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Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti: traduzione di Bruno Osimo
Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti: traduzione di Bruno Osimo
Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti: traduzione di Bruno Osimo
E-book306 pagine8 ore

Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti: traduzione di Bruno Osimo

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Mio zio, il colonnello Egór Il'ìč Rostanev, andando a riposo si trasferì nel villaggio di Stepànčikovo, che aveva ricevuto in eredità, e si mise a viverci come un proprietario terriero che per tutta la vita non abbia mai messo piede fuori dai propri possedimenti. Vi sono persone che sono proprio soddisfatte di ogni cosa e che si abituano a tutto; proprio così era il carattere del colonnello a riposo. Era difficile immaginare persona più pacifica e più accomodante. Se gli avessero chiesto seriamente di portare qualcuno in spalla per un paio di verste, forse l'avrebbe anche fatto: era così buono che a volte era disposto a dare decisamente tutto alla minima richiesta e, poco ci mancava, a dividere la sua ultima camicia con chiunque glielo avesse chiesto. Aveva un aspetto imponente: era alto e slanciato e aveva guance rubizze, denti bianchi come zanna d'elefante, lunghi baffi castani, una voce forte e chiara e una risata sincera e fragorosa; parlava a scatti e in fretta. All'epoca avrà avuto quarant'anni e aveva trascorso tutta la vita, si può dire quasi da quando aveva sedici anni, negli ussari. Si era sposato ancora molto giovane, aveva amato sua moglie con passione; ma lei era morta, lasciando nel suo cuore un ricordo indelebile, di riconoscenza. Infine, dopo avere ricevuto in eredità il villaggio di Stepànčikovo, che accrebbe il suo patrimonio a seicento anime, si era ritirato dal servizio e, come è già stato detto, si era messo a vivere nel villaggio insieme con i figli: Iljùša, di otto anni (la cui nascita era costata la vita alla madre) e la figlia maggiore Sàšen'ka, una ragazza di una quindicina d'anni che, da quando era morta la madre, era stata educata in un collegio a Mosca. Ma presto la casa dello zio finì per assomigliare all'arca di Noè. Ecco come accadde.
LinguaItaliano
Data di uscita13 lug 2022
ISBN9788898467365
Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti: traduzione di Bruno Osimo

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    Anteprima del libro

    Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti - Fëdor Dostoevskij

    Fëdor Michàjlovič Dostoevskij

    Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti

    versione filologica del romanzo

    (1859)

    a cura di Bruno Osimo

    Copyright © Bruno Osimo 2019

    Titolo originale dell’opera: Село Степанчиково и его обитатели

    Traduzione dal russo di Bruno Osimo

    Bruno Osimo è un autore/traduttore che si autopubblica

    La stampa è realizzata come print on sale da Kindle Direct Publishing

    ISBN 9788898467808 per l’edizione cartacea

    ISBN 9788898467365 per l’edizione elettronica

    Contatti dell’autore-editore-traduttore: osimo@trad.it

    Traslitterazione

    La traslitterazione dei nomi è fatta in base alla norma ISO 9:

    â si pronuncia come ‘ia’ in ‘fiato’ /ja/

    c si pronuncia come ‘z’ in ‘zozzo’ /ts/

    č si pronuncia come ‘c’ in ‘cena’ /tɕ/

    e si pronuncia come ‘ie’ in ‘fieno’ /je/

    ë si pronuncia come ‘io’ in ‘chiodo’ /jo/

    è si pronuncia come ‘e’ in ‘lercio’ /e/

    h si pronuncia come ‘c’ nel toscano ‘laconico’ /x/

    š si pronuncia come ‘sc’ in ‘scemo’ /ʂ/

    ŝ si pronuncia come ‘sc’ in ‘esci’ /ɕː/

    û si pronuncia come ‘iu’ in ‘fiuto’ /ju/

    z si pronuncia come ‘s’ in ‘rosa’ /z/

    ž si pronuncia come ‘s’ in ‘pleasure’ /ʐ/

    Prima parte

    Introduzione

    Mio zio, il colonnello Egór Il'ìč Rostanev, andando a riposo si trasferì nel villaggio di Stepànčikovo, che aveva ricevuto in eredità, e si mise a viverci come un proprietario terriero che per tutta la vita non abbia mai messo piede fuori dai propri possedimenti. Vi sono persone che sono proprio soddisfatte di ogni cosa e che si abituano a tutto; proprio così era il carattere del colonnello a riposo. Era difficile immaginare persona più pacifica e più accomodante. Se gli avessero chiesto seriamente di portare qualcuno in spalla per un paio di verste, forse l'avrebbe anche fatto: era così buono che a volte era disposto a dare decisamente tutto alla minima richiesta e, poco ci mancava, a dividere la sua ultima camicia con chiunque glielo avesse chiesto. Aveva un aspetto imponente: era alto e slanciato e aveva guance rubizze, denti bianchi come zanna d'elefante, lunghi baffi castani, una voce forte e chiara e una risata sincera e fragorosa; parlava a scatti e in fretta. All'epoca avrà avuto quarant'anni e aveva trascorso tutta la vita, si può dire quasi da quando aveva sedici anni, negli ussari. Si era sposato ancora molto giovane, aveva amato sua moglie con passione; ma lei era morta, lasciando nel suo cuore un ricordo indelebile, di riconoscenza. Infine, dopo avere ricevuto in eredità il villaggio di Stepànčikovo, che accrebbe il suo patrimonio a seicento anime, si era ritirato dal servizio e, come è già stato detto, si era messo a vivere nel villaggio insieme con i figli: Ilûša, di otto anni (la cui nascita era costata la vita alla madre) e la figlia maggiore Sàšen'ka, una ragazza di una quindicina d'anni che, da quando era morta la madre, era stata educata in un collegio a Mosca. Ma presto la casa dello zio finì per assomigliare all'arca di Noè. Ecco come accadde.

    All'epoca in cui ricevette l'eredità e andò a riposo, rimase vedova sua madre, la generalessa Krahótkina, che si era sposata in seconde nozze con un generale sedici anni prima, quando lo zio era ancora alfiere, anche se stava già pensando lui stesso al matrimonio. La mamma per molto tempo non volle dare la propria benedizione a quel matrimonio, versò lacrime amare, lo accusò di egoismo, di mancata riconoscenza e di mancanza di rispetto; affermava che i loro possedimenti, duecentocinquanta anime, erano già appena sufficienti per mantenere la famiglia di lui (ossia per mantenere la sua mamma, con tutto lo stato maggiore di parassite, carlini, spitz, gattini siamesi ecc.) e in mezzo a questi biasimi e miagolii d'un tratto, in modo del tutto inatteso, s'era sposata lei stessa, prima del figlio, alla bella età di quarantadue anni. Comunque, anche in quell'occasione trovò modo di accusare il mio povero zio, assicurando che si sposava unicamente per trovare il rifugio per gli anni della vecchiaia che le veniva negato da quell'egoista irrispettoso di suo figlio, che aveva escogitato un'insolenza imperdonabile: mettere su casa.

    Non ho mai potuto conoscere la vera causa che indusse una persona a quanto pare assai giudiziosa come il defunto generale Krahotkin a quel matrimonio con una vedova di quarantadue anni. Bisogna supporre che sospettasse che lei fosse ricca. Altri pensavano che avesse semplicemente bisogno di una governante, poiché già allora cominciava a sentire le avvisaglie di quello sciame di malattie che lo colpirono poi, negli anni della vecchiaia. Quello che è certo è che il generale, per tutto il tempo della loro convivenza, dimostrò una profonda disistima per sua moglie e che, ogni volta che gliene si presentava l'occasione, la derideva con cattiveria. Era una persona strana. Abbastanza istruito, tutt'altro che sciocco, disprezzava decisamente tutti e ciascuno, non aveva alcuna regola, rideva di tutto e di tutti e nella vecchiaia, a causa delle malattie che lo avevano colpito in conseguenza della vita non del tutto corretta e retta che aveva condotto, si fece cattivo, insofferente e impietoso. Il lavoro al servizio dello Stato gli aveva procurato successo, ma per un non meglio definito episodio spiacevole era stato costretto a ritirarsi in modo assai poco elegante, riuscendo a malapena a evitare il processo e a non perdere il diritto alla pensione. L'episodio lo indurì del tutto. Quasi privo di mezzi, proprietario di un centinaio di anime ridotte in miseria, decise di incrociare le braccia e per tutto il resto della sua vita, ben dodici anni, non si preoccupò più del proprio sostentamento, di chi fosse a mantenerlo; in più pretendeva di vivere negli agi, di non badare a spese, tenendo perfino una carrozza. Presto perse l'uso delle gambe e per gli ultimi dieci anni rimase su una poltrona a rotelle che veniva spinta, quando era necessario, da due robusti maggiordomi che da lui non sentirono mai una parola che non fosse una delle più variegate bestemmie. Carrozza, maggiordomi e poltrone venivano tenuti a spese di quell'irrispettoso del figlio, che mandava alla madre i suoi ultimi soldi, ipotecando e reipotecando la propria tenuta, privandosi di ciò che gli era più necessario, contraendo debiti che, con ciò che possedeva allora, non avrebbe mai potuto rimborsare, e conservando tuttavia intatta la nomea di egoista e di figlio irriconoscente. Ma lo zio era fatto in modo che a un certo punto si convinse di essere egoista e perciò, per non sentirsi tale e per punirsi, mandava sempre più denaro. La generalessa era piena di rispetto per il marito. Più di tutto le piaceva che lui fosse un generale, e di potersi dunque far chiamare generalessa.

    Aveva una sua metà della casa, in cui per tutto il tempo della semiesistenza del marito se la spassava tra parassite, pettegole della città e cagnolini. Nella sua piccola città la generalessa era un personaggio importante. I pettegolezzi, gli inviti a fare da madrina a battesimo o da testimone di nozze, le partite da pochi copechi a préférence e l'unanime stima per il suo grado di generalessa la ricompensavano pienamente dei disagi domestici. Le persone più pettegole della città andavano a riferirle le ultime notizie; dappertutto le veniva sempre riservato il primo posto; prendeva, insomma, tutto quello che poteva dal suo status di generalessa. Il generale non si immischiava in tutte queste cose; però, in presenza della gente, derideva la moglie senza alcun riguardo, ponendosi, per esempio, domande come: «Ma come ho fatto a sposare una bigotta del genere?», e nessuno aveva il coraggio di contraddirlo. A poco a poco tutti i conoscenti lo abbandonarono; stare in società, però, gli era indispensabile: gli piaceva chiacchierare, discutere, gli piaceva avere sempre davanti un pubblico. Era un libero pensatore e un ateo di vecchio stampo, perciò gli piaceva dissertare anche di argomenti elevati.

    Ma il pubblico della cittadina di N* non amava gli argomenti elevati e diventava sempre più esiguo. Provarono a organizzare partite a whist e a préférence in famiglia; ma il gioco finiva con certe sfuriate, come era consuetudine per il generale, che la generalessa e le sue parassite terrorizzate accendevano candele e si mettevano a pregare, interpretavano le carte e le fave, visitavano i carcerati e distribuivano loro panini dolci, aspettando tremanti il momento, nel pomeriggio, in cui sarebbe toccato fare un'altra partita a whist o a préférence e subire a ogni errore grida, urla, imprecazioni e, poco ci mancava, perfino botte. Il generale, quando qualcosa non gli piaceva, non aveva soggezione di nessuno: si metteva a urlare come una donnicciola, imprecava come un cocchiere e a volte, dopo avere stracciato e gettato a terra le carte e scacciato i compagni di gioco, si metteva persino a piangere, indispettito e rabbioso: tutto per un fante gettato al posto del nove. Alla fine, a causa della vista debole, gli servì un lettore. Appariva così Fomà Fomìč Opiskin.

    Ammetto che è con una certa solennità che introduco questo nuovo personaggio. È senz'altro uno dei personaggi più importanti del mio racconto. Non ho intenzione di spiegare perché meriti l'attenzione del lettore: è più educato e facile lasciare la risposta al lettore stesso.

    Fomà Fomìč comparve a casa del generale come parassita per guadagnarsi il pane, né più né meno. Da dove fosse spuntato è avvolto nelle tenebre dell'ignoto. Avendo svolto apposite indagini, qualcosa sulla vita passata di questa degnissima persona l'ho comunque saputa. Si diceva innanzitutto che avesse prestato servizio non si sa dove e che avesse sofferto, naturalmente, per essersi battuto per la verità. Dicevano poi che un tempo a Mosca si fosse occupato di letteratura. In ciò non v'è nulla di strano; né la sporca ignoranza di Fomà Fomìč poteva certo essergli d'impedimento nella sua carriera letteraria. Ma di sicuro è assodato soltanto che non ebbe alcun successo e che fu quindi costretto a entrare a servizio dal generale come lettore e martire. Non v'era umiliazione che non avrebbe sopportato per un boccone di pane del generale. È vero che in seguito, dopo la morte del generale, quando Fomà del tutto inaspettatamente d'un tratto divenne un personaggio importante ed eccezionale, più di una volta cercò di convincere tutti noi che aveva acconsentito a fare il buffone soltanto per sacrificarsi generosamente in nome dell'amicizia; che il generale era il suo benefattore, che era un grand'uomo incompreso che soltanto a lui, Fomà, aveva confessato i segreti più preziosi della sua anima; che infine se lui, Fomà, su richiesta del generale aveva recitato la parte di vari animali e rappresentato altri quadri viventi, era stato soltanto per distrarre e rallegrare l'amico sofferente, spossato dalle malattie. Ma le rassicurazioni e le interpretazioni di Fomà Fomìč, tuttavia, in questo caso vanno prese con molta diffidenza; per la verità quello stesso Fomà Fomìč, che faceva il buffone, aveva un ruolo completamente diverso nella metà femminile della casa del generale. Come si fosse organizzato è difficile immaginarlo per una persona non specializzata in faccende del genere. La generalessa aveva per lui una sorta di stima mistica, non si sa perché. A poco a poco si guadagnò un'influenza incredibile su tutta la metà femminile della casa del generale, in certi casi simile all'influenza dei vari Ivàn Jakòvlevič[1]e dei saggi e profeti del genere, che nei manicomi ricevono la visita di alcune dame loro amanti. Fomà Fomìč leggeva ad alta voce libri edificanti, discorreva con lacrime espressive delle varie virtù cristiane; raccontava la propria vita e le proprie gesta; andava alla funzione del pomeriggio e anche a quella del mattino, a volte prediceva il futuro; sapeva interpretare particolarmente bene i sogni ed era un maestro nel dare giudizi sulla gente. Il generale indovinava quello che accadeva nelle camere del retro e tiranneggiava ancor più impietosamente il suo parassita. Ma il martirio di Fomà gli conferiva una stima ancora maggiore agli occhi della generalessa e di tutti coloro che vivevano nella casa.

    A un tratto tutto cambiò. Il generale morì. La sua morte fu piuttosto originale. L'ex libero pensatore e ateo ebbe una paura inverosimile. Pianse, si pentì, appese immagini sacre, chiamò uomini di chiesa. Dissero preghiere, gli diedero l'estrema unzione. Il poveraccio gridava che non voleva morire e chiese addirittura perdono a Fomà Fomìč con le lacrime agli occhi. Quest'ultima circostanza in seguito diede a Fomà Fomìč uno straordinario motivo di vanto. Comunque, subito prima della separazione della generalesca anima dal corpo, accadde questo. La figlia di primo letto della generalessa, mia zia Praskóv'â Il'ìnična, rimasta zitella e sempre vissuta a casa del generale, una delle più amate vittime del generale e a lui necessaria per tutto il tempo della sua decennale infermità per gli ininterrotti servizi che gli faceva, l'unica, con la sua remissività ingenua e accondiscendente, capace di andargli a genio, si avvicinò al suo letto versando lacrime amare per accomodare il cuscino sotto il capo del sofferente; questi però riuscì ad afferrarla per i capelli e a tirarglieli tre volte facendo quasi schiuma per la rabbia. Dieci minuti dopo morì. Diedero la notizia al colonnello, anche se la generalessa dichiarò che non voleva vederlo e che sarebbe morta piuttosto di consentirgli di andarla a trovare in un momento del genere. I funerali furono grandiosi, e naturalmente a spese del figlio irrispettoso che non volevano neanche ricevere.

    Nel villaggio in rovina di Knâzëvko, che apparteneva ad alcuni proprietari terrieri e dove il generale aveva un centinaio di anime, esiste un mausoleo in marmo bianco cosparso di iscrizioni in elogio all'intelligenza, al talento, alla bontà d'animo, alle decorazioni e al grado di generale dello scomparso. Fomà Fomìč prese parte alla stesura di quelle iscrizioni. La generalessa si intestardì a lungo rifiutandosi di perdonare il figlio disobbediente. Singhiozzando ed emettendo gridolini, circondata dalla folla delle sue parassite e dei suoi carlini, diceva che avrebbe mangiato pane secco, s'intende, «bagnato con le proprie lacrime», che sarebbe andata con un bastone a chiedere l'elemosina sotto le finestre, piuttosto di cedere alla richiesta del «disobbediente» di trasferirsi da lui a Stepànčikovo, e che a casa di lui non avrebbe mai, mai messo piede! In genere la parola «piede», utilizzata in questo senso, viene pronunciata con un effetto straordinario da certe dame. La generalessa la pronunciava da maestro, da artista... Insomma, l'eloquenza andò sprecata. Va detto che, all'epoca di queste proteste, in casa erano ormai quasi pronti a trasferirsi a Stepànčikovo. Il colonnello sfiniva tutti i suoi cavalli percorrendo quasi ogni giorno le quaranta verste che separavano Stepànčikovo dalla città, e soltanto due settimane dopo i funerali del generale ottenne il permesso di presentarsi alla genitrice offesa. Per le trattative fu impiegato Fomà Fomìč. Durante le due settimane di anticamera, questi accusò e svergognò il disobbediente per il suo comportamento «inumano», gli fece versare lacrime sincere, lo condusse quasi alla disperazione. Data ad allora l'incomprensibile e dispotica influenza, di livello inumano, che Fomà Fomìč conquistò sul mio povero zio. Fomà capì che uomo si trovava davanti e si rese subito conto che il suo ruolo di buffone era finito e che, in mancanza di persone più adatte, anche lui avrebbe potuto fare il signore. Però si volle prendere anche ciò che in precedenza gli era mancato.

    «Come vi sentireste» diceva Fomà «se vostra madre, per così dire, colpevole della vostra esistenza, prendesse un bastone e, appoggiandovisi, con le mani tremanti e disseccate dal freddo si mettesse davvero a chiedere l'elemosina? Non sarebbe mostruoso per una donna innanzitutto con il grado di generalessa e in secondo luogo benefattrice? Come vi sentireste se d'un tratto lei giungesse (per sbaglio, s'intende, ma può benissimo succedere) sotto le vostre finestre e protendesse la mano, nel momento in cui voi, figlio suo, magari in quello stesso momento vi sprofondate in un guanciale di piume e... insomma vi godete il lusso! Tremendo, tremendo! Ma più tremendo di tutto, lasciate che ve lo dica sinceramente, colonnello, più tremendo di tutto è il fatto che ora ve ne stiate davanti a me insensibile come un palo, con la bocca spalancata e sbattendo gli occhi (che è anche scortese), mentre al solo pensiero di una simile eventualità dovreste strapparvi i capelli dalla testa con tanto di radice e versare ruscelli... che dico! fiumi, laghi, mari, oceani di lacrime!..»

    Insomma, per eccesso di trasporto, Fomà finiva per dirne qualcuna di troppo. Ma il risultato della sua eloquenza era sempre questo. Naturalmente finì che la generalessa, insieme con le sue parassite, i cagnolini, Fomà Fomìč e la damigella di compagnia Perepelicyna, sua principale confidente, onorò infine Stepànčikovo del suo arrivo. Diceva che avrebbe soltanto provato a vivere con il figlio, che per il momento stava soltanto mettendo alla prova la sua deferenza. Si può immaginare la situazione del colonnello mentre veniva messa alla prova la sua deferenza! Nei primi tempi, essendo rimasta vedova da poco, la generalessa riteneva suo dovere farsi prendere dallo sconforto un paio di volte o tre alla settimana al ricordo del perduto generale; e, chissà perché, ogni volta senza eccezione ne andava di mezzo il colonnello. A volte, soprattutto quando c'era in visita qualcuno, dopo avere chiamato a sé il nipote, il piccolo Ilûša, e la quindicenne Sàšen'ka, sua nipotina, la generalessa se li metteva a sedere accanto li guardava molto a lungo con uno sguardo triste, sofferente, come bimbi che, con un papà simile, dovessero essere in punto di morte, faceva un sospiro profondo e pesante e infine versava lacrime misteriose, stando senza parlare per almeno un'ora intera. Guai al colonnello, se non era capace di capire quelle lacrime! E lui, povero, non le sapeva capire quasi mai e quasi sempre, grazie alla sua ingenuità, nemmeno a farlo apposta capitava al suo cospetto in quei momenti lacrimosi e, volente o nolente, veniva sottoposto a esame. Ma la sua deferenza non diminuiva e infine giunse ai limiti estremi. Insomma entrambi, la generalessa e Fomà Fomìč, sentivano benissimo che il temporale che aveva tuonato su di loro per tanti anni nella persona del generale Krahótkin era passato: era passato e non sarebbe più tornato. A volte la generalessa d'un tratto, da un momento all'altro, si lasciava cadere svenuta su un divano. La gente allora si metteva a correre, si dava da fare. Il colonnello restava mortificato e tremava come una foglia di tremula.

    «Figlio crudele!» gridava la generalessa riprendendosi. «Tu hai tormentato le mie viscere... mes entrailles, mes entrailles

    «Ma in che modo, mammina, ho tormentato le vostre viscere?» ribatteva timidamente il colonnello.

    «Mi hai tormentato! Mi hai tormentato! E cerca di giustificarsi, come se non bastasse! Fa lo screanzato! Figlio crudele! Muoio!..»

    Il colonnello, naturalmente, restava mortificato.

    In un modo o nell'altro, comunque, la generalessa riusciva sempre a resuscitare. Mezz'ora dopo il colonnello, dopo avere preso qualcuno per un bottone, gli spiegava:

    «Eh sì perché lei, la generalessa, vedi caro, è una grande dame! È una carissima vecchietta; ma, sai, è abituata a ogni genere di raffinatezza... io non sono alla sua altezza, tardone che non sono altro! Ora si sarà arrabbiata con me. Naturalmente è colpa mia. Io, caro, non ho ancora capito quale sia stata la mia mancanza, ma è senz'altro colpa mia...»

    La dama di compagnia Perepelicyna, creatura piuttosto in là con gli anni che aveva sempre da ridire con tutti, senza sopracciglia, con parrucchino, piccoli occhietti rapaci, labbra sottili come un filo e le mani lavate nella salamoia dei cetrioli, spesso e volentieri riteneva suo dovere fare la predica al colonnello:

    «È perché le mancate di rispetto. È perché siete egoista e allora offendete la mammina; sua eccellenza non è abituata a questo. È generalessa, mentre voi siete soltanto colonnello.»

    «Questa, mio caro, è la signorina Perepelicyna» osservava il colonnello parlando con il suo ascoltatore occasionale. «Una damigella di compagnia meravigliosa, difende la mammina con tutte le sue forze! È una ragazza rara! Non pensare che sia una delle tante parassite; lei, caro mio, è figlia di un colonnello. Eccome!»

    Queste però, come si capirà bene, in confronto a ciò che sarebbe accaduto in seguito erano ancora rose e fiori. Quella stessa generalessa, che sapeva escogitare i capricci più disparati, a sua volta s'impauriva come un topolino al cospetto del suo ex parassita. Fomà Fomìč l'aveva definitivamente stregata. Lei lo teneva in palmo di mano, sentiva con le sue orecchie, vedeva con i suoi occhi. Uno dei miei cugini di secondo grado, un altro ussaro a riposo, persona che, ancora giovane, si era già riempita di debiti all'inverosimile e che per un certo tempo abitò dallo zio, mi ha detto chiaro e tondo che era sua fermissima convinzione che la generalessa intrattenesse con Fomà Fomìč una relazione inammissibile. S'intende che io ho respinto indignato quella supposizione, eccessivamente volgare e semplicistica. No, là c'era dell'altro, ma non ho modo di narrarlo senza prima spiegare al lettore il carattere di Fomà Fomìč così come io stesso lo avrei capito in seguito.

    Immaginatevi un uomo molto insignificante, assai squallido, un rifiuto della società, non necessario a nessuno, del tutto inutile, affatto rivoltante ma incommensurabilmente pieno di sé e per di più privo di qualsiasi dote che potesse anche in minima parte giustificare quell'amor proprio morbosamente acuto. Avverto subito che Fomà Fomìč era l'incarnazione dell'amor proprio più illimitato, ma nel contempo di un amor proprio particolare, perché manifestatosi in una situazione di assoluta inettitudine e, come accade solitamente in questi casi, era un orgoglio offeso, oppresso dai pesanti insuccessi, suppurato da moltissimo tempo, che sprizzava invidia e veleno a ogni incontro, a ogni successo altrui. Inutile dire che tutto ciò era condito dalla più sfrenata permalosità, dalla più forsennata diffidenza. Può darsi che qualcuno si domandi: «Da dove viene tutto questo amor proprio? Come nasce, in una situazione, come questa, di assoluta inettitudine, in persone così squallide che già per la loro stessa posizione sociale sono costrette a riconoscere qual è il loro posto?» Come è possibile rispondere a questa domanda? Chissà, magari vi sono anche eccezioni, e a queste si riconduce il mio personaggio. Effettivamente si tratta proprio di un'eccezione alla regola, come verrà spiegato in seguito. Tuttavia lasciate che vi chieda: «Siete convinti che quelli che si sono ormai messi l'animo in pace e considerano un onore e una fortuna essere i vostri buffoni, parassiti e scrocconi, siete convinti che abbiano respinto completamente qualsiasi forma di amor proprio? E l'invidia, i pettegolezzi, le spiate, le delazioni, e i bisbigli misteriosi alle vostre spalle, vicino a voi, alla vostra tavola?.. Chissà, magari in alcuni di questi vagabondi avviliti dal destino, nei vostri buffoni o ûrodivye, l'amor proprio non soltanto non viene schiacciato dall'umiliazione ma, anzi, viene sollecitato ancor di più proprio da questa stessa umiliazione, dal fatto di essere ûrodivye o buffoni o scrocconi e dall'obbligo continuo di essere remissivi e privi di personalità. Chissà, magari questo amor proprio scandalosamente dirompente è soltanto un sentimento fallace inizialmente frainteso di dignità personale, umiliata forse la prima volta già durante l'infanzia dall'oppressione, dalla povertà, dalla sporcizia, magari calpestata già nella persona dei genitori di quello che poi diventerà un vagabondo, e sotto ai suoi occhi. Ma io ho detto che Fomà Fomìč per di più costituisce un'eccezione alla regola generale. È vero. Un tempo era stato letterato e ne era rimasto amareggiato, non aveva avuto riconoscimenti; la letteratura è capace di uccidere ben altri che Fomà Fomìč, senza che nessuno se ne accorga, s'intende. Io non lo sapevo per certo, ma bisognava supporre che Fomà Fomìč avesse avuto insuccessi anche prima dell'esperienza letteraria; forse anche in altre strade non aveva ricevuto che offese o qualcosa di ancor peggiore, anziché una ricompensa. Dapprima non lo sapevo, ma in un secondo tempo mi sono informato ed effettivamente un tempo a Mosca Fomà compose un romanzetto assai simile a quelli che venivano scritti negli anni Trenta a decine ogni giorno, come i vari La liberazione di Mosca, L'ataman Bur', Il figlio dell'amore, ovvero i russi nel 1104[2]» eccetera eccetera, che a suo tempo avevano felicemente alimentato l'umorismo del barone Brambeus. Naturalmente è passato molto tempo; ma il serpente dell'amor proprio letterario a volte morde profondamente e in modo incurabile, in particolare gli inetti e gli sciocchi. Fomà Fomìč rimase amareggiato fin dal primo passo compiuto in campo letterario e fin da

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