

    «Guarda un po’, ma non è forse Mr. Star del Cinema quello che vedo?», mi dice Ted Phillips mentre apro la porta e vedo lui e Will sulla soglia, entrambi in smoking, con gli occhi socchiusi per il sole.

    «Semmai della tv», lo correggo con un sorriso, sempre lieto di vederlo. «E anche piuttosto mediocre, se è per quello».

    «Ah, la falsa modestia», commenta Ted, battendomi una pacca sulla schiena e precedendomi oltre l’ingresso, per poi guardarsi intorno nel mio ampio soggiorno. «Ma diavolo, quante cose puoi comprartici, con la falsa modestia».

    «Dovresti provarla, una volta, Ted», scherza Will, alle sue spalle.

    Lo lascio entrare e lo osservo da capo a piedi. Ha sempre avuto un che di James Bond dei vecchi tempi, più Roger Moore che Sean Connery. È alto, prestante, con una mascella che ha bisogno di un suo codice postale a parte. E oggi che si sposa, sembra ancora più bello ed elegante.

    «Non so se sia il mio ruolo di secondo testimone dello sposo che mi suggerisce di dirti che stai una favola, ma stai davvero una favola, amico», gli dico.

    «Be’, di certo non è il ruolo del primo testimone, giusto?», commenta Will, rivolgendosi di nuovo a Ted, mentre lui apre le porte di vetro del soggiorno ed esce sul patio che dà sulla baia.

    «Come ti senti? Nervoso?», domando a Will, dirigendomi in cucina.

    «Neanche un po’», dichiara lui, sereno. È così maledettamente calmo. Il mio esatto contrario.

    «Hai bisogno di un drink?»

    «Perché diavolo pensi che siamo qui?», esclama Ted con un ghigno, tornando dentro. «Non potremo bere come si deve al matrimonio, altrimenti daremo scandalo».

    «Intendi dire che io non posso farlo», lo corregge Will. «Se tu non avrai sempre un bicchiere in mano, qualcuno verrà a controllarti il polso».

    «E anche tu mi sembri aver bisogno di un drink», dichiara Ted, guardandomi. «Falli doppi, già che ci sei».

    «Singolo, per favore». Will sta cercando di fare quello responsabile, qui.

    «Ah, tra qualche ora non lo sarai più», scherza Ted, inarcando le sopracciglia.

    «Perché ti sembra che io abbia bisogno di un drink?», domando a Ted, mentre comincio a versare il Crown Royal. Mi sono svegliato con un gran mal di testa, ma dopo una doccia e dopo essermi sistemato il vago accenno di barba che ho sempre (per contratto, non posso radermi completamente: parte del fascino del dottore sta nel fatto che ha sempre un ispido accenno di barba sul viso, molto più difficile da mantenere di quanto non possiate immaginare), mi sono ripreso piuttosto bene. La nebbia che mi offuscava la mente si è diradata mentre tornavo in taxi a Vancouver nord, dove ho dovuto riprendere la macchina prima di beccarmi una multa. L’ultimo passo per sembrare e sentirmi presentabile è lo smoking; e nessuno può sembrare brutto o trasandato, in smoking.

    «Non fingere, ho visto il notiziario», esclama Ted. «tmz, Perez, Just Jared. Quello stronzo è furioso per la storia del telefono. Se lo meritava, senza dubbio, ma è molto, molto arrabbiato».

    Chiudo gli occhi, con un gemito. Ted è sui sessant’anni e ha i capelli bianchi, ma il suo sorriso affascinante lo fa sembrare molto più giovane, e si tiene informato su tutti i gossip di Hollywood più di chiunque altro io conosca, come se leggesse «Variety» e l’«Hollywood Reporter» mentre dorme. Essendo il proprietario, insieme a Will, di Mad Men Studios, compagnia che realizza animazioni ed effetti speciali qui a Vancouver e negli uffici di Los Angeles, immagino che si vanti di essere sempre il primo a sapere tutto, anche se non è direttamente collegato al suo lavoro.

    «Forse dovresti essere tu il mio agente», gli dico offrendo un drink a lui e a Will. «Prendi certe notizie molto meglio di lei». In effetti, è

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