Il quaderno del fato
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Anteprima del libro
Il quaderno del fato - Edoardo Guerrini
Ringraziamenti
Uno
«Signore e signori, siamo appena atterrati all’aeroporto di Marrakech Menara. Il cielo è sereno e la temperatura è di 24 gradi. Vi preghiamo di rimanere seduti e mantenere allacciate le cinture di sicurezza fino a che l’aereo non avrà raggiunto la piazzola di sosta e non si accenderanno gli appositi segnali. Vi ringraziamo per aver volato con Royal Air Maroc e vi attendiamo sul vostro prossimo volo».
Mentre la voce ripeteva l’annuncio anche in francese e in arabo, molti, ignorandola del tutto, cominciarono a slacciare le cinture. Tra questi, i più impazienti erano soprattutto gli uomini, con lo sguardo puntato verso l’alto, pronti a scattare, con il rullaggio ancora in corso, per recuperare i propri bagagli a mano stipati nelle cappelliere.
Laura e io invece, ce ne stavamo quieti nei sedili più che spaziosi di una compagnia che ancora faceva viaggiare i suoi clienti in modo civile. La musica rilassante che giungeva dagli altoparlanti non durò a lungo: in poco l’apparecchio aveva raggiunto la sua piazzola e spento i motori.
L’uomo a fianco a me sembrava un ingegnere, o così mi era parso sbirciando i suoi appunti di lavoro; sbarbato e leggermente brizzolato, in giacca e cravatta e occhiali cerchiati d’argento, era stato un vicino di poltrona ideale, mai invadente; entrambi eravamo abbastanza magri da spartirci il bracciolo in comune senza urtarci. Anche se a un certo punto, voltandomi dalla sua parte, l’avevo sorpreso intento a a guardare Laura di sottecchi e avevo pensato con soddisfazione che la mia signora sapeva ancora far colpo.
Il mio vicino si alzò con calma quando la fila di passeggeri in piedi nel corridoio centrale aveva iniziato a scorrere più velocemente con l’apertura dello sportello di uscita, prese il suo trolley e si avviò nel flusso. Io feci lo stesso, dopo aver fatto passare un paio di signore, prendendo il mio zainetto e quello di Laura, che mi venne dietro.
L’aria del Marocco era teneramente tiepida. Il crepuscolo imbruniva piano: un chiarore dorato con lievi sfumature di rosa sfiorava le lontane alture dell’Atlante sull’orizzonte sopra la distesa di asfalto polveroso. Ci infilammo nell’aerostazione e ci avviammo a recuperare i bagagli.
«Allora stasera andiamo dai genitori di Adil?».
«Non credo. Lui è ancora fuori per commissioni e torna domani sera. In casa c’è solo Ayisha con i bambini. E poi siamo anche stanchi, no? Io ho voglia di sistemarci in riad e andare a dormire».
Il carosello prese a girare. Mi assale sempre una tensione tremenda nel vedere scorrere le valigie e gli zaini degli altri tranne il mio. Fortunatamente, quella volta, i nostri bagagli arrivarono tra i primi. Il controllo passaporti era rigido. Due militi baffuti ci fecero una foto e ci presero l’impronta dell’indice; dopo averci squadrato per bene ed essere sembrati loro innocui, ci lasciarono andare.
Uscimmo dalla facciata principale dell’aerostazione: un gioiello di architettura appena costruito, un misto tra moderno e antico, tutto decorato di bianco. Torme di tassisti abusivi ci chiesero in quale hotel dovessimo andare, ma noi li ignorammo filando dritti al parcheggio dei taxi ufficiali.
L’autista che ci caricò non sapeva con certezza dove fosse il nostro riad, così dopo esserci addentrati nelle viuzze, chiese informazioni a qualche passante per strada. Ci indicò poi, in cattivo francese, di raggiungere a piedi un vicolo non percorribile in auto.
La luce era già calata quando, zaini in spalla, raggiungemmo il palazzo-albergo. Qui ci accolse una signora rotondetta, gentilissima e sempre sorridente, che ci chiese prima i passaporti per registrarli, poi ci lasciò a sua figlia, una ragazza giovane e bellissima che, a occhi bassi, ci accompagnò in camera. Attraversammo un cortile interno, che aveva al centro una vasca circolare e intorno alte piante verdi, che contrastavano il colore bianco delle pareti, istoriate di motivi geometrici. La nostra camera era al secondo piano, e come le altre dava sul cortile, risultando piuttosto buia ma fresca. Era piena di luci soffuse, con le pareti rivestite in cotto e ceramiche. Laura si stese immediatamente sull’alto letto a baldacchino.
«Sei stanca?» le chiesi.
«Un po’, mi sa che non abbiamo più l’età per viaggiare senza stancarci».
«Ma va’! Tu non hai l’età? Vedremo se dirai lo stesso domani quando andremo al suq. Non male la camera, vero?».
Stesi sul letto, contemplavamo le pareti e il soffitto pieni di maioliche colorate e decorazioni in stucco, con motivi geometrici alternati a simboli calligrafici. Allungai la mano verso di lei e le sfiorai i capelli. Laura si girò scostandosi.
«Non farti venire strane idee, Franco, ho sonno…».
Deluso, andai in bagno a lavarmi i denti. La giornata era stata lunga: per risparmiare avevamo preso un low cost per Fiumicino alle 6.30, e lì nel pomeriggio quello per il Marocco. Mentre strofinavo i denti ammirai le decorazioni del bagno: il lavabo era di ottone, coi rubinetti in stile decorati con vetri colorati; le maioliche avevano toni blu, gialli e verdi. Quel posto sembrava una piccola reggia. Pensai che non era stata male l’idea di approfittare del viaggio di Adil per decidere di visitare il Marocco. Lì per lì quando glielo avevo proposto, Adil aveva fatto una faccia perplessa. Allora gli avevo detto: «Tranquillo amico mio, non vogliamo approfittare dell’ospitalità dei tuoi, andremmo a stare in albergo per conto nostro. Solo mi pare un’ottima occasione per conoscere meglio il tuo paese, ci fareste un po’ da guida».
Lui aveva sorriso e accettato volentieri. Laura dormiva già della grossa. E anche stasera niente. Che novità! Mi misi a letto con il mio ultimo Camilleri. Sapevo però che avrei avuto difficoltà a prendere sonno: dormire nello stesso letto con Laura era diventato inusuale per me. Da tempo ormai dormivo da solo nella nostra camera, mentre lei in quella degli ospiti
, che di solito non avevamo mai. Dopo aver letto qualche pagina, spensi la luce e mi girai dall’altra parte per non svegliarla.
All’alba ero semisveglio…quando sentii il lamento del muezzin con la sua preghiera sparata ad alto volume da un altoparlante. Restai nel mio torpore e scivolai nuovamente nel sonno, con la percezione del corpo di Laura accanto a me. E fu così che la sognai, nel suo bikini leopardato, il corpo magro e flessuoso schiacciato contro il mio. E io che le sussurravo qualcosa del tipo "Ti amo, ti amo tantissimo. Non posso pensare di vivere nemmeno una frazione della mia vita senza di te. Vieni, stai con me, perdonami…».
Mi stava baciando quando mi svegliai di nuovo, questa volta del tutto, con un’erezione che dal sogno si era trasferita nella realtà. Allora sgusciai fuori dal letto piano e andai a farmi una doccia fresca.
I tavolini per la colazione erano stati predisposti intorno alla vasca – con l’acqua che mormorava rinfrescando l’ambiente – del cortile centrale, il tipico patio che gli arabi avevano lasciato in regalo agli spagnoli, specialmente in Andalusia. Mi piaceva tutto di quel posto, e soprattutto mi piacque la colazione, quasi continentale, ma con del pane arabo appena fatto, tè alla menta e marmellate varie. Laura aveva l’aria serena e impaziente di quando stava per iniziare una mattinata di shopping. Indossava una camicia di cotone bianco, ampia e coprente, una gonna-pantalone di seta arancione e dorata; non fosse stata a capo scoperto avrebbero potuto scambiarla per una del posto.
«Allora? Adil arriva oggi pomeriggio?».
«Sì, mi ha scritto stamattina. Chiede se vogliamo passare a prenderlo al bus che arriva alle tre da Ouarzazate».
«Ma non era in Mali?».
«Sì, ma suppongo che la linea dei bus non sia diretta e faccia tappa lì. Del resto, una pausa si rende necessaria, il tragitto nel deserto è davvero troppo lungo».
Mentre sbocconcellavo il mio pane e marmellata e sorseggiavo il tè, ripensai ad Adil e alla sua famiglia. Erano nostri vicini di pianerottolo e amici di lunga data. Lui e Ayisha, sua moglie, erano un po’ più giovani di noi, sulla quarantina. Vivevano a Torino da più di vent’anni – lui era un ingegnere della Fiat – e si erano trasferiti nell’appartamento di fronte al nostro quando era nata Jamila, la loro seconda figlia, per avere così un po’ più di spazio e per stare più vicini ai genitori di Ayisha che abitavano nel palazzo dall’altro lato della strada. Per combinazione, io conoscevo già la madre di lei, Basma, una donna dal sorriso dolcissimo che faceva l’infermiera alle Molinette, fungendo tra l’altro anche da segretaria al primario di cardiologia chirurgica che io periodicamente visitavo per proporgli apparecchiature mediche di cui avevo la rappresentanza. L’avevo incontrata mentre aiutava sua figlia nel trasloco, e così con Adil e Ayisha eravamo subito diventati amici.
In quel periodo Ahmed, il loro primogenito, aveva cinque anni. Rivedevo ancora la scena: il camion dei traslochi con la scala appoggiata al nostro piano, il trambusto per le scale, Adil che si dava da fare su e giù a portare pacchi insieme a sua moglie; ad un tratto avevo visto quel bambino così piccolo – in disparte in un angolo del pianerottolo –, tutto serio, teneva in braccio la sorella con l’aria di essere lui il padre. Inteneriti da quella scena, chiedemmo ai loro genitori se potevamo farli entrare da noi; così li facemmo sedere sul divano e gli offrimmo un bicchiere di succo. Lui accettò senza mai lasciare la sorellina che dormiva tranquillamente tra le sue braccia, avvolta in una copertina rosa.
Da quel giorno Laura si affezionò ad Ahmed come se fosse suo figlio. Avevamo perso la nostra quindici anni prima e da allora non avevamo potuto più averne. Che fosse questo il motivo principale della sua totale incapacità di lasciarsi andare nei rapporti con me? Erano anni che me lo chiedevo, e lo chiedevo anche a lei, ma lei non sapeva darmi risposta.
Come se avesse letto i miei pensieri, Laura chiese: «Ti ricordi quel giorno quando si trasferirono da noi? Com’erano piccoli Ahmed e Jamila! Pazzesco come passa il tempo».
«Già. Ricordo com’ero contento che se ne fosse andata quella stronza della Ferrero. Non sopportavo proprio quella vecchia, lei e quel suo stupido cane che mi abbaiava sempre contro quando ci incrociavamo per le scale. Che ogni volta che uscivo sul balcone della cucina, me la ritrovavo sul balcone di fronte come se fosse sempre appostata per spiarci. Meno male che ha deciso di ritirarsi in campagna, e ha venduto la casa ad Adil e Ayisha».
Ero indeciso se prendere un altro dolcetto al cocco. «Bah! Fanculo il peso» pensai. E poi mi aspettava una giornata stressante, come tutte quelle di shopping con Laura: camminare piano, fermarsi in continuazione, e quando lei avrebbe puntato qualcosa, una trattativa interminabile. Ci alzammo e ci avviammo: la ragazza della sera prima ci fece un sorriso dolce, sempre avvolta nel suo abito lungo e con l’hijab in tinta chiara.
«Dicevi che Ayisha mette anche lei il velo quando è qua?».
«Sì, me lo ha detto qualche giorno prima della partenza mentre stavamo chiacchierando in negozio. Dice che preferisce così, per non dare nell’occhio e anche per non dispiacere ai suoceri. Vivendo qui, la loro mentalità è rimasta un po’ indietro rispetto a quella del figlio. Ali e Nura, in fondo, sono due bravissime persone; Aysha dice che