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Echi del silenzio
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Echi del silenzio
E-book366 pagine5 ore

Echi del silenzio

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Info su questo ebook

Durante un soggiorno di studio in Germania, Ai Lian, una giovane malese di etnia cinese incontra e s’innamora di Michael Templeton, un inglese nato e cresciuto nel distretto di Ulu Banir, dove il padre Jonathan, ora cittadino malese, possiede una piantagione. Dopo una lunga assenza, Ai Lian ritorna a casa per assistere il padre morente, e in seguito parte per la piantagione dei Templeton, invitata da Michael che è intenzionato a sposarla. Nel giorno del suo arrivo ha però luogo un omicidio, il secondo a distanza di decenni, e Ai Lian si trova ben presto coinvolta in un’intricata storia familiare. Ma il thriller, oltre alla ricerca del colpevole, con un finale davvero inconsueto per il lettore occidentale, offre molto di più: uno spaccato della Malesia e della sua storia fino ad arrivare agli anni che precedono l’Indipendenza del Paese, con gli inglesi che governano le piantagioni cercando di replicare il loro stile di vita, pur cedendo al caldo tropicale e ai costumi locali.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2019
ISBN9788894979220
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    Anteprima del libro

    Echi del silenzio - Chuah Guat Eng

    Colophon

    Titolo originale

    Echoes of Silence. A Malaysian novel

    © 1994 Holograms Publishing

    © Edizioni le Assassine, 2019

    Tutti i diritti riservati

    Traduzione dal francese di Marina Grassini

    Progetto grafico copertina e interni: studioquasar

    ISBN della versione e-book 978-88-94979-22-0

    www.edizionileassassine.it

    info@edizionileassassine.it

    Chuah Guat Eng

    Echi del silenzio

    Un romanzo malese

    Traduzione di Marina Grassini

    Edizioni le Assassine

    Milano

    In ricordo di mio padre e di mia madre

    Nota dell’autrice

    Il Banir è un nome che mi è capitato di sentire durante la mia infanzia.

    Era una piccola stazione ferroviaria gestita da mio padre durante l’occupazione giapponese: lui vi coltivava verdure e riforniva coloro che combattevano nella giungla a mani nude, in cambio di selvaggina.

    Mi è sembrato naturale chiamare il luogo fittizio dove si svolge il mio romanzo come il luogo che, nel mezzo della guerra, mi ha toccato per la sua pace idilliaca. È comunque l’unico legame che questo romanzo ha con la realtà: oggi esiste un Pekan Banir nel quartiere di Batang Padang nel basso Perak; ma il fiume Banir di questo romanzo e poi il quartiere di Ulu Banir, l’antica città fortificata di Kota Banir, il villaggio malese di Kampung Banir Hilir e il villaggio cinese di pescatori Began esistono solo nella mia immaginazione, così come tutti i personaggi.

    Non nella forma, non nel suono è da trovarsi la vera illuminazione.

    Il Sutra del Diamante

    Parte I

    15 gennaio 1994

    1.

    Estate 1971

    Nel marzo 1970, come diretta conseguenza delle sommosse razziali del maggio 1969, lasciai la Malesia. Avevo un solo scopo: trovare un posto sicuro dove vivere. Un posto dove potessi sprofondare nell’oscurità e, come rappresentante di una piccola minoranza, non essere una minaccia per nessuno. Avevo diciotto anni.

    La Germania mi sembrò il posto ideale. Era l’inizio della primavera e per terra c’era ancora la neve. Non appena il treno attraversò a gran velocità la Baviera, vidi davanti a me un mondo fatto di biglietti di Natale, calendari e storie di fate. Gli abeti e le montagne mi trasmettevano un rassicurante senso di eternità. Le case – piccole, ordinate e scintillanti alla luce del sole – trasudavano un’aria di insediamento felice.

    Mi sentii come se stessi ritornando in un Paese conosciuto nell’infanzia: potevo immaginarmi di vivere lì per sempre, ne facevo parte, anche se non del tutto – un po’ la stessa sensazione che prova un lettore nei confronti del contenuto del libro che sta leggendo. Mi vedevo nei panni di una studentessa e o di una ricercatrice, al sicuro e soddisfatta nelle biblioteche dai libri allineati e dai corridoi ammuffiti di antiche università, come Heidelberg o Tubinga. Avevo letto da qualche parte che in Germania era ancora possibile trascorrere l’intera vita soltanto studiando, a patto di avere i mezzi, l’energia e soprattutto la capacità di non sostenere esami. Diventare una studentessa vita natural durante divenne la mia ambizione. E nell’estate del 1971, quando incontrai Michael Templeton, avevo completato un anno di corso di tedesco in una scuola di lingue a Monaco.

    Stavo camminando lungo la Leopoldstrasse verso il mio appartamento nella Viktor Scheffelstrasse, dopo aver lasciato una festa di addio per alcuni studenti che avevano appena finito il corso di lingua e si preparavano a lasciare la città o per ritornare nel loro Paese o per andare a studiare in qualche università tedesca. Molti di loro erano latinoamericani.

    La festa era stata un flusso di birra, lacrime e lunghi e appassionati discorsi per me a tratti incomprensibili, con El Condor Pasa di Simon e Garfunkel suonato a ripetizione nel jukebox. Più o meno dopo una mezz’ora in cui uomini solitamente macho si erano abbracciati, baciati, compianti sulle reciproche spalle, non ne potevo più, imbarazzata da ciò che consideravo un’inutile dimostrazione di emozioni. Non potevo che sentire, nei loro gesti, la mancanza di sincerità, visto che in passato tutti quanti, chi prima chi dopo, si erano dimostrati insinceri l’uno verso l’altro.

    Mi confidai con Rubén Ortiz, un argentino, pensando che sarebbe stato sicuramente d’accordo, dal momento che mi aveva spesso espresso le sue critiche nei confronti degli uruguaiani; invece li difese a spada tratta e mi chiese che cosa io, una cinese dal sangue freddo, potessi mai sapere riguardo ai sentimenti e alle passioni dei latinoamericani. Così me n’ero andata per evitare una stupida discussione.

    Mentre stavo per girare nella Viktor Scheffelstrasse, all’improvviso un uomo alto e dai tratti latini comparve alle mie spalle e mi affiancò. Pensando che fosse qualcuno proveniente dalla festa gli sorrisi. Con mia sorpresa, però, lui si mise a parlare in inglese. Si era perso, potevo indicargli come raggiungere la sua pensione a Schwabing?

    Il mio istinto iniziale fu di scuotere la testa, sorridere con la solita cortesia orientale e fingere che non lo avessi capito. Ma mi sentii in colpa: fino a poco tempo prima, anch’io, da straniera, avevo sempre sperato in un aiuto. Gli chiesi dunque in inglese dove volesse andare.

    Sembrò sollevato: almeno, pensai, non era stato tanto arrogante da dare per scontato che parlassi la sua lingua. La pensione che stava cercando non era poi molto distante da dove vivevo, così gli dissi di seguirmi. Mentre camminavamo mi raccontò che era un musicologo: era arrivato in Germania con un programma di ricerca e avrebbe vissuto e lavorato a Monaco per un paio d’anni. Non avevo idea di chi fosse e cosa facesse un musicologo, così gli chiesi che strumento suonasse. Ne nominò più di uno e aggiunse che il suo preferito era il clavicembalo. Gli dissi che io non avevo mai visto un clavicembalo in vita mia e gli raccontai la storia che avevo sentito da un amico di famiglia: un’orchestra tedesca in tournée a Kuala Lumpur aveva scoperto che in tutta la Malesia vi erano solo due clavicembali, uno di questi apparteneva al proprietario di una piantagione che si trovava nel selvaggio Pahang.

    In realtà si dice Perak, disse ridendo di selvaggio ormai non c’è più nulla nel distretto di Ulu Banir e la persona di cui parli è mio padre. Dunque continuò prima che avessi tempo di mostrarmi sorpresa vieni dalla Malesia. Che cosa ci fai qui? La maggior parte dei malesi studia in Inghilterra o in uno degli Stati del Commonwealth, o addirittura in America.

    Studio replicai ridendo, scegliendo di rispondere solo alla domanda diretta. Mi sembrava troppo complicato cercare di rispondere anche a quella indiretta: perché fossi venuta proprio in Germania. Senza contare che non ero più molto abituata a chiacchierare.

    Giusto, allora siamo in due.

    Legammo subito: due gocce d’acqua che parlavano inglese in un mare teutonico, legati dalla presenza fortuita di uno strumento musicale in un’improbabile parte del mondo lontana migliaia di chilometri da dove eravamo in quel momento.

    Nei mesi che seguirono, ebbi la possibilità di conoscere meglio Michael Templeton. Era nato nella piantagione di caucciù del padre, nel distretto di Ulu Banir, subito prima dell’occupazione giapponese. Poco dopo la sua nascita, i genitori erano partiti per Singapore per fare compere e lo avevano lasciato nelle mani di Puteh, la sua nutrice malese. Mentre si trovavano là, la Malesia fu invasa dal Giappone e i Templeton si trovarono bloccati sull’isola, dove passarono gli anni della guerra in un campo di detenzione.

    Rimasto alla piantagione, Michael si era salvato grazie alla prontezza di Puteh, che lo aveva preso con sé e portato nel vicino villaggio dove lei e suo marito, Yusuf, si erano presi cura di lui come se fosse un loro figlio. In seguito, quando si resero conto che, come malesi, erano relativamente al sicuro dai giapponesi e che Ulu Banir era strategicamente insignificante per gli occupanti, tornarono a vivere nelle abitazioni dei domestici dietro la residenza dei Templeton. Per alcuni anni, Michael venne cresciuto come un ragazzo malese. Il malese era infatti la sua prima lingua e per un lungo periodo egli credette che il figlio della coppia, Hafiz, di due anni più giovane di lui, fosse suo fratello.

    Dopo la guerra, quando i suoi genitori tornarono alla piantagione, Michael andò a vivere con loro. La presenza di Puteh, che fu sua nutrice finché non venne mandato a studiare in Inghilterra all’età di sette o otto anni, rese meno traumatico l’adattamento al nuovo stile di vita, proprio dei suoi genitori. Mentre era all’estero a studiare, iniziò la guerra di resistenza: sua madre fu una delle prime vittime dei terroristi comunisti.

    Adattarsi alla scuola in Inghilterra era stato difficile, in particolare nei primi anni: emarginato dai suoi compagni di classe e compatrioti, aveva trovato conforto nell’unica cosa in cui era bravo, la musica. E ogni anno non vedeva l’ora di tornare a casa e di passare le vacanze estive con la sua amata Puteh e il suo amico Hafiz, nel mondo che considerava il più sicuro possibile: la piantagione dei Templeton.

    Michael parlò poco di suo padre, Jonathan Templeton. Ebbi l’impressione che fosse un uomo riservato, con solo una vaga idea di come comportarsi con un figlio che a malapena conosceva. Quando era a casa per le vacanze, Michael passava più tempo possibile con Hafiz e i suoi genitori. Diventato adolescente, Jonathan Templeton iniziò a portarlo al club locale per fargli conoscere gli altri membri della comunità venuti dall’Inghilterra. In seguito, i giorni di vacanza vennero riempiti da partite di tennis, rappresentazioni teatrali, gite al mare, giri in barca a vela, e trekking nella giungla; il tipo di attività che i giovani inglesi in Malesia erano soliti concedersi. Anche se, paradossalmente, Jonathan Templeton era diventato un cittadino malese nel 1960, Michael aveva conservato il suo status di cittadino britannico.

    Non fu semplice per me, cresciuta in città, immaginare la vita nelle piantagioni di caucciù. Già attraverso la parola Ulu mi ero immaginata giungle minacciose, ruscelli che scorrevano in montagne scoscese e capanne di aborigeni. Ma, mentre Michael parlava, la giungla selvaggia che immaginavo nella mia mente veniva spazzata via, rimpiazzata da file ordinate di alberi di caucciù, capanne di legno verde scuro per i lavoratori e una buona rete di strade asfaltate. Un piccolo regno di alberi allineati, lavoratori immigrati indiani che un inglese dall’aria militare controllava dalla sua grande magione costruita in cima a una collina.

    Io non ero mai stata in una piantagione di caucciù, dunque me la immaginavo mettendo insieme scorci che avevo visto da piccola andando in vacanza verso le montagne o al mare. Se non fosse stato per le sommosse razziali, che mi avevano obbligato a vedere la Malesia sotto un’altra luce, avrei potuto trovare divertente il fatto che ero più straniera di Michael nella mia stessa terra. Ma la mia nuova situazione di cittadina senza patria mi aveva fatto pensare a lungo: perché sapevo così poco? Perché mi era stato concesso di sapere così poco? Ero del tutto da biasimare per la mia ignoranza? O ero ignorante perché era convinzione generale che non fosse affar mio sapere, che in realtà non c’era posto per me in quel Paese?

    Forse per il mio personale senso di estraniamento, non potevo dare credito all’apparente amore di Michael verso il Paese che egli chiamava casa, visto che comunque era britannico. In parte potevo capirlo quando parlava della sua infanzia da malese identificandola come la parte più felice della sua vita; ma trovavo sorprendente il suo amore per Puteh, Yusuf e Hafiz.

    Avrei anche potuto invidiarlo se fossi stata consapevole di quanto l’isolamento emotivo e culturale della mia infanzia aveva plasmato la mia psiche e la mia vita adulta. Ma, all’epoca, che cosa ero io? Distaccata, o meglio, altezzosa? Sì, questa era la parola giusta! Come lo ero stata nei confronti dei latinoamericani durante la loro festa di addio. Trovavo eccessiva e falsa l’espressione di sentimenti appassionati verso persone con cui non si avevano legami di sangue o di amore.

    Finimmo per innamorarci, Michael e io. O forse dovrei dire che io lo amavo.

    Lo amavo fisicamente. Anche molto tempo dopo l’inizio della nostra relazione, ero spesso meravigliata di come la consapevolezza improvvisa di qualche parte del suo corpo, come la forma del suo naso, l’angolo del suo gomito, la morbidezza delle sue mani, potesse farmi sciogliere dal desiderio. Io lo amavo per la sua mente, per la sua conoscenza di così tante cose, per la sua esperienza, per il suo umorismo, per la sua realizzazione come musicista. Lo amavo per il suo edonismo: per il suo amore del buon cibo, del buon vino e sì, per la sua conoscenza del mio corpo, misterioso persino per me fino a quel momento.

    Lo amavo come l’argilla ama il vasaio, perché in un certo senso lui mi stava plasmando. Ero troppo innocente allora per ragionare in termini di dare e avere, di usare ed essere usati, tutto ciò sarebbe arrivato dopo, allora c’era solo una sublime dolcezza nell’arrendersi affamata a un generoso desiderio… ti voglio, prendimi!

    E così quella prima estate rimase nella mia mente come una fuga verso buon cibo, vini invecchiati, musica del clavicembalo, pomeriggi oziosi e notti passate a fare l’amore in un appartamento che lui aveva affittato in Amalienstrasse.

    Non solo mi aveva aiutato a trarre piacere dal mio stesso corpo, ma anche a godere della mia nuova ricchezza, una piccola eredità ricevuta da una mia nonna. Viaggiammo per tutta l’Europa quell’autunno, partendo per i weekend non appena i suoi impegni ce lo permettevano. Soggiornammo nei migliori alberghi, pranzammo in ristoranti stellati, viaggiammo concedendoci il massimo del lusso. Avevo imparato a usare le carte di credito e a comprare ciò che mi piaceva, incurante del prezzo. Mi sentivo ricchissima: ricca di amore e della gioia di dare; i soldi erano solo un mezzo in più per esprimere il mio stato di grazia interiore.

    Michael mi aveva regalato un braccialetto di tartaruga. Non doveva essere troppo costoso. Ma me lo aveva dato avvolto in due pezzi di corteccia, coperta di muschio e di fiori di campo. Per quella ragione nessun regalo che ricevetti prima o dopo mi è mai sembrato più prezioso. Lo fece scivolare sul mio polso destro. L’ho indossato fedelmente per anni finché non si è rotto in due, poi ho rimodellato le metà in modo da farne due orecchini e un pendente.

    Gli avevo fatto anch’io dei piccoli regali: fiori di campo sistemati in conchiglie, giardini di roccia in miniatura composti con i sassi che avevamo raccolto insieme. Mi chiedo dove siano finiti. Li ha conservati come io ho fatto con il suo braccialetto? Ho persino tenuto l’involucro originale per anni, finché non si è consumato.

    Mi ricordo in modo particolare di un evento, anche se non ne so il motivo. Forse perché dopo la tragedia accaduta a Cynthia, ero solita pensarci come a un indizio dell’indole e della buona fede di Michael, della mia indole e della mia buona fede, e dei sottili cambiamenti che sarebbero avvenuti nella nostra relazione da quel momento in poi.

    Ci eravamo diretti verso la campagna e avevamo parcheggiato nei pressi di un lago. Il posto era deserto e avevamo tirato fuori la nostra tovaglia da picnic. L’autunno era già arrivato e faceva un po’ troppo freddo per mangiare all’aperto, ma l’aria pungente ci diede una buona scusa per abbracciarci e riscaldarci con generose dosi di grappa.

    Il cielo, i pini, l’acqua e i giunchi attorno a noi erano grigi.

    All’improvviso, per nessun motivo che io riesca a ricordare, gli chiesi: Michael, non ti senti mai in colpa per il fatto di essere ricco?.

    Io non sono ricco. Che cosa te lo ha fatto credere?

    Oh, ma devi esserlo. Non lo sei? Tuo padre possiede una piantagione.

    Be’, la possedeva. Ne ha venduto la maggior parte negli anni Sessanta, credo.

    Be’, deve avere parecchio denaro investito da qualche parte.

    Penso di sì. Ma al massimo è lui quello ricco, non io. Io sono solo uno studente dal futuro incerto.

    Ma quando morirà ti lascerà tutti i suoi soldi, no?

    Credo di sì. Non posso dire di averci mai pensato tanto. Mio padre è ancora molto giovanile, e forte come una roccia. Passerà un sacco di tempo prima che venga a mancare. A ogni modo, perché di colpo tutte queste domande?

    Stavo solo riflettendo.

    Michael era seduto con le ginocchia abbracciate e guardava verso il lago. E tu invece? Non ti senti in colpa?

    Colsi un luccichio di divertimento nei suoi occhi grigi che mi fece sentire insicura. Cosa trovava di così divertente? Stava ridendo perché comunque non gli sarebbe importato della mia risposta a una questione così priva di importanza? O stava ridendo di me, una giovane ragazza malese, un po’ naïve, proveniente da un piccolo villaggio, così poco abituata ai soldi da essere a disagio?

    In quel momento divenne per me importante fargli sapere che non ero in nessun modo inferiore a lui: gli intrecciai un quadro di mezze verità e mezze bugie e, senza dirlo esplicitamente, gli feci intendere che mio nonno era stato un uomo molto ricco e che io avevo ereditato una vasta fortuna.

    Ma non ho mai avuto la sensazione di essere migliore di altre persone. A casa non sprecavamo nulla, dovevo essere una brava studentessa, trovare lavoro, ed essere indipendente. Infatti, finché mia nonna era in vita, non avevo idea di quanto ricca fossi. Ereditare è un po’ come possedere intelligenza o fortuna, vero? Ce l’hai, sì, ma il fatto di averne ha poco a che fare con il tuo impegno. A volte ci si sente un po’ in colpa gli spiegai ricorrendo ai discorsi sentiti tante volte da alcuni miei compagni di scuola, ricchi ma avari.

    Mi resi conto che mi stava guardando come se mi vedesse per la prima volta. Ma non avevo idea di che cosa stesse vedendo. Ero una bugiarda o l’ereditiera per cui mi ero fatta passare?

    Non avrei saputo la risposta finché non fu troppo tardi.

    In quel momento mi aveva spinto a schiena in giù e si era sdraiato su di me mormorandomi all’orecchio: Non mi interessano l’intelligenza, i sensi di colpa, la sola cosa che mi interessa sei tu: la tua mente, la tua ricchezza, tutto.

    Là, nella foresta deserta vicino al lago, resa grigia dall’arrivo imminente dell’inverno, mi aveva preso con una foga e una rozzezza che prima non conoscevo. E io, lusingata da questo suo volermi, desiderandolo perché mi voleva, avevo acconsentito con una risata al suo piacere, al mio piacere, al nostro piacere.

    All’inizio dell’ottobre 1973, Michael mi comunicò che sarebbe tornato a casa in Malesia e mi invitò a passare il Natale con lui e suo padre nella piantagione dei Templeton.

    Accettai, in parte perché non avevo nessuno di più interessante con cui passare il Natale, ma principalmente perché mi sembrava la cosa giusta da fare. Ero abbastanza giovane e abbastanza asiatica da credere che, una volta che due persone fossero state a letto insieme, erano da considerarsi come sposate.

    2.

    6 febbraio 1974

    Non trascorsi il Natale con i Templeton, tornai invece a casa da mio padre al quale, dopo un periodo di malessere, era stato diagnosticato un cancro al fegato. I dottori non gli avevano dato troppo tempo da vivere e mia madre voleva che io passassi gli ultimi giorni con lui.

    Avevo scritto a Michael dalla casa dei miei a Kuala Lumpur per fargli sapere la situazione e per informarlo che l’avrei incontrato a Ulu Banir prima di ritornare in Europa. Mi telefonò dicendo che mi avrebbe raggiunta, ma io ribattei che mio padre era davvero molto malato e che sarei stata troppo occupata: non volevo scoprisse la reale situazione finanziaria della mia famiglia.

    Mio padre morì il 26 dicembre.

    Vorrei poter dire che mi dispiacque, ma la verità è che fui estremamente sollevata quando morì. Odiavo le visite all’ospedale, odiavo sedermi vicino al suo letto, odiavo i suoi momenti di sonno indotto dai farmaci che si alternavano a momenti di veglia pieni di dolore. Odiavo l’odore dell’ospedale, l’odore della sua malattia, l’odore della sua morte imminente. Odiavo dovermi imporre di non piangere, cosa che avrei voluto fare tutte le volte che lo vedevo in quel letto, un’ombra di quello che era stato in passato.

    Odiavo essere costretta a sopportare tutto da sola invece di condividere il dolore con fratelli, sorelle, zii e zie, cugine, nipoti e chi altro.

    Fu la mia prima diretta esperienza con la morte e non riuscivo a rendermi conto di che cosa c’entrasse con me: ricordo solo la mia rabbia, come se mio padre si fosse ammalato e fosse morto di proposito per darmi un dispiacere alla festa di Chap Goh Meh.

    Partii per Ulu Banir l’ultimo giorno del capodanno cinese viaggiando in treno fino a Ipoh, dove mi era stato detto che avrei incontrato Karuppiah, l’autista di Jonathan Templeton.

    Per la prima volta da quand’ero tornata avevo la possibilità di vedere il mio Paese: era cambiato, ovunque c’erano segni di industrializzazione e di prosperità. Ma odiavo le pendici delle colline simili a rosse ferite provocate, in nome del progresso, dalle lame affilate delle escavatrici.

    Come il treno lasciò l’industrializzata valle Klang, colsi i bagliori di un mondo che avevo visto per poco tempo da bambina, e i miei pensieri volarono a mia nonna.

    L’avevo conosciuta appena, durante una breve vacanza scolastica passata a casa sua. Tuttavia alla sua morte mi aveva lasciato unica erede, dandomi la possibilità di emigrare e di diventare, se lo avessi voluto, una cittadina del mondo.

    Ero figlia unica.

    Benché avessi capito di avere uno stuolo di parenti da parte di padre, non avevo mai avuto contatti con loro e, dalla parte di mia madre, c’era solo una vecchia zia zitella, così triste e così poco interessata ai bambini che non la vedevo mai.

    Mio padre, un giorno in cui era particolarmente comunicativo, mi disse che il nonno Lim, come molti cinesi facoltosi di quel tempo, aveva avuto diverse mogli e un numero imprecisato di figli. Mio padre era l’unico figlio della moglie più giovane. Mio nonno morì poco dopo la sua nascita, e la nonna ritornò a un certo punto insieme a lui dai genitori, perdendo i contatti con la famiglia del marito.

    Mi piacerebbe dire che la nonna lasciò la famiglia Lim da donna ricca o che mio padre costruì una fortuna partendo da una povertà assoluta – questa è la fama dei cinesi emigrati all’estero. Invece mio padre fu un uomo insignificante: era un funzionario statale. Mia madre, che parlava inglese, una maestra. Quando erano al lavoro, ero affidata a uno stuolo di domestici che andava e veniva senza lasciare la minima influenza su di me. L’unico lato piacevole della mia infanzia era il confort di una villetta a schiera assegnata dallo Stato e il poter giocare con i figli dei vicini. Il mestiere di mia madre ci aveva dato un certo status sociale in quella piccola comunità, e lei lo sottolineava apertamente. Io, il prodotto di ciò che allora era considerata la classe media malese – educazione inglese, ambiente statale –, ero più brava a scuola rispetto ad altri bambini provenienti da famiglie che non parlavano inglese. Tutto ciò, unito alla diceria che mio nonno era stato ricco, mi diede un senso di superiorità.

    Fatta eccezione per quella volta, mio padre non mi parlò mai di nonno Lim e, siccome non avevo mai incontrato sua madre, la nonna, pensai che fosse morta. Poi però, quando avevo sette anni, mia madre fu ricoverata per un’operazione. Il periodo coincideva con le vacanze scolastiche e così fui mandata dalla mia Por-Por, la nonna materna.

    Mi ci portò mio padre, ed era così lontano da casa nostra che dovemmo noleggiare un taxi privato. Dopo quasi un giorno di viaggio, ci fermammo in una stradina. Non c’erano case e si vedevano solo dei tronchi di legno di cocco gettati sopra un largo fossato a fungere da ponte rudimentale. Mio padre mi ordinò di uscire dalla macchina e cominciò a scaricare i bagagli.

    Mi dovette prendere in braccio, perché io non sarei mai salita su quel ponte improvvisato. Arrivammo a un gruppo di baracche di legno – ora mi rendo conto che erano abusive – costruite non certo dal proprietario dell’appezzamento, ma da qualcuno che aveva visto il modo di farci su qualche soldo. Aveva costruito casupole di legno e le aveva affittate – a poco prezzo spero – a coloro che erano troppo occupati a guadagnarsi da vivere giorno per giorno per accorgersi dell’inganno.

    Mia nonna mi portò una volta in quella piccola comunità, composta perlopiù da cinesi tutti parenti fra di loro. C’erano un conducente di risciò, un autista di camion, due carrozzieri e una coppia che, dopo aver miscelato polvere colorata e acqua, imbottigliava la bevanda e la vendeva agli ambulanti abusivi del villaggio vicino. Mi piaceva la loro casupola più delle altre: era impregnata del profumo pungente di essenze chimiche di arancia, lime, salsapariglia e rosa.

    Quel giorno, però, io e mio padre oltrepassammo le case e arrivammo fino all’inizio di un sentiero che sembrava portare a una foresta, ma che in realtà era una piccola piantagione abbandonata di alberi della gomma. Era un mondo pieno di suoni e movimenti, i rami degli alberi e il sottobosco bisbigliavano e sospiravano, gli uccelli cinguettavano, gli insetti frinivano, i corvi gracchiavano e, di tanto in tanto, i semi maturi della gomma si aprivano con uno scoppio improvviso.

    Nata in città, non avevo mai visto tanta vegetazione, terra, fango e animali, tutto quello che sapevo sulle foreste lo avevo imparato dalle storie per bambini che avevo letto. Quando il sottobosco divenne più fitto, mi immaginai lupi e orsi, e cominciai anche a temere le streghe ed ebbi paura di essere abbandonata nel bosco da un genitore troppo occupato per prendersi cura di me. Dovevo fare quella domanda che mi era stata sulle labbra fin dal primo mattino.

    Papà, chi è Por-Por?

    È tua nonna.

    La nonna? Perché non l’ho mai conosciuta?

    Abitiamo troppo lontano, come puoi vedere…

    È la tua mamma o quella di mamma?

    La mia.

    Ma allora, perché non mi hai mai detto nulla?

    Cosa c’è da dire? È tua nonna e basta.

    E la mamma della mamma? Anche lei è viva?

    Cominciavo ad avere la prima prova di quanto reticenti fossero i miei genitori.

    La tua nonna materna è morta, lo sai bene.

    Nessuno me lo aveva mai detto.

    Papà, non voglio stare con Por-Por.

    È troppo tardi ora, ci sta aspettando, e a ogni modo siamo arrivati.

    Vidi davanti a noi una piccola capanna di legno con uno strano tetto e accanto una casupola più grande, davanti alla quale c’era una donna anziana e magra in pantaloni neri e con una camicia blu di stile cinese.

    Eccoci, mamma… disse mio padre quando le fummo vicini.

    Por-Por con un filo di voce la salutai rispettosamente, come mi era stato

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