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Il matrimonio non si addice a Enid Balfame
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E-book295 pagine4 ore

Il matrimonio non si addice a Enid Balfame

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Info su questo ebook

Enid Balfame, una bella donna di quarantadue anni, è sposata da ventidue con un politico chiassoso e ubriacone, ben lontano dal suo modo di essere, impeccabile e controllato. È proprio grazie al comportamento irreprensibile che la signora Balfame suscita la continua ammirazione della piccola élite di Elsinore, cittadina a poca distanza da New York, dove si è ritagliata un ruolo di primo piano anche come fondatrice del circolo locale. Sarà però questa la sua vera natura o si tratta solo di una facciata di perbenismo, tipico di quel mondo wasp provinciale di cui lei sembra incarnare il modello irraggiungibile? E che influenze possono avere le nuove istanze emancipatorie delle donne che si fanno strada anche in una sonnacchiosa cittadina di provincia, dove giungono solo gli echi drammatici della prima Guerra Mondiale? Quali elementi giocheranno dunque un ruolo nella morte del marito della donna, colpito da una pallottola sul cancello di casa? Tutti interrogativi che troveranno risposta seguendo fino all’ultima pagina questa storia scritta nel 1916.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mag 2020
ISBN9788894979176
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    Anteprima del libro

    Il matrimonio non si addice a Enid Balfame - Gertrude Atherton

    Colophon Titolo originale

    Titolo originale

    Mrs Balfame

    Prima edizione 1916

    I edizione italiana: maggio 2020

    © Edizioni le Assassine, 2020

    Tutti i diritti riservati

    Traduzione dall’inglese di Costanza Masetti

    Progetto grafico copertina e interni: studioquasar

    Copertina: elaborazione da foto Adobe Stock / Jan Kranendonk / www.unique-vintage.com

    ISBN della versione e-book 978-88-94979-17-6

    www.edizionileassassine.it

    info@edizionileassassine.it

    Gertrude Atherton

    Il divorzio non si addice

    a Enid Balfame

    Traduzione di Costanza Masetti

    Edizioni le Assassine

    Milano

    CAPITOLO I

    La signora Balfame aveva deciso di commettere un omicidio.

    Nel momento in cui, dal palco, aveva osservato i volti assorti dei circa cinquanta soci del Circolo del Venerdì mentre erano rivolti verso l’illustre relatrice newyorkese che lei stessa, in qualità di presidentessa, aveva appena presentato con poche parole così ben scelte, capì un po’ scioccata che quella decisione si era fatta largo nella sua mente da mesi, forse da anni. D’altronde non agiva mai d’istinto.

    Mentre sorrideva e applaudiva, con le mani forti e grandi, impeccabilmente rivestite di candidi guanti, la relatrice che con tono caustico aveva cominciato a sciorinare i diritti delle donne, lei si era chiesta se l’idea non fosse presente nel suo subconscio – quell’angolino nascosto della mente, su cui di recente si era ben documentata e di cui desiderava discutere con le signore progressiste del Club – da almeno la metà dei suoi ventidue anni di vita coniugale.

    Ma soltanto la sera precedente, all’improvviso, aveva realizzato senz’ombra di dubbio quanto odiasse quella pesante massa di lardo che le russava accanto.

    Da almeno otto anni, da quando la loro fortuna si era consolidata e lei aveva trovato tempo per la lettura di romanzi e per il teatro, aveva tanto desiderato una stanza tutta sua, un’esistenza personale e autonoma. Non era una sognatrice, ma spesso le si materializzava davanti agli occhi l’immagine di un luogo intimo e femminile, sobriamente arredato e decorato nelle sfumature dell’azzurro pallido – il suo inusuale istinto, infatti, le faceva considerare troppo sfacciati i colori rosa e lilla –, un luogo che di giorno avrebbe avuto l’aspetto di un boudoir. Era tuttavia troppo accorta per abusare di quella e di altre parole straniere, perché trovava che il suo unico riferimento, il palcoscenico pubblico su cui si svolgeva la sua vita, era vago o contraddittorio quando si trattava di simili dettagli, e lei ci teneva a essere sempre un modello di perfezione.

    Il piccolo mondo di persone che frequentava era infatti certo che la signora Balfame ne sapesse sempre più di tutti, e sospettava così poco delle sue carenze da non porsi mai il problema dei suoi limiti. Anche se a volte le circostanze l’avevano ostacolata, era riuscita comunque a inculcare nella testa degli altri la convinzione che lei era superiore in tutto alle altre donne, di cui era diventata la leader naturale.

    La signora Balfame non aveva mai espresso il desiderio di una camera da letto personale: teneva per sé i suoi pensieri, parlava con prudenza e permetteva raramente alla sua immaginazione di vagare, o all’amarezza di penetrare nel proprio animo.

    I Balfame non erano così benestanti, neppure ora, da poter cambiare i mobili ereditati dai genitori un po’ tirchi dopo il matrimonio e il trasferimento, ma per caso qualche mattina prima lei aveva notato che le molle del letto matrimoniale cigolavano, e dunque aveva pensato di venderlo per comprare due letti singoli.

    La notte precedente, sdraiata lì al buio, aveva serrato i pugni e trattenuto il respiro nel ricordare il colorito paonazzo di David Balfame, quando aveva posato la tazza di caffè, si era pulito i baffi e aveva arrotolato il tovagliolo, prima di risponderle.

    La sua espressione diceva tutto, ma era un politico, dunque un uomo abituato a elaborare il proprio pensiero per renderlo comprensibile a intelletti confusi.

    Facciamo riparare le molle, disse alla moglie che gli sorrideva soave dall’altro lato del tavolo apparecchiato con uova, pancetta, pesce salato, caffè e toast sempre che ne abbiano bisogno. Io non me ne sono accorto e sono più pesante di te. Ma non porterai in questa casa nessuna diavoleria moderna. È andato bene per i miei genitori e va benissimo per noi. Abbiamo vissuto per quindici anni senza paralumi artistici che mi disturbano gli occhi, né tappeti che mi fanno inciampare; e in questi ultimi otto o nove anni, da quando dirigi il Circolo e corri spesso a New York, mi sono fatto andar bene troppe cene fredde; ho speso un sacco di soldi per i tè del Circolo e per i tuoi bei vestiti, soldi che avrei potuto utilizzare meglio per le mie campagne elettorali. Ma ho sopportato tutto, e per questo penso di essere un bravo marito. Mi piace vederti elegante, perché sei ancora molto piacente – e questo mi torna anche comodo – e non ti ho mai trattato come una serva. Ma la pazienza di ogni uomo ha un limite: la mia sono i due letti singoli. E questo è tutto.

    Aveva pronunciato parte del suo discorso in piedi, essendo quella la sua posizione usuale quando dettava legge, poi aveva lasciato la stanza con quell’andatura goffa da campagnolo che la moglie aveva cercato invano di fargli perdere. Non aveva alcuna autorevolezza nella camminata o nel portamento, essendo un uomo più ostinato che forte, più furbo che deciso.

    Per fortuna non le aveva dato il solito bacio; l’odore del caffè sui suoi baffi la nauseava fino allo svenimento, da quando aveva cessato di amarlo. O da quanto aveva cominciato a odiarlo? Mentre respirava profondamente per far defluire il sangue che le era andato alla testa, si era chiesta se lo avesse mai amato.

    Quando si è giovani si è impulsivi! Lui era alto e snello, con guance colorite e occhi scintillanti, il buon partito del villaggio; si comportava in modo ineccepibile e avrebbe ereditato il negozio di famiglia, dato che il fratello maggiore era morto l’anno precedente mentre la sorella si era sposata e trasferita lontano.

    Lei era carina, superficiale e scarsamente colta, come tutte le ragazze del suo ceto sociale, ma teneva pulita la casa del padre; a sedici anni sfornava ottime torte e a venti era abilissima a confezionare i propri vestiti praticamente dal nulla. Non era assolutamente paragonabile alle sciacquette sue coetanee. Anche se non era passionale, aveva una vena sentimentale, un desiderio giovanile di storie d’amore, e una gelida antipatia per la propria opprimente matrigna.

    David Balfame l’aveva corteggiata sostando davanti al cancello principale di casa sua e l’aveva conquistata nell’orto, all’inizio della primavera. Era stato tutto così naturale e inevitabile, come il prendersi cura della pertosse e del morbillo del marito durante il primo anno del loro matrimonio.

    Era stata felice con la beata ignoranza della gioventù; l’indole svagata e serena le permetteva di dimenticare in fretta malumori e litigi, inoltre nutriva una sorta di fredda gratitudine per il fatto che non fossero venuti figli. Le piacevano i bambini, ma preferiva lasciare ad altre donne il privilegio di portarli in grembo ed educarli.

    Tutte queste piccole felicità erano però svanite con il tempo. Grazie alla ferrovia, il sonnacchioso villaggio in cui viveva si era trasformato in una vivace cittadina di circa tremila abitanti. Ma se tutto ciò, da una parte, le aveva offerto orizzonti più ampi e qualche bel viaggetto a New York, dall’altra aveva quasi affossato gli affari del marito. Morto il padre, lui aveva ereditato il negozio che per generazioni aveva rifornito il villaggio di ogni sorta di merci, ma ora le vendite erano fortemente diminuite e lui, invece di darsi da fare, si era impigrito: gli piaceva starsene seduto fuori sul marciapiede nelle giornate soleggiate o vicino alla stufa in quelle più fredde, facendo dondolare la sedia, chiacchierando di politica con altri individui altrettanto oziosi. Era benvoluto perché di maniere schiette e cordiali ed era un’autorità in politica, perché aveva una buona parlantina, anche se sgrammaticata. Gli affari peggioravano di continuo e lui imprecava finché, proprio quando stava per andare a gambe per aria, suo cognato, in gioventù anche suo amico del cuore, era arrivato dal Montana e aveva salvato il vecchio negozio Balfame dalla bancarotta.

    Il cognato, il signor Cummack, era riuscito ad allontanare gli amici perdigiorno e a introdurre Dave in politica; aveva poi preso contatti di persona con le casalinghe della cittadina, offrendo loro gli articoli migliori, tranne quelli che permettevano di fare un viaggetto a New York o di passare ore piacevoli a sfogliare il catalogo delle vendite per corrispondenza.

    La signora Balfame detestava l’efficienza del cognato anche se, passati due anni e precisamente nel dodicesimo anniversario del suo matrimonio, poteva permettersi una domestica e una manicure impeccabile. Lo trattava con affabilità, una qualità che le era naturale, e gli era anche moderatamente grata: grazie al suo intervento lei aveva infatti cominciato a rendersi conto delle proprie ambizioni latenti nel suo forte carattere e a delineare un solido piano per la propria ascesa sociale.

    Tutto era avvenuto in maniera sorprendentemente semplice. Certamente la signora Balfame non era introdotta, e probabilmente non lo sarebbe mai stata, tra le famiglie abbienti, che avevano grandi possedimenti e si frequentavano tra loro quando non erano impegnate nei circoli altrettanto altolocati ed esclusivi di New York, ma non aveva perso tempo in inutili invidie. C’erano altre antiche famiglie orgogliose di aver gestito per tre o quattro generazioni la stessa fattoria, agiate ma al tempo stesso alla mano, democratiche e, non essendo così antiquate da risultare troppo conformiste, aperte a nuove idee. Molte di loro, infatti, avevano costruito nuove dimore con l’espandersi della cittadina, che aveva inglobato alcuni terreni delle fattorie.

    La signora Balfame aveva sempre esercitato un forte ascendente sui vecchi vicini, e anche i nuovi arrivati avevano presto riconosciuto il suo ruolo e la sua superiorità; in pratica era sconosciuta solo ai pendolari che lavoravano nella grande città. Tutto sembrava giocare a suo favore nella conquista di un posto di rilievo nella comunità locale. Persino la casa, ereditata dal suocero e tuttora circondata da quattro acri di terra, dominava l’inizio della strada principale: una via larga, contornata da una fitta fila di aceri, antichi quanto le fattorie circostanti, che con le fronde intrecciate formavano da primavera a Natale un soffice arco di foglie.

    Pur non avendo una personalità eccezionale, Enid Balfame aveva una volontà di ferro, mascherata però da quel comportamento composto, dolce, signorile e affabile tanto apprezzato dalle donne; era completamente priva di quell’originalità capricciosa così detestata dai conservatori. Inoltre la sua figura snella e slanciata le permetteva di indossare gli abiti in modo impeccabile. Anche se era obbligata a portare gli stessi vestiti per un paio d’anni, sembravano sempre nuovi e, grazie alla sua aria disinvolta, molto più costosi di quanto fossero in realtà. Le donne la consideravano bellissima ma gli uomini, per la maggior parte, non la notavano.

    Da otto anni ormai, la signora Balfame, era leader indiscussa della comunità di Elsinore. Era stata lei a fondare il Circolo del Venerdì, dapprima inteso come occasione di generico scambio d’opinioni tra donne, poi come studio ossessivo della condizione femminile. Non che gliene importasse del diritto di voto e, a dire il vero, pensava che non si confacesse alle signore, ma una leader doveva essere capace di discriminare tra mode passeggere e questioni rilevanti.

    Era stata lei a trovare un buon contatto con un rispettabile circolo di New York; lei a persuadere quel personaggio ben vestito e radicale a esporre, al suo fianco sul palco, il tema La guerra in Europa e le donne.

    L’oratrice aveva dimostrato, riscuotendo soddisfatta il consenso della maggior parte dei presenti, che era stata la Germania ad accelerare i tempi della guerra. Stava ancora parlando, nonostante qualche fischio di disapprovazione; e la presidentessa aveva appena scambiato un’occhiata scettica e divertita con un’ascoltatrice convinta che il desiderio della Russia di trovare un posto al sole fosse alla base di tutti i misfatti, quando l’idea dell’omicidio – forse sotto l’influenza dei crudi riferimenti alle atrocità belliche, riportati dalla stampa in quel momento – prese definitivamente forma in quella sua mente così tanto apprezzata dalle donne di Elsinore.

    Il profilo della signora Balfame, dai contorni puri e candidi e dall’acconciatura perfetta, era rivolto verso il pubblico; una sua giovane ammiratrice, che aveva frequentato l’accademia delle belle arti a New York, le stava abbozzando il ritratto su un foglio, accostando idealmente la sua immagine a quella di Santa Cecilia, quando quelle otto lettere di fuoco si levarono fumanti dai campi di battaglia europei e assalirono la mente della signora Balfame: otto lettere scure e cupe, ma dal significato inequivocabile: OMICIDIO.

    Dopo un attimo di sorpresa e ripensamento, si chiese con calma: E perché no?. C’erano uomini che nelle trincee uccidevano a comando, con tanta leggerezza quanta se ne mette nel torcere il collo alla gallina nutrita fino a un minuto prima. E questi erano uomini, che legiferavano e si autoproclamavano governatori del mondo.

    La signora Balfame, da giovane, aveva profondamente rispettato l’altro sesso. Anche ora, pur disprezzando e odiando suo marito, ammirava un certo tipo di uomini dalle buone maniere e dalla discreta conversazione che sapevano evitare argomenti come affari e politica. Ma questi erano rari nella Contea di Brabant. Il solo che avesse incontrato e l’avesse effettivamente interessata era stato Rush Dwight, rampollo di una delle più antiche famiglie di agricoltori della zona.

    Rush aveva frequentato la facoltà di Giurisprudenza presso un’università del nord-ovest, ma dopo aver praticato per qualche anno nel Wisconsin, aveva accettato di entrare a far parte dello studio più famoso della sua cittadina natale. David Balfame era ricorso al suo aiuto più volte e negli ultimi sei mesi lo aveva invitato spesso a cena. Ma, per quanto la signora Balfame gradisse la sua compagnia e si rendesse conto di piacergli, non era fisicamente attratta da lui, inoltre disdegnava le situazioni ambigue, seppur innocenti; e così non aveva preso in considerazione la richiesta del signor Rush di passare a trovarla un pomeriggio.

    L’immagine di lui balenò fugacemente nella sua mente, proprio quando lei iniziò a chiedersi a che punto fosse arrivato il senso di civiltà degli uomini e perché mai, oltretutto, le donne dovessero prenderlo in considerazione e rispettarlo. Confrontato poi con il clamoroso massacro in Europa – un macello che periodicamente si compiva nel mondo, come espressione della latente bellicosità maschile – cosa mai poteva essere, in paragone a quei mostruosi crimini, l’azione di togliere di mezzo un marito odioso?

    Circa due anni prima – quando l’alcol aveva cominciato a infiammare il carattere del signor Balfame – la moglie aveva preso in considerazione il divorzio ma, dopo settimane di freddo calcolo sulle inevitabili conseguenze sociali, aveva accantonato definitivamente l’idea. Non rientrava nei suoi schemi: solo donne ricche, o che non avevano un ruolo significativo nelle grandi città o ancora che erano talmente emancipate da essere noncuranti, potevano permettersi il lusso di divorziare.

    Il suo mondo era la Contea di Brabant che, pur vantandosi di essere progressista, affondava le proprie radici nel vecchio puritanesimo, con tutti i suoi pregiudizi.

    Era una tipica comunità della classe media, con tradizioni e vecchi legami di sangue amalgamati in varie proporzioni. La signora Balfame, illuminata da tante letture e matinée, catalogava con segreto disprezzo gli abitanti di Elsinore come bourgeois e sospirava, sapendo però che tutti quei pregiudizi erano anche i suoi e che non avrebbe mai potuto ricoprire la posizione di leader se avesse divorziato.

    Non indulgeva in sogni di potere e di grandi ricchezze. Elsinore era il suo mondo e lei ne era contenta, rendendosi conto che la vita non l’aveva preparata per una posizione di spicco nella società newyorkese. Le piaceva semplicemente fare spese nella Quinta Strada ed evitava coscienziosamente la folla della Sesta, amava sedere con un’amica a un concerto e prendere un tè o una cioccolata in locali alla moda, prima di ritornare nella provinciale Elsinore. C’era un accordo tacito fra moglie e marito e cioè che lui avrebbe cenato con la sua cerchia di amici politici in un ristorante di Dobton le sere del mercoledì o del giovedì, qualora fosse stato per lei impossibile ritornare a Elsinore prima delle sette; accordo che lui aveva tacitamente approvato ma che deprecava in cuor suo, rientrando alle due di notte ubriaco fradicio.

    Non l’aveva mai accompagnata a teatro, preferendo i vaudeville o le commedie musicali chiassose, entrambi generi per cui la moglie provava disgusto. Lei assisteva solo a spettacoli impegnati. Bisognava dire che negli otto o nove anni in cui si era affrancata dai deprimenti lavori domestici, aveva imparato molto dalle rappresentazioni teatrali. Tutto sommato a lei piaceva di più il teatro americano, soprattutto quando descriveva la società. Non apprezzava molto le descrizioni della vita così come venivano fatte nelle opere progressiste (o decadenti?) straniere: ringraziava Dio di essere una semplice americana.

    Così era la signora Balfame quando decise di eliminare dalla sua vita il signor Balfame, marito superfluo. Sarebbe stata contenta di regnare su Elsinore da vedova dignitosa, irreprensibile e benestante. Dato che il divorzio era fuori questione, rimaneva soltanto un modo per liberarsi di lui: suo marito aveva quarantaquattro anni e, sebbene avesse iniziato a gonfiarsi come un pallone, per usare la sua stessa colorita definizione, era sano come un pesce. In fondo, anche l’ubriacone del posto era vivo e vegeto e ormai prossimo agli ottanta.

    La dottoressa Anna Steuer, amica della signora Balfame, stava ora rispondendo alla relatrice di New York. Dopo aver ricordato al Circolo come il presidente degli Stati Uniti avesse intimato al popolo di calmare gli animi e mantenersi neutrale, aveva proseguito con il demolire l’attitudine antitedesca del pubblico, citando il lungo elenco di contributi alla civiltà da un punto di vista industriale, economico e scientifico di cui l’Impero Germanico si era reso protagonista fin dalla propria costituzione.

    La dottoressa Steuer di origine tedesca era priva di grandi doti forensi, ma aveva una personalità leale e passionale. Aveva trascorso alcuni dei suoi anni di studio in ospedali della Germania e amava quel Paese per le sue bellezze naturali e la sua storia. Si era rifiutata testardamente di vedere il rovescio della medaglia, ancorando la propria fede su tutto ciò che di bello aveva visto in quella terra durante la giovinezza. Di conseguenza, il suo discorso non era completamente obiettivo e, se non fosse stato per il profondo affetto portatole dai presenti, le sarebbe già arrivato un cordiale ma fermo invito a farsi da parte.

    La signora Balfame le stava lanciando un sorriso incoraggiante, quando le sue riflessioni presero una piega improvvisa. Essendo una persona che non aveva mai agito impulsivamente, le sue decisioni erano di solito irrevocabili. Aveva stabilito di uccidere suo marito e lo avrebbe fatto e, ancor prima che la dottoressa Steuer riuscisse a catturare una sua superficiale attenzione, si era già posta la domanda: come? Raramente era maldestra e un omicidio, lei lo sapeva bene, era l’ultima cosa da sbagliare, se voleva godersi la libertà dopo averlo commesso.

    Compita fin nel profondo dell’animo, aborriva tutte le forme di brutalità, tanto che di rado leggeva gli articoli di cronaca nera. La vista del sangue non la faceva svenire ma la disgustava. Teneva una pistola in camera: dei malviventi, soprattutto di recente, erano entrati in tante abitazioni della contea; tuttavia nulla l’avrebbe terrorizzata di più che vuotare l’intero caricatore sul peggiore dei criminali.

    Meccanicamente passò in rassegna tutti i modi per sbarazzarsi di un altro essere umano, ma li escluse uno a uno, finché le passarono per la mente i metodi scientifici della dottoressa Anna, facendo centro e mostrandole come lei appartenesse per natura a quella categoria di persone che, se costretta a uccidere, avrebbe utilizzato il veleno. Era infatti un metodo poco cruento che non richiedeva un volgare spreco di energia.

    Ma un uomo sano che muore improvvisamente viene sottoposto a degli esami di laboratorio. Fu proprio in quel momento che la signora Balfame, sorridendo alla sua amica dichiaratamente filotedesca, rammentò di una serata piovosa di due anni addietro: lei e la dottoressa Anna avevano attizzato il fuoco nel camino del vecchio cottage Steuer. In quell’occasione la dottoressa, che prima della guerra non sembrava avere altri interessi se non le amicizie, la scienza e il diritto di voto, si era messa a disquisire su alcune sostanze tossiche che non lasciavano tracce nel sangue. Si era persino alzata a prendere una fiala da un armadietto segreto posto nel camino. Durante la stessa conversazione, che ovviamente si era poi incentrata sul crimine, aveva accennato all’idiozia di utilizzare la morfina, la stricnina o l’acido cianidrico come veleno, quando erano note altre sostanze, facilmente sigillabili in un’innocente capsula e identificabili solo con difficoltà, che potevano essere facilmente ricondotte al colera, al vaiolo o al tifo.

    La signora Balfame sussultò al pensiero di quelle malattie spaventose, non avendo alcuna intenzione di osservare la sofferenza umana, o di correre il rischio di essere infettata ma poi, mentre osservava la dottoressa Anna, si convinse che doveva procurarsi quella fiala di veleno. La decisione fu così improvvisa e chiara che si accompagnò a un fenomeno fisico: serrò rumorosamente i denti, spinse in fuori il mento, mentre i suoi occhi fissavano un punto della sala e i muscoli del viso si contraevano.

    In quel momento ad Alys Crumley, la giovane ragazza che invece di ascoltare la discussione stava ritraendo la signora Balfame, mancò il fiato e cadde la matita: per un momento la graziosa, raffinata ed elegante leader della società di Elsinore non assomigliò più a Santa Cecilia ma a Medea. Di solito composta, risoluta e con un sorriso sicuro, in quel momento rivelò le proprie segrete inclinazioni.

    La signorina Crumley le rivolse un’occhiata stupefatta e apprensiva, ma il dibattito era appena finito e tutti stavano commentando il magnifico autocontrollo dei principali relatori, ripetendo l’ultima frase dell’ospite newyorkese: non la civiltà, ma l’uomo è un fallimento. Un momento dopo, la signora Balfame si diresse al centro del palco invitando tutti i presenti a farsi avanti per incontrare la relatrice. L’ingenua signorina Alys Crumley, osservandola e ascoltando la sua voce così piacevole e la risata elegante, arrivò alla conclusione che l’espressione trucida notata poco prima sul suo viso non era altro che un effetto ottico provocato dalla luce.

    CAPITOLO II

    La riunione del Circolo del Venerdì si era tenuta nell’Auditorium, che ospitava di volta in volta rappresentazioni teatrali, pellicole cinematografiche, commedie, dibattiti politici e feste danzanti. Il locale risultava particolarmente adatto

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