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Innocenti delitti
Innocenti delitti
Innocenti delitti
E-book247 pagine3 ore

Innocenti delitti

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Info su questo ebook

[genere narrativa, drammatico, psicologico, crimine, sentimentale]
Gianna è una ragazza particolare, cresciuta senza la figura della madre, con un padre sempre pronto a proteggerla. La vita della ragazza è piena di paure, timori infondati, che la gettano ogni volta in profonde inquietudini. Gabriele è un giovane introverso che vive alla giornata, indifferente al mondo che lo circonda, con una zia iperprotettiva che, senza avvedersi, aggrava le sue fobie personali.
Grazie a una serie di eventi, Gianna e Gabriele si conoscono, tra loro nasce un rapporto che travalica l'unione tra due individui. Il loro non è solo amore, ma una condizione necessaria a entrambi per essere finalmente due persone normali. Il rapporto diventa così necessario ai due che, qualsiasi complicazione metta a rischio il loro amore, viene interpretata come un turbamento da eliminare immediatamente. Questa regola non ha confini per i due, qualsiasi cosa intralci o turbi il loro rapporto viene immancabilmente eliminata. In una città piccola e raccolta come Viterbo, Gianna e Gabriele si muovo come un unico corpo indivisibile, ma niente e nessuno alla fine può soggiogare il destino.
LinguaItaliano
Data di uscita20 gen 2017
ISBN9786050488982
Innocenti delitti

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    Anteprima del libro

    Innocenti delitti - Cosimo Vitiello

    Capitolo primo

    Il vecchio e la ragazza

    Era un piovoso giorno autunnale, lampi lontani trasformavano in mattino una notte altrimenti cupa. Rombi lenti e insistenti vibravano tra i vecchi palazzi di guardia alle vie lucide, soffuse sotto i lampioni pallidi. Il rumore costante s’insinuava tra cose viventi e non, cancellando la differenza tra le due. In poco tempo tutto fu in mano alla natura, una padrona che non lascia spazio a niente, impera senza curarsi di nulla.

    L’individuo disposto ai sentimenti facilmente confonde il tempo, il luogo e perfino se stesso, perdendosi nel proprio passato, soggiogato dalle eccessive sensazioni.

    Chiuso nella sua camera, uno di questi, il vecchio Battista, attendeva con una tale eccitazione questa stagione, che l’accoglieva sempre con un senso di gaiezza.

    Abitava in un appartamento spazioso, al terzo piano di un caseggiato con alle spalle più di mezzo secolo di vita, che gettava la sua facciata sul crocevia trafficato di viale IV Novembre. Questa cittadina, sperduta tra le valli della Tuscia, al calar del sole diventava un paesino di campagna, e quella sera, oltre al costante sottofondo della pioggia e a qualche tuono, null’altro si udiva. Con molte stanze vuote, prive di vita più che di mobilio, il temporale autunnale acquistava una forza in più in quella casa.

    Sprofondato nella sua poltrona Chippendale ormai da diverse ore, Battista vide scemare il maltempo che dava inizio alla brutta stagione, e con un certo rammarico nel corpo si risolse ad alzarsi. Raggiunse la finestra che dava sul balcone, libera dai drappeggi, e stette per un po’ ad ammirare la cittadina assonnata, fradicia e misteriosa. Di fronte a questo scenario, sebbene più volte osservato, rimase rapito. Lontani fulmini illuminavano il confine fin dove i suoi occhi stanchi si spingevano, e fu in questo momento di rinnovato stupore che si accorse di non vedere con chiarezza da un occhio. Pensò fosse la stanchezza, colpa di tutto quel tempo passato a guardare oltre la finestra, dei lampi che l’avevano più volte accecato, del rumore delle imposte lontane che sbattevano sotto le sferzate del vento. Insomma, pensò un po’ a tutto.

    Come tutte le sere si servì una camomilla calda, poi si mise a letto aprendo Wuthering Heights, leggendo la solita pagina e cadendo addormentato con i pince-nez poggiati sul naso.

    L’indomani, domenica, di buon mattino, com’era suo solito, si preparò per fare una lunga passeggiata, quel giorno toccava al Pilastro, e stette attento al vestito da indossare. Impiegò dell’altro tempo, a suo dire mai perso, a curare il viso, sempre rasato e profumato.

    Il cielo era sgombro di nubi quando scese per strada, ovunque indugiassero i suoi occhi vedeva la bellezza del creato. Ogni persona che incontrava riceveva un saluto, bastava che l’avesse intravista durante una delle sue passeggiate; stampava in mente tutti i volti e non si dimenticava di nessuno.

    A ogni giorno della settimana Battista associava un tragitto, non trasgrediva mai a questa semplice regola. La domenica aveva il percorso più lungo, e metteva fretta nelle gambe così da arrivare in tempo per la fine della messa. Al bar gustava un caffè con Remigio, l’amico di lunga data, benché li separasse un decennio di vita. Remigio seguiva la funzione alla Santissima Trinità, Battista l’attendeva sfogliando il giornale del giorno prima, seduto a un tavolino, gettando un occhio ogni tanto alla gente che passeggiava.

    Battista era orgoglioso delle sue passeggiate mattutine, ogni occasione era buona per sfoggiare la sua lena, a settant’anni suonati non molti riuscivano a tenere il suo passo; ne era consapevole e ci teneva a puntualizzarlo.

    Il Pilastro, quindi, era la meta di quel giorno.

    Quella domenica regalava un tenue tepore, l’assenza di vento poi esaltava le carezze del sole. Aveva scelto un tavolino esterno, dal quale poteva allungare lo sguardo fino a Prato Giardino, tra un necrologio e l’altro. Sperava che l’amico non avesse appresso la figlia scema, lei lo seguiva sempre come un cagnolino e non guardava mai in faccia nessuno. Desiderava far due chiacchiere in sacrosanta libertà e proprio non la voleva fra i piedi.

    Per Battista, Remigio assecondava troppo quella sua figlia, non le dava mai un consiglio su come comportarsi in pubblico, salutare, rispondere alle domande, cose così. Fosse per lui, le avrebbe dato un calcio nei fondelli, altroché!

    Questi erano i pensieri del vecchio mentre attendeva l’amico, pensieri che rivolgeva a chiunque peccasse di contegno e trasgredisse le sue ferree regole di buon comportamento. Ma li teneva per sé, sapeva che le persone non apprezzano certe critiche, quindi non li biasimava, si limitava a covare nell’animo disgusto verso di loro. Nulla di questo trapelava sulla sua faccia quando, con la tipica cordialità cockney, intratteneva un conoscente del quale disapprovava la condotta.

    Con Remigio era un’altra storia. Li legava una profonda amicizia, appunto, frutto del legame delle loro famiglie, e non riusciva a provare per lui quello che normalmente gli suscitava il resto del mondo. Non bastavano il modo trasandato di vestirsi, il viziaccio di radersi solo quando la barba s’era fatta oramai vistosa, nemmeno quella figlia scema che il destino gli aveva mandato: gli voleva troppo bene, e quelle sue divergenze erano solo dei fastidi momentanei.

    Quando vide avvicinarsi Remigio da solo ne fu felice. Riconosceva la sua andatura, traballante su quelle gambette corte che reggevano il peso di quel pancione, e immaginava la sua faccia grassoccia, dalle gote rosse, come se fosse quella di un grande amico di Bacco. La immaginava, sì, poteva solo immaginarla… anche ora gli si presentava quel disturbo di visione a un occhio. Tentò di scacciarlo strofinandosi vistosamente.

    «Che hai?» gli chiese Remigio dopo averlo salutato. Sedette alla sedia libera. Ammirava sempre con piacere il modo di vestire dell’amico, avrebbe voluto solo un pizzico del suo buon gusto. Ordinò un caffè per entrambi e attese che Battista smettesse di fare tutte quelle strane smorfie con gli occhi, non l’aveva mai visto così scomposto.

    «Buongiorno e buona domenica, Remigio. Che ho?» chiese con retorica, intanto si sistemava la giacca dal taglio vagamente Blazer. «È da ieri sera che ogni tanto non vedo bene all’occhio sinistro, mi si para davanti un velo. Dall’altro ci vedo bene, ma da questo… Allora mi si confonde la vista, e quello da dove vedo bene mi lacrima, tanto che alla fine non vedo un accidente. Dev’essere qualche forma di influenza.»

    «Che prende solo a un occhio? Mai vista. Forse una congiuntivite. Dovresti farti vedere da un oculista, queste cose non vanno tralasciate, a volte per una stupidaggine si finisce sotto i ferri: a una certa età bisogna stare attenti.» Pronunciò l’ultima frase con naturalezza.

    Remigio aveva un animo pacifico e mai avrebbe parlato fra le righe. Bevve dalla tazzina con fare spensierato, osservando le persone che passeggiavano per strada.

    Battista sentì di essere stato offeso nella sua persona, allora modificò la sua postura sulla sedia, drizzò la schiena e posò la tazzina un poco stizzito. Prima di ribattere, con lo sguardo fece il giro tutt’intorno, spingendosi con gli occhi fin sul viale alberato, con i marciapiedi sepolti dalle foglie gialle e i vecchietti seduti alle panchine ad ammirare la vivacità dei bambini. Di domenica auto ne passavano poche e dopo la messa, da San Faustino, si riversavano all’incrocio giovani coppie vestite per bene, coi piccoli in passeggino e i più grandi che schiamazzavano indisturbati. Battista osservò per un istante tutta questa vita, riversando su quell’innocente villania il malumore provocatogli da Remigio.

    «Con questo, cosa vorresti dire, amico mio, che sono vecchio?» L’occhio non gli dava più fastidio ora e pensò che la tesi dell’influenza fosse giusta.

    «Battista…»

    «Vedi? È tutto passato, è come dico io.» Fece una breve pausa, durante la quale per sdegno non rivolse lo sguardo a Remigio. «Sai quanti chilometri faccio al giorno? Eh, lo sai? Oggi, oggi ne avrò fatti…»

    «Battista, non volevo dir questo, e tu lo sai.» Remigio sorrideva in cuor suo, pensando che in tutti questi anni Battista non era cambiato nemmeno un po’. Frugò nella testa parole per non offendere l’ego dell’amico, e questa ricerca gli rubò un poco di tempo.

    Intanto al bar era arrivata altra gente, qualcuno li salutò, altri rivolsero loro qualche abituale cortesia. «Vorrei avere io il tuo fisico,» continuò «la costanza che metti nelle tue attività, tutti quei bei pranzetti che ti prepari, magari potessi! Volevo solo dire che a volte bastano due goccettine nell’occhio e il fastidio sparisce. Che avevi capito? Perché stare lì a strofinarti, a insistere fin quando non ti diventa rosso rosso, che poi il problema rimane lì, anzi, peggiora solo. Due goccettine e via, tutto sparisce.» Finì il suo caffè. «Hai paura delle gocce? Te le metto io.»

    «Ma fammi il piacere.»

    Remigio prese a ridere di gusto. La risata partì piano, poi, vedendo che l’amico ostentava una certa alterigia, divenne insistente, tanto da trascinare anche l’altro.

    Battista dimenticò l’aplomb e si prodigò anche lui in grosse risa, dovette coprirsi la bocca per evitare di far vedere la dentiera che ballava.

    «Sai ieri chi ho visto?» domandò Battista, dopo alcuni minuti in cui non era riuscito a dominarsi. «Ieri toccava al Murialdo. Durante la passeggiata mi sono fermato un attimo, e mentre ammiravo i cagnolini dalla vetrina di quel bel negozio di animali mi sento chiamare. Mi giro, vedo quella bella signora sempre abbronzata, che fa la pescivendola in un supermercato, ce l’hai presente? Stranamente…» qui gli rivolse uno sguardo languido, rubato a qualche attore in televisione, «mi ha chiesto di te. È tanto che non ti incontra e pensava tu stessi male. Stai male, Remigio? Non compri più il pesce in via Garbini?»

    «Ma non ti tieni mai niente?» fece l’altro «Devi per forza scocciarmi con questa storia ogni volta?»

    «Non ricordo come si chiama…»

    «Uffa! Monica, si chiama Monica, e smettila.»

    Questo battibecco saltava fuori ogni qualvolta Battista si sentiva in soggezione, piazzando in campo una storiella che rivoltasse il discorso. La signora Monica era l’argomento preferito che adoperava con Remigio, e aveva il cattivo gusto di insistere fino allo sfinimento.

    Quella domenica, però, Remigio non desiderava affatto ascoltare le sue stupidaggini, e decise di trovare il modo di terminare il discorso anzitempo.

    Intanto Battista continuava imperterrito.

    «Io credo sia segretamente innamorata di te» sostenne serio. «Avete praticamente la stessa età, siete entrambi vedovi, tu con una figlia, lei con un nipote che ha tirato su come un figlio, un incastro perfetto direi», si lisciò la giacca e prese fiato per continuare, ma non fece in tempo a riprendere il discorso.

    «La vuoi finire? La conosco appena quella tizia, questa è una storia che ti sei inventato tu di sana pianta. E ora basta, parliamo d’altro. Che fine ha fatto quel tuo progetto di andare a Londra? Questa è una buona stagione per ritornarci, si spende meno.»

    Battista rimase spiazzato da quel comportamento, l’amico di solito stava ben volentieri a quello scherzo innocuo. Focalizzò l’attenzione su Londra, la città che amava più di tutte, non capendo che quella domanda era stata proposta per farlo desistere dalle sue intenzioni.

    «In realtà il costo dell’aereo non c’entra con la stagione, bensì dipende dalla compagnia e da quello che ti porti appresso. E sì, ci stavo giusto pensando ieri, mentre pioveva ricordavo il tempo così variabile di quella bellissima città.»

    «Innamorato come sei dell’Inghilterra, dopo tanti anni di insegnamento della lingua inglese, pensavo proprio che te ne saresti andato ad abitare a Londra, o in quel paesino sul mare, dove abita il tuo amico.»

    «Whitstable, un posto bellissimo.»

    Dopo questo, Battista iniziò un lungo resoconto di tutte le volte che era stato a Londra, o dal suo amico a Whitstable, elogiando la cordialità distaccata dei vecchi inglesi e ripugnando la volgarità dei giovani. Remigio si mise comodo sulla sua sedia, rivolse il viso al sole alto ascoltando con avidità le storie che uscivano dalla bocca dell’amico, a volte immaginando di essere lui al suo posto. Le aveva sentite tante volte, e ogni volta le sognava, immaginava di prendere un aereo e in poco tempo ammirare la famosa città tra le più grandi in Europa.

    A Remigio in realtà non interessava molto Londra, che invece addolciva la voce all’amico, per lui un posto valeva l’altro. Amava immaginare di fuggire da quella Viterbo che l’aveva visto nascere e dalla quale poche volte era uscito. Battista aveva visto quasi tutte le maggiori capitali europee, non avendo una famiglia da mantenere sperperava i suoi soldi nei viaggi. Quindi di storie da raccontare ne aveva; ciò, unito a una raffinata dialettica, ne faceva un narratore perfetto. E allora Remigio sognava, perché solo quello gli era rimasto.

    Di solito i due non si vedevano spesso, Remigio era troppo impegnato a portare avanti il negozio di ferramenta, soprattutto a far quadrare i conti, e a badare a quella sua figlia così particolare, e non aveva tanto tempo per le relazioni pubbliche. Un poco la sera, quando riusciva a racimolare del tempo, o quando chiedeva al ragioniere di chiudere, a volte, scambiava due chiacchiere al bar, davanti a un bicchiere di vino. Remigio aveva un cuore sciocco, buono, tanto da pensare che le cose potessero andare avanti nel modo usuale per sempre: i salti mortali al negozio, le ciarle con gli amici, la domenica con Battista, le rassicurazioni alla sua piccola; tutto qui. Invece la vita, sebbene monotona, può serbare diverse sorprese, belle o brutte, e bisogna prendere le cose così come vengono. Ci piace pensare di essere padroni di noi stessi, come vecchi campagnoli, capaci di dirigere l’attacco per la strada che vogliamo, e tirare le redini con decisione quando è necessario riportare la vettura sul percorso. Ma noi tutti siamo schiavi inconsapevoli, è questa la semplice verità, verità con la quale la superficialità del pensiero di Remigio dovette fare i conti nell’immediato futuro.

    Il fastidio all’occhio nei giorni a seguire si ripresentò con più frequenza. Quando Battista pensava che finalmente fosse sparito, ecco che l’indomani, mentre scambiava due parole con il panettiere in via Pasubio, tutto un lato si offuscava, il capo gli girava, si convinse anche di un rumore alla testa. La domenica seguente fu restio a riferirlo all’amico, l’orgoglio gli diceva che doveva tenersi tutto per sé, sbrigarsela per conto suo, o, ancora meglio, attendere che tutto si sistemasse da solo.

    Quella volta si sedette al bar con l’animo cupo, pieno di paure, mille pensieri brutti gli passavano per la testa, non senza lasciare una tenue traccia sul viso liscio e ben curato. Era consapevole di sentirsi in una condizione particolare. Sempre conscio del proprio spazio corporeo, dovette ammettere che parlarne con qualcuno non poteva che fargli bene, ma un freno gli impediva di essere schietto.

    Al ritorno dalla messa, Remigio si sedette intuendo immediatamente che nell’amico era avvenuta una completa trasformazione in quei sette giorni. Apparentemente nulla mostrava una malattia in atto, impeccabile era la sua forma fisica, per non parlare dei pochi capelli lisciati con la cera e acconciati alla perfezione. Il colorito florido e gli occhi vispi non lasciavano trapelare nulla, ma le mani, quelle mani anche ora così curate e distinte, sempre attente nei movimenti, in quel momento si stringevano una nell’altra, come a cercare una protezione. I lineamenti del viso tesi e i muscoli delle mascelle rigidi erano fin troppo chiari per Remigio, il quale lo studiò senza fiatare accennando solo un breve saluto.

    Remigio faticò non poco per farlo parlare. Battista, combattuto tra l’orgoglio che bruciava e il desiderio di chiedere aiuto, negava qualsiasi problema, rispondendo anzi che nulla fosse accaduto in quella settimana.

    Finché non riuscì più a trovar scuse, a nascondere le sue paure, quando cioè l’alterigia ebbe un tracollo, e disse tutto.

    Anche dopo che si fu aperto, Remigio ebbe una grande difficoltà a persuaderlo a farsi vedere da un medico, perché proprio non era un buon segno quel continuo fastidio, teneva a precisare in continuazione. Capendo che Battista non poteva essere lasciato da solo in quel frangente, decise di lasciare per alcuni giorni il negozio in mano al ragioniere, affidandogli anche sua figlia, e dedicare tutto il suo tempo al vecchio amico.

    Con la sua costante presenza riuscì così nella sua opera di convinzione. Dopo un inutile esame oculistico, una TAC fatta d’urgenza a Belcolle rivelò quale fosse la vera natura del fastidio.

    I mesi che seguirono furono un calvario più per Remigio che per l’amico. Battista, infatti, dopo un primo periodo di totale sconforto, in cuor suo, senza dimostrarlo affatto, viveva quella tremenda malattia, e la decadenza che ne sarebbe seguita, come una degna fine; beffarda probabilmente, ma degna. È giusto pensare che, forse, gran parte di quella profonda riflessione, fosse dovuta alla malattia stessa, che modificava i processi mentali e stravolgeva le correnti del pensiero. Il tumore al cervello non gli avrebbe dato scampo, e sperava tanto che tutto finisse nel più breve tempo possibile. Guardando Remigio che si indaffarava in clinica affinché non gli mancasse nulla, si disse che in fondo era meglio così. Uno come lui, dopo settant’anni di vita, aveva esaurito il suo compito. Remigio, invece, non poteva andarsene così presto, diceva in cuor suo, la sua vita era troppo necessaria, senza sapere il vecchio che il destino non si cura delle piccolezze.

    Remigio trascorreva molto tempo con l’amico, momenti spesso condivisi all’ospedale e in clinica. La sua tristezza era pari alla perdita della moglie, non perché uguagliasse i due affetti, giacché la dipartita di Battista, quella era la tremenda fine che lo attendeva, destava in lui dolori dimenticati, anzi, che credeva dimenticati. L’animo buono di Remigio tendeva a sommare solo le disgrazie, le sofferenze e tutte le ingiustizie, a suo pensare, che il Signore gli aveva mandato. Pochissime volte ardiva un pensiero malvagio verso colui che avrebbe dovuto proteggere lui e la sua famiglia. Se avveniva, subito lo ricusava, correndo alla Santissima Trinità a recitare Ave Maria finché non sentiva di aver espiato tutte le sue colpe.

    L’ultimo mese Battista lo trascorse in uno stato confusionario, i medici decisero di ricoverarlo a Villa Rosa: era quello l’ultimo casello prima di pagare il pedaggio e lasciarsi tutto alle spalle. Remigio gli stette vicino quasi tutto il tempo, trascurando l’amata figliola, ascoltando le parole sconclusionate che uscivano dalla bocca del vecchio senza soluzione di continuità. Fu testimone del vero pensiero di Battista, del ribrezzo che provava per tutto quello che a suo dire era volgare, insulso e ignorante. Remigio non ne rimase sorpreso, anche quando dalla bocca dell’amico morente scappavano liberi gli insulti nei suoi riguardi non riusciva a volergliene, il suo buon cuore perdonava tutto, e come non farlo?

    Remigio, durante le lunghe veglie al capezzale, trovò il tempo di rivolgere i pensieri a se stesso, esaminare con cura la propria vita, ricordare la cara moglie che lo aveva lasciato solo con quella figlia tutta speciale, che da allora era divenuta ancor più indifesa e introversa. Pensò di averla abbandonata durante quei mesi,

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