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L'amore al tempo del design
L'amore al tempo del design
L'amore al tempo del design
E-book275 pagine4 ore

L'amore al tempo del design

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Info su questo ebook

Santo e Babila, nati entrambi nel 1970, sono legati da un amore che non riesce ad essere vissuto pienamente e dalla passione di Santo per il design. Design inteso come pensiero estetico applicato ad ogni cosa. Le loro vite, dall’età scolare a quella adulta, si svolgono tra Perugia, Firenze, Ferrara, Milano e Samui in Tailandia, città e luoghi che fungono da sfondo ai momenti salienti delle loro esistenze intrise di sogni, delusioni, amori sbagliati e idee folli. Tre date importanti scandiscono il ritmo della loro esistenza. Il 1980, anno della strage della stazione di Bologna, vissuta come la poteva vivere un semplice ragazzino ignaro degli eventi. Il 1992 anno della tragica morte del Giudice Giovanni Falcone e il 2004, l’anno in cui si manifestò il più devastante tsunami dell’era moderna. Babila e Santo attraversano indenni questo lungo periodo storico alla ricerca di un proprio posto nel mondo, fino a capire davvero cosa sono stati “chiamati” a fare in questa vita. E le loro scelte, forse, potranno cambiare il corso degli eventi. In questo quadro si inserisce il grande maestro del design contemporaneo, Philippe Starck, che guiderà i nostri protagonisti, metafora di un moderno Virgilio, nel comprendere il significato reale di quel segno che sta dentro la parola design.  Sullo sfondo i momenti più drammatici della storia recente e una leggenda: quella del diamante nascosto dentro una delle bugne del Palazzo di Diamanti di Ferrara. Sarà proprio Phillippe Starck, architetto e designer, ad accompagnare i due protagonisti nella ricerca dei segreti della leggenda.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788835826583
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    L'amore al tempo del design - Stelio Zaganelli

    L’AMORE AL TEMPO DEL DESIGN

    di Stelio Zaganelli

    Prima edizione: novembre 2018

    Tutti i diritti riservati 2018 ©BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe di Vittorio 104, Chiugiana di Corciano. (PG)

    Bertoni Editore

    http://www.bertonieditore.com info@bertonieditore.com

    Ogni riferimento a persone o luoghi è puramente casuale.

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia non autorizzata.

     Stelio Zaganelli

    L’AMORE AL TEMPO DEL DESIGN

    Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare. "Non possiamo scegliere da dove arriviamo,

    ma possiamo scegliere dove arrivare da lì in poi," da «Noi siamo infinito»

    (The Perks of Being a Wallflower), Stephen Chbosky.

    Sono passato attraverso momenti davvero terribili nella mia vita, alcuni dei quali sono realmente  accaduti.

    Mark Twain

    Prologo

    «Mesdames et messieurs, aujourd’hui, le 14 juillet 2011, je vais vous présenter le maître Philippe Starck, un applaudissements s’il vous plaît!1»

    Le personalità presenti al Restaurante Teatriz di Madrid si esibirono in un applauso generoso e caloroso, ansiosi di ascoltare le parole del più grande designer del mondo.

    In realtà monsieur Starck non era ancora arrivato.

    In mostra, posizionate in modo appropriato all’interno del ristorante, c’erano le sue ultime creazioni e i pezzi che l’avevano reso famoso. Tuttavia gli organizzatori avevano dato per certa la sua presenza per un discorso molto sentito sul Design come espressione artistica e come motore industriale ed economico ed espressione culturale di ogni paese europeo, con particolare riferimento all’amata Francia.

    «Monsieur Starck? S’il vous plait…»

    Monsieur Starck continuava a non apparire da dietro le tende che circondavano la platea. La presentatrice iniziava a sentirsi a disagio e un leggero mormorìo interrogativo si cominciava a levare dalle file di poltroncine rosse disposte ordinatamente per rendere quella grande sala, generalmente usata per mangiare, una platea di un vero teatro.

    «Monsieur Starck?»

    La presentatrice non sapeva cosa fare, si diresse verso le tende e sbirciò dietro per un attimo, ma nessuno le fece eco dai locali che si aprivano verso le cucine. Un paio di collaboratori fecero spallucce ignari della situazione che si stava creando. Un leggero bip ripetuto dal suo cerca persone la fece trasalire.

    «Excusez-moi, pardon…» rivolgendosi al pubblico, con fare impacciato, si mise una mano in tasca mentre, sorridendo forzatamente, cercava di captare l’umore di quella platea facoltosa. Prese il cellulare e compose il numero di colui che la stava cercando e a bassa voce cominciò.

    «Que se passe-t-il? Où est monsieur Starck? Il n’est pas arrivé à Madrid! Est-ce-qu’il a eu des problèms avec l’avion ou la voiture?2» E mentre farfugliava qualcosa che dalla platea non si capiva mandava sorrisi contratti in segno di pazienza. Il mormorio era divenuto un leggero sibilo e tutte le very importanti persone si muovevano sincronicamente in avanti e indietro a seconda di dove si dirigesse la presentatrice per

    cercare di ascoltare e capire quell’assurdo intermezzo.

    L’imbarazzo era tanto e quei duecento personaggi famosi venuti appositamente da tutto il mondo, c’erano tra loro sceicchi, capi di stato, attori famosi e archistar di fama mondiale, per assistere al monologo del più grande designer vivente, non si capacitavano della sua ingiustificata e prolungata assenza.

    Che fosse una burla di un genio o un semplice ritardo? Un malore improvviso o un fraintendimento o forse addirittura una colossale truffa?

    Si vedeva dalla platea la presentatrice diventare sempre più rigida e sempre più concentrata nella telefonata e contemporaneamente muoversi come una statua di gesso sul piccolo palcoscenico di legno montato proprio davanti all’ingresso delle cucine, fino a che non si immobilizzò del tutto.

    E, con il cellulare all’orecchio, disse ad alta voce:

    «No… mon Dieu!»

    1 Signore e signori, oggi 14 luglio 2011, vi presento il maestro Philippe Starck, un applauso per favore.

    2 Che succede? Dov’è il signor Starck? Non è arrivato a Madrid? Ha avuto problemi con l’aereo o l’auto?

    1980

    1

    «Oggi bambini tema in classe. Voglio che scriviate cosa vorreste fare da grandi. Qualsiasi cosa, ma per favore usate un po’ la fantasia e non vi vergognate, qualsiasi cosa va bene. Non scrivete per farmi piacere o per accontentare i vostri genitori. Scrivete davvero quello che vorreste fare da grandi, va bene?»

    La maestra li guardava negli occhi ad uno ad uno, quel tema era importante, non ce ne sarebbero stati altri.

    Proseguì ancora «su forza cominciate, avete due ore di tempo e mi raccomando non scordate di copiare in bella altrimenti non riesco a leggere».

    I bambini della quinta B della scuola elementare Fabretti si misero giù a scrivere dei loro sogni e già dopo poco che la maestra ebbe finito di impartire le istruzioni, nella classe regnava un silenzio di fogli a righe larghe orizzontali interrotto solo dal cinguettare dei passeri nel cortile e dallo stridere delle penne sui banchi sbeccati.

    Solo un bambino non stava scrivendo, era seduto al secondo banco di una delle tre file della classe, quella verso le grandi finestre che davano sull’ampio cortile. Si era tolto le scarpe e giocava con i suoi piedi, strofinandoli tra loro come fossero due mani.

    Quel bambino, perso nei suoi pensieri, volava attraverso le grandi foglie dei tre grandi ippocastani che troneggiavano imponenti in mezzo al piazzale della scuola. Forse volava ancora di più, oltre il parapetto del cortile e poi giù lungo la vallata e poi ancora su, verso le verdi colline dell’Umbria.

    «Dio… Santo! Quante volte ti devo dire che a sognare non si va da nessuna parte, ma a scrivere dei sogni si arriva sempre da qualche parte, eh? Su, non fartelo ripetere, che poi scade il tempo e tu come al solito non hai finito di copiare il tuo tema e ci vuole un traduttore perché nemmeno tu ci riesci. Se la tua grafia fosse buona come le cose che scrivi, saresti un genio!»

    Santo si ridestò dai suoi sogni e senza pensarci troppo si calò meglio il cappuccio della felpa sulla testa senza rispondere alla maestra e cominciò, di getto, a scrivere dei suoi sogni e delle sue aspirazioni.

    Come faccio a saperlo, ora?

    Questo era il titolo che Santo aveva dato al suo tema. Santo non aveva ancora esperienza della vita, aveva solo dieci anni e spesso si perdeva nei suoi mondi caleidoscopici dove la realtà si fondeva con l’avatar prodotto dal suo cervello. Infilava la sua testa dentro al cappuccio della felpa che non si toglieva mai, tranne che per i lavaggi mensili necessari, e si tuffava surfando tra le onde dei suoi pensieri.

    Aveva i capelli biondissimi, spesso la sua mamma si

    scordava di tagliarglieli, e più crescevano più gli diventavano chiari; la luce li rendeva bianchi come le nuvole e gli amici di Santo lo prendevano sempre in giro, perché a volte era così carino che poteva sembrare pure una bambina, ma anche con un certo timore perché aveva un’aura da angelo alieno che metteva soggezione.

    Santo a scuola ci andava da solo, da quando aveva sei anni, perché la casa dove abitava era distante solo poche centinaia di metri dalla scuola Fabretti.

    Santo era sicuro di una cosa, anche quando camminava per i vicoli di Perugia vecchia, la Bellezza era ciò che di più bello lo faceva star bene e senza bellezza il mondo sarebbe stato di certo una cosa molto più brutta, era quasi ovvio, e il fatto che il resto del mondo non se ne accorgesse era davvero una cosa difficile da spiegare.

    Cercava Bellezza ovunque, ma spesso non riusciva a trovarla.

    La casa dove viveva stava in cima ad un vecchio palazzo nel vecchio centro storico di Perugia. Per arrivarci si dovevano salire delle scale enormi, larghe più di quattro metri e alte che si faceva una fatica tremenda a salirle. Al quinto piano, in mezzo ai tetti, c’era la sua casa, che aveva tre terrazze e un po’ di stanze, dove i gatti scorrazzavano come se fosse un posto come un altro e i piccioni spesso scambiavano i pavimenti delle terrazze per il loro bagno personale.

    Da lassù il mondo era diverso rispetto a quando Santo

    scendeva nei vicoli, tutto era più grande e luminoso, ogni particolare diveniva magico e niente gli faceva più paura.

    Quando tornava a calpestare il mondo gli sembrava che dal basso i colori perdessero slancio e vivacità. Risalendo fino in cima nella sua fortezza fatta di nuvole e piccioni la sua immaginazione e la sua fantasia potevano liberarsi a quote inimmaginabili e ogni cosa diventava possibile. La bruttezza e lo squallore della vita di tutti i giorni svanivano dietro pennellate d’azzurro splendente, poteva quasi nuotarci dentro a quel cielo che gli carezzava il viso.

    Ma quando Santo usciva un po’ di paura ce l’aveva. I vicoli erano stretti, spesso c’era odore di pipì e molti si curavano per strada usando le siringhe che gettavano per terra. A lui le punture gliele faceva la sua mamma e chissà perché a quelle persone nessuno le aiutava?, si chiedeva ogni volta.

    Questo era lo scenario che Santo viveva tutti i giorni, quando andava a scuola, quando tornava a casa e quando giocava nei vicoli o nel parco.

    Una parte del mondo apparentemente piccola, ma gigantesca allo stesso tempo, dove ogni cosa aveva un nome, dove ogni singolo oggetto o persona avevano un’anima che dialogava con il resto. Dove la fantasia e la trasfigurazione scorrevano nelle vene di ogni persiana o di ogni tombino, che divenivano scudi o rampe di lancio per razzi intergalattici.

    Ma la cosa che Santo riconosceva a quel suo piccolo infinito universo era un certo squallore, come una sensazione di catastrofe imminente. Le immagini che vedeva sui libri di sua madre, che era una fotografa abbastanza famosa, erano così belle, così colorate e così allegre che appena poteva andava ad ammirarle di nascosto per non sembrare pazzo di fronte agli altri nel guardarle così tante volte.

    A lui piaceva Perugia, la Perugia che conosceva, ma percepiva una certa tonalità di grigio, una sensazione di intonaco fradicio che cade a pezzi, una sorta di malta mista a piscio di gatto.

    Quel giorno non gli parve vero di poter parlare di tutto questo. Della Bellezza che secondo lui mancava nel mondo. La bellezza di cui aveva disperatamente bisogno.

    Babila era carina, con le sue trecce lunghe e le gambe che non finivano mai. Babila era una ragazza dolce e proprio carina e tutti le volevano bene. Babila viveva nei grandi palazzi fuori Perugia, quelli che la sua stessa famiglia aveva costruito negli anni Settanta.

    La grande periferia di Madonna Alta, costruzioni moderne, maestose e che sembravano imponenti come i grattacieli in America. Suo padre le diceva sempre che quel posto era meraviglioso come New York e Central Park, il parco urbano più bello e più grande del mondo, aggiungeva con orgoglio.

    A Babila piaceva stare sul terrazzo e guardare fuori verso Perugia che si ergeva tranquilla sulla collina di fronte. E ammirava il giardino che si stendeva tra quei palazzi che sembravano come dei grandi grattacieli, proprio come in America!

    E quando scendeva a giocare si perdeva tra gli alberi della grande area verde che suo padre aveva lasciato tra le proteste degli amministratori che avrebbero voluto cemento, cemento e ancora cemento!, come spesso arrabbiato e ostinato le ricordava.

    Babila giocava alla brava madre e mogliettina e ogni albero era una stanza della sua casa enorme, lì nel leccio la cucina, intorno al prugno la stanza da letto e per giocare a fare Tarzan e Jane la possente quercia con i suoi rami grandi e accoglienti.

    Per lei tutto era sintomo di bellezza, ogni cosa le si mostrava in tutto il suo splendore, era come se il male in lei non potesse sopravvivere per più di poche ore, come se i suoi grandi occhi verdi potessero vedere solo il lato migliore delle cose. Come Heidi, il cartone che preferiva.

    Babila aveva un sacco di sorelle e la sua famiglia era unita e numerosa.

    Forse ogni tanto si sentiva un po’ soffocare dentro casa. C’era il nonno con mille attenzioni, la nonna che raccontava le favole prima di andare a dormire, c’era il papà che tornava stanco e contento dal lavoro e la mamma che cucinava per minimo dieci persone ogni sera.

    C’era sempre un via vai tremendo e un gran vociare tutto il giorno, ma nonostante ciò era felice e spensierata.

    Era tutto perfetto, ma dentro il suo piccolo cuore già batteva una piccola donna e il principe azzurro che ogni bambina aspetta restava nascosto chissà quanto lontano, chissà in quale luogo sconosciuto. Lei sperava ardentemente un giorno di poterlo incontrare. Anche se una mezza idea già lei ce l’aveva.

    Nel frattempo si allenava ballando. Quando Babila saliva sul palco tutto il mondo scompariva dentro le note delle musiche che l’accompagnavano e contemporaneamente ogni cosa si metteva al servizio delle sue lunghe e aggraziate gambe. Sembrava un cerbiatto e una fata insieme, le piaceva così tanto che lo si percepiva anche dalle file più lontane della platea sempre gremita. Babila, e di questo ne era certa, un giorno avrebbe ballato alla Scala. E per questo non metteva mai pantaloni, ogni giorno una gonna diversa, ogni giorno l’aria tra le gambe libere e slanciate per poter ballare ovunque, per essere pronta se mai la grande occasione un giorno fosse arrivata.

    «Mamma, quanto è grande la Scala?», chiedeva sempre

    dopo ogni spettacolo.

    «Non sarà mai grande abbastanza per contenere tutta la gente che vorrà venire a vederti. Ma quanto è grande veramente non lo so, un giorno ci andremo così me lo dirai tu quanto è grande» e le prendeva la mano, cercando di farle capire che nella vita non sarebbe mai restata sola.

    Ci sono persone che vivono la vita con difficoltà e ci sono persone che vivono e basta. Le si guarda e non si riesce a scorgere un grande conflitto o un’ansia di vivere, o un po’ di paura. Ci sono persone che non sterzano bruscamente, che non sbattono mai il muso contro pareti di pietra. Accanto a loro tutto sembra disposto nel migliore dei modi, il migliore dei mondi. La gente muore, il mondo impazzisce, il clima si guasta e quelle persone continuano a vivere, ma non senza consapevolezza, non come automi, vivono la vita che devono vivere anche senza grandi domande, anche con scarse risposte. Ma vivono, dio se vivono! Ogni cosa.

    E Babila fin da ragazzina faceva niente di meno e niente

    di più di ciò che ogni essere umano dovrebbe fare, vivere.

    Santo aveva una banda. Erano un po’ ridicoli, ed erano anche piccoli, un po’ troppo piccoli per poter affrontare le minacce e gli imprevisti del vecchio e malandato centro storico di Perugia del 1980. Gli anni Settanta erano ancora vivi nel 1980.

    Adesso forse sembra lontano il tempo degli hippies o dei figli dei fiori ma il millenovecentoottanta ancora era più anni Settanta che Ottanta. I centri storici non venivano restaurati e tirati a lucido come si cominciò a fare negli anni Ottanta inoltrati e negli anni Novanta. Le televisioni dovevi andare ad accenderle con la mano e se volevi cambiare canale ti dovevi arrangiare.

    Sembrano banalità, nel 1980 nonostante tutte le rivolte, tutte le bombe che erano state fatte saltare in Italia nei precedenti tumultuosi anni, c’era una sorta di innocenza ancora nel mondo e, soprattutto, si respirava ancora un’aria dimentica di se stessa tra i vicoli di Perugia vecchia.

    O forse era solo la giovane età di Santo a fargli percepire le cose come vengono descritte.

    Santo viveva tutta la sua vita in quei vicoli carichi di storia. E bazzicava con Sandrino, Mirro e Nilo.

    A Nilo gli avevano dato quel nome perché i genitori erano stati una volta in Egitto e durante la crociera lui era stato concepito.

    I tre erano molto diversi tra loro. Sandrino era piccolo di statura ma tarchiato e cattivello. Mirro era timido e introverso, ma con un grande cuore. E invece Nilo era già grasso come uno grande.

    Il loro accampamento era al Campaccio, un parco tra la scuola Fabretti e la galleria Kennedy, la galleria più lunga del mondo!, come diceva sempre Sandrino facendosi grosso nel raccontare una grande bugia.

    Un parco a detta loro gigantesco, dove cipressi molto alti andavano a sfiorare i palazzi di via della Cupa, che sovrastava il parco ad un’altezza di almeno dieci metri. Protetto dalle enormi mura etrusche che si ergevano a baluardo contro il resto del mondo.

    Spesso uscivano da scuola e scendevano le scalette che portavano giù al parco, distante appena una trentina di metri.

    Sandrino, che era già stato bocciato due volte, già fumava le sigarette, aveva dodici anni ed era il più grande. Capelli scuri, carnagione chiara e due occhi verdi da far paura.

    Nilo aveva sempre un paio di panini di scorta nascosti in posti impossibili e invece Santo riusciva a fregare spesso qualche spiccio a sua madre e comprava sempre qualche Girella o Ovino Kinder anche per i suoi amici. Si sentiva un po’ in colpa, non è che sua madre fosse troppo ricca, ma regalare qualcosa soprattutto a Mirro lo faceva stare bene, perché Mirro era veramente povero.

    Si diceva che vivesse in una casa con solo due stanze, in fondo ad una scala che stava dietro a dei vecchi garages. L’ingresso della casa di Mirro si trovava di fronte ad uno dei terrazzi della casa di Santo, ma ad almeno cinque metri più in basso.

    Da casa di Santo potevano parlarsi ma non riuscivano a vedersi. Mirro viveva con la madre, il padre e altri tre fratelli. Come bagno usavano quello pubblico. Una latrina vecchia di almeno trent’anni riadattata a cesso comune a cielo aperto.

    Si diceva anche che sua madre facesse la vita in strada e che suo padre beveva di brutto e spendeva tutti i soldi che lei guadagnava scommettendo ai cavalli.

    Ma a Santo non gli importava niente se Mirro era sfortunato, Santo a Mirro gli voleva bene. E in effetti la loro amicizia era grande e forte. Spesso i loro compagni e le loro compagne di classe li prendevano in giro e li chiamavano i fidanzatini, ma loro non ci facevano caso, a dieci anni l’amicizia e l’amore sono una cosa sola.

    Babila quel giorno non avrebbe voluto fare il tema in classe, c’era troppo sole per stare chiusi dentro, avrebbe voluto correre a perdifiato nel cortile e giocare a salta la corda, a campana o un due tre stella! Ma, purtroppo, siccome sua madre le diceva sempre prima il dovere! poi il piacere, Babila si mise giù a scrivere e il suo titolo era Da grande farò la ballerina alla Scala!

    Era fiera di sé stessa, nutriva una fiducia incrollabile rispetto a quello che sentiva e questo le dava una forza grandiosa, credeva in cuor suo che non ci sarebbero stati ostacoli nella sua vita per il suo grande sogno. Il suo destino, e lo percepiva nitido dentro il suo stesso sangue, era già scritto e lei, semplicemente, doveva solo seguire i passi lasciandosi andare.

    La ballerina!

    E se non bastava avrebbe fatto anche l’architetto, come suo padre. Che bella la vita che era!

    Ogni tanto mentre scriveva alzava gli occhi furtiva e volgeva lo sguardo verso l’altro obiettivo del suo destino già scritto. Santo.

    Il suo amore era limpido come un fiume di montagna, come l’abbraccio di un bambino. Si ripeteva che anche Santo l’amava, ma era ancora troppo piccolo e ancora non se ne rendeva conto. E quando lo vedeva volare via perso nei suoi pensieri lo amava ancora di più e le batteva forte il cuore.

    Avrebbe voluto stringergli la mano e accompagnarlo in uno di quei suoi viaggi dove, solo, volteggiava leggero. Amava la sua sincerità e il mistero che lo avvolgeva, una mente diversa da quella di tutti gli altri, un’idealista già a dieci anni!

    Mentre pensava a queste cose la maestra interruppe il corso dei suoi sogni «Babila ti ci metti pure tu! A cosa stai pensando?»

    Babila abbassò di colpo gli occhi, una vampata di calore le irrorò tutta la pelle del viso, del collo, delle mani e delle orecchie facendola accendere come un cerino nella calura d’agosto. Le sembrò davvero di poter prendere fuoco da un momento all’altro. Farfugliò solo «… ehm… è che è molto caldo oggi. Se aprissimo la finestra?»

    Lo disse senza mai staccare gli occhi dal foglio. Tutta la classe in un momento si girò all’unisono prima verso la maestra, poi verso Babila e infine verso la finestra.

    Così si trovarono tutti a fissare non solo la grande finestra che dava sul cortile ma anche Santo che si trovava sulla traiettoria e che, come al solito, aveva seguito uno schema diverso e, stupito, fronteggiava con i suoi occhi celesti come il cielo tutti i suoi compagni.

    Babila pensò di essere perduta, sembrava quasi che la situazione si fosse creata proprio per esporre in maniera insolita la realtà dei fatti, e cioè che lei era completamente persa per Santo. Ma lui era così stupìto che nessuno ci fece caso. Tutto tornò normale nel giro di pochi istanti e Babila, tremante, riuscì finalmente a respirare, mentre Santo tirò su il cappuccio della sua felpa Champion sdrucita, fino a nascondersi agli occhi di tutti. Santo continuava a guardare fuori. Gli sembrava che quel giorno potesse essere più bello. Che mancasse qualcosa al mondo. Forse una nuvola di troppo, forse era troppo caldo. Sapeva

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