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Tutta colpa di quell'etrusco
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E-book104 pagine1 ora

Tutta colpa di quell'etrusco

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Info su questo ebook

Egoista e schivo, convinto contro ogni ragionevole dubbio di meritarsi la sua fetta di infelicità dopo aver perduto per sempre l’occasione di essere felice, Giotto Costantini, archivista comunale, vive ostaggio della sua sete di cultura e della noiosa quotidianità della sua Torrebianca. Poi all’improvviso l’incontro fortuito con l’amore della sua vita, l’indimenticata Angela, squarcia il cielo delle sue certezze, spingendolo a rimettere in mare la barca del coraggio e a sfidare la tempesta creata dal muro di moralità e di inossidabile amore materno innalzato dalla sua ex fidanzata. Una storia realistica, di passione e di amore cerebrale condita dall’ironia, dalla dinamicità e dalla spietata autoanalisi dei protagonisti.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788835826088
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    Anteprima del libro

    Tutta colpa di quell'etrusco - Antonella Fornetti

    XXXIV

    I

    Blu. Con la matita microscopica aveva falciato interi paragrafi del suo articolo a colpi di blu.

    Grigio. Il pomeriggio, annunciatosi nuvoloso, aveva mantenuto le sue premesse.

    Con flemma esasperante bussò, entrando senza attendere risposta. Era stanca dopo nove ore di scrivania. In netta contraddizione con quella faccia acetosa il direttore era un uomo di spirito, pronto alla battuta e allo scherzo sicché, quando lei gli comunicò la notizia, sulle prime scoppiò in una sonora risata. Quando capì che lei era seria, un’espressione di sofferta incredulità gli si palesò in volto e il suo naso adunco si tinse di rabbia. Le inflisse un rosario di rimproveri e di lamenti, copia e incolla di quelli che le aveva inflitto sua madre, poi tacque, bevve un sorso d’acqua e si schiarì la voce per il gran finale.

    «Angela», predicò «non è forse vero che il mese scorso l’ho promossa a capo-redattrice, elencandole con molta onestà gli oneri che tale compito comportava? E non mi aveva forse assicurato che le sue bambine godevano dell’assistenza di una più che valida babysitter? E che avrebbe comprato un grande televisore al plasma da mettere in camera da letto per evitare questo genere di incidenti?».

    Per una buona mezzora, gli sproloqui ferirono il suo padiglione auricolare, conditi dal rammarico (di lui) di non comprendere fino in fondo la necessità di circondarsi di marmocchi dal sedere maleodorante.

    In realtà lei stessa faticava a conciliare le sue opposte nature di giornalista e di mamma. Quando era al lavoro pensava alle bambine e quando era con le bambine rimuginava sul lavoro. Quella terza gravidanza non era stata calcolata. Aveva quarant’anni. L’orologio biologico aveva esaurito le sue batterie e dopo la nascita di Giulia che aveva quasi tre anni, si era persuasa a non dover più ripetere l’esperienza. Si stava riappropriando della sua esistenza. E quel bambino, non ebbe il coraggio di confessarlo al suo direttore, avrebbe dovuto crescerlo da sola. Suo marito l’aveva tradita poco dopo la scoperta della gravidanza e lei l’aveva messo alla porta.

    Esaurita la scorta dei biasimi l’anziano giornalista si zittì. Si alzò, afferrò una bottiglia d’acqua da due litri e bevve fino a saziare una sete da legionario. Poi si sedette di nuovo e prese a fissarla.

    Quel silenzio improvviso la stava precipitando in un abisso di incertezza che la spinse a simulare un aspetto afflitto e ad azzardare una riflessione a voce alta.

    «Potrei lavorare fino all’ottavo mese compreso e creare da casa una nuova rubrica, che so, ad esempio sui diritti delle mamme che lavorano, fino al compimento del quarto mese del bambino, per tornare poi a occuparmi di politica. Se per lei non rappresenta un buon compromesso», concluse consapevole di essere sul punto di attraversare un binario senza passaggio a livello «potrei ricontattare il dottor Rubini che tanto si dolse quando lasciai la sua redazione».

    Stava bleffando. Quando aveva abbandonato quel covo di vipere si era sentita finalmente libera. Là non si era mai potuta esprimere come avrebbe voluto, ma solo come conveniva al giornale, un settimanale politico la cui bandiera sventolava a destra, a sinistra, al centro, a seconda di come tirasse il vento, mentre lei aveva la pretesa, fuori moda s’intende, di essere imparziale. Verducci lo sapeva e a quell’esclamazione non poté trattenersi dal sorridere.

    Si sciolse definitivamente, si alzò, le dette una cameratesca pacca sulla spalla destra e le sussurrò: «Speriamo che almeno questa volta sia un bel maschietto. Leonardo, il mio nome, gli calzerebbe proprio a pennello, vista la creatività di sua madre».

    Si sentiva come il passerotto appena scampato alla pallottola del cacciatore. Prima di rincasare sarebbe passata dal fruttivendolo perché aveva voglia di ananas. Il suo ginecologo le aveva detto che le voglie: Sono frutto del desiderio, tutto femminile, di attirare l’attenzione sul proprio corpo disfatto, ma lei non gli aveva creduto. Era una donna pragmatica che non pubblicizzava i propri desideri. Non aveva mai mandato nessuno a cercare strudel di mele nel cuore della notte, o ciliege in pieno inverno.

    Il suolo era già incipriato di neve.

    Si era ripromessa di prestare attenzione agli scalini dell’ingresso principale ma per quanto fosse stata prudente i suoi piedi persero aderenza e fu sul punto di scivolare. Quando l’impatto a terra sembrava inevitabile fu afferrata da due possenti braccia che la sostennero. La fortuna la rincorreva sempre nei momenti di difficoltà, pensò.

    Completamente arruffata e con un po’ di affanno tentò di girarsi per identificare il suo salvatore, ma si trovò letteralmente incollata al viso di lui, completamente disorientato. Lo fissò a lungo per sincerarsi di non essersi sbagliata.

    «Giotto!», esclamò.

    II

    Il silenzio, alle sette e trenta di quella giornata d’inverno, era infranto da un sommesso cigolio di persiane timidamente aperte sui colori del cielo. I tiepidi raggi baciavano i rami dei platani nel piccolo parcheggio di piazza dei Martiri. In quell’atmosfera da acquario guizzavano ombre dagli occhi segnati di sonno.

    Seguendo la scia dei sapori, e indeciso se fingere di aver dimenticato un appuntamento di lavoro o mettere la parola fine alla ricerca sulla strega del 1600 di Torrebianca, si avviò verso la pasticceria di Edda. I cornetti erano appena stati sfornati e la strega, dunque, poteva aspettare. Doveva ingurgitare subito qualcosa di energetico. Aveva passato la notte sveglio a pensare a quell’incontro.

    La biografia della strega, un’impresa titanica, lo impegnava ormai da tre anni. Ogni mattina si riprometteva di riprendere le indagini, poi finiva col perdersi in una nebbia creativa. A lei imputava la sua disperata calvizie.

    Edda era una donna dal senso pratico, chi voleva servirsi al suo banco doveva rispettare la fila, decidere in fretta cosa bere e cosa mangiare, ingurgitare il tutto senza respirare e, con altrettanta solerzia, pagare e fare due tre complimenti al gatto, Matusalemme.

    Anni prima il felino era stato vittima di un episodio curioso.

    Donna Giuliana, la madre di Edda, convinta di accrescere la bellezza del micio, gli aveva tagliato le vibrisse, decretando la sua fine come corteggiatore. Matusalemme aveva perso il senso dell’orientamento e da allora era diventato un tutt’uno con lo zerbino,

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