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I pesci scrittori
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I pesci scrittori
E-book96 pagine1 ora

I pesci scrittori

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Info su questo ebook

Questa raccolta di racconti è nata in questo periodo di quarantena e di sospensione del movimento, a causa della pandemia denominata coronavirus.

Racconto le persone incontrate nelle strade deserte, come Fabrizio e la sua donna, o Marino, un senza tetto sceso alla stazione e giunto in città. Scrivo sulla scuola ai tempi del coronavirus oppure sulle persone che tutte le mattine aspettavano di entrare in un supermercato, trasformato in una istituzione sacra o burocratica. Parlo del rapporto tra l'uomo e la natura, e sulle possibilità di questo rapporto, che secondo molti pensatori il covid 19 avrebbe dovuto portare a riscoprire.

Immagino personaggi che vivono senza respirare, penso ai tanti rider che la sera correvano per le città deserte, come se fossero padroni di un pianeta lasciato tutto a loro. Parlo della famiglia, la difficoltà di comunicare, e le grandi possibilità offerte dalla musica, ricordando un grande artista scomparso, Ezio Bosso. Racconto di personaggi scomparsi e ricomparsi, con riferimenti alla politica in chiave ironica. Scrivo di gambe che camminano senza corpo e di oceani popolati da pesci a da scrittori. E di tanto altro.
LinguaItaliano
Data di uscita18 giu 2020
ISBN9788831680653
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    Anteprima del libro

    I pesci scrittori - Daniele Caprio

    633/1941.

    Alla donna di Fabrizio

    In cit­tà, si re­spi­ra­va aria di co­ro­na­vi­rus. Era sta­ta dif­fu­sa la vo­ce di un vi­rus, chia­ma­to co­ro­na, per la sua ele­va­tez­za mo­ra­le e spi­ri­tua­le, tan­to che tut­ti ora­mai ne par­la­va­no. Per le stra­de, i gio­va­ni e gli an­zia­ni bi­sbi­glia­va­no co­ro­na­vi­rus, e al­tre fra­si più com­ples­se da un pun­to di vi­sta gram­ma­ti­ca­le, sem­pre con la pa­ro­la co­ro­na­vi­rus. Ep­pu­re, du­ran­te i gior­ni pre­ce­den­ti, tut­ti sta­va­no di mol­to zit­ti, aven­do sen­ti­to par­la­re di un gab­bia­no pro­ve­nien­te dall'Est Eu­ro­pa, che avreb­be man­gia­to chiun­que aves­se par­la­to di co­ro­ne e vi­rus.     

    In tut­ti i por­ti era sta­ta mes­sa una por­ta con la scrit­ta: qui il vi­rus non pas­sa. Quan­do ar­ri­va­va­no gli stra­nie­ri, da tut­to il mon­do, leg­ge­va­no la scrit­ta sul­la por­ta e, al­lo­ra, con­vin­ti di non chia­mar­si vi­rus, pas­sa­va­no. Nel­la stan­za de­gli psi­co­te­ra­peu­ti, pro­prio per ri­mar­ca­re l'im­por­tan­za del rap­por­to em­pa­ti­co e di vi­ci­nan­za tra pa­zien­te e me­di­co, era sta­to mes­so un car­tel­lo con la scrit­ta: a due me­tri di di­stan­za e se hai il raf­fred­do­re vai a ca­sa.

    Ora­mai, la mag­gior par­te del­la po­po­la­zio­ne mon­dia­le era rin­chiu­sa in ca­sa. Ave­va­no com­pra­to del­le por­te spes­se, ri­fat­to i mu­ri, cir­con­da­to la ca­sa di ra­mi di abe­te pre­si dal bo­sco, tron­chi dap­per­tut­to. Le cit­tà, da un pun­to di vi­sta ar­chi­tet­to­ni­co, non si ri­co­no­sce­va­no più, i su­per­mer­ca­ti era­no sta­ti svuo­ta­ti e qual­cu­no si era por­ta­to a ca­sa an­che le com­mes­se.

    Le abi­ta­zio­ni era­no di­ven­ta­te, co­sì, an­ti­vi­rus. Le per­so­ne non fa­ce­va­no mol­te at­ti­vi­tà, se non fa­re ses­so, man­gia­re e par­la­re del co­ro­na­vi­rus. Pre­sto pe­rò fi­ni­ro­no di par­la­re an­che di que­sto, per­ché le te­le­vi­sio­ni chiu­se­ro an­che lo­ro, e i gior­na­li­sti an­da­ro­no a ca­sa. Fi­nì an­che il man­gia­re, e le per­so­ne fi­ni­ro­no an­che di fa­re l'amo­re, per­ché non c'era­no più ener­gie.

    Tut­ti si af­fac­cia­va­no dal­la fi­ne­stra, nel­la spe­ran­za di ve­de­re qual­cu­no, ma nei pa­rag­gi non si ve­de­va nes­su­no. Era di con­for­to sa­pe­re che al­tri vi­ve­va­no nei din­tor­ni, e tut­ti im­ma­gi­na­va­no le azio­ni che fa­ce­va­no gli al­tri. Po­che, a di­re il ve­ro. I sol­di fi­ni­va­no, i de­tri­ti si ac­cu­mu­la­va­no, e il pen­sie­ro an­da­va ai po­li­ti­ci, i più pos­si­den­ti. Si­cu­ra­men­te, in que­sta si­tua­zio­ne emer­gen­zia­le, avreb­be­ro da­to al­la po­po­la­zio­ne par­te del­le lo­ro ric­chez­ze. E co­sì i cal­cia­to­ri e i car­di­na­li. Il pro­ble­ma, pe­rò, era che nes­su­no usci­va e quin­di, chi an­da­va a pren­de­re i sol­di dai po­li­ti­ci?

    La cit­tà era de­ser­ta. Una si­gno­ra ben­ga­le­se, di no­me Ma­ria, sta­va rien­tran­do ver­so ca­sa, in me­tro­po­li­ta­na. Ma­ria ave­va un faz­zo­let­to da­van­ti al­la boc­ca. Le po­che per­so­ne sul tre­no si do­man­da­va­no se aves­se il co­ro­na­vi­rus. Ma­ria era ram­ma­ri­ca­ta. Non guar­da­va nem­me­no le per­so­ne ne­gli oc­chi. Ep­pu­re ave­va un sem­pli­ce raf­fred­do­re. Gli oc­chi le la­cri­ma­va­no. Ave­va per­so il pro­prio com­pa­gno a quat­tro zam­pe, di quat­tor­di­ci an­ni, e non riu­sci­va a su­pe­ra­re il mo­men­to.

    Quan­do sce­se dal tre­no, vi­de un uo­mo ubria­co che po­sò la va­li­gia e co­min­ciò a cor­re­re con un cac­cia­vi­te in ma­no, ur­lan­do «ti sco­ten­no!!».

    Per la stra­da non c'era nes­su­no, se non la sua don­na che lo guar­da­va in pie­di, im­mo­bi­le;  avreb­be ac­cet­ta­to qual­sia­si co­sa dal suo uo­mo, per­ché era lui. La don­na non ave­va più pu­do­re, non era più don­na, era di­ven­ta­ta una fi­gu­ra im­ma­gi­na­ria, un gab­bia­no, una sta­tua, un co­mo­di­no. L'uo­mo, Fa­bri­zio, con­ti­nua­va a cor­re­re e ur­la­re all'aria che avreb­be sco­ten­na­to qual­cu­no.

    Tut­ti cre­de­va­no che fos­se ve­nu­to a uc­ci­de­re il co­ro­na­vi­rus. Non ave­va un gran bell'aspet­to. Era ubria­co, due den­ti in boc­ca, non si pet­ti­na­va da me­si, ave­va del­le va­li­gie pie­ne, e bar­col­la­va. Si fer­ma­va e poi co­min­cia­va a ur­la­re, pro­nun­cian­do fra­si sen­za sen­so. La sua don­na si li­mi­ta­va a di­re dai  Fa­bri­zio Co­ro­na. Vo­le­va che si fer­mas­se, ma al­lo stes­so tem­po avreb­be ac­con­sen­ti­to a qua­lun­que ge­sto, pa­ro­la, del suo uo­mo. In­fat­ti, pen­sa­va la don­na, il suo uo­mo era ve­nu­to dal­la mon­ta­gna ap­po­sta per li­be­ra­re la cit­tà dal co­ro­na­vi­rus, espo­nen­do se stes­so al­la mor­te. An­da­va si­cu­ra­men­te ri­com­pen­sa­to e, se do­ve­va pa­ga­re qual­co­sa con la giu­sti­zia, me­ri­ta­va  un at­to di cle­men­za. Lo me­ri­ta­va. 

    I cit­ta­di­ni ‒ con il can­noc­chia­le per non espor­si all'aria ‒ os­ser­va­va­no la sce­na che si svol­ge­va so­pra i lo­ro oc­chi. L'uo­mo, in­fat­ti, co­me i gab­bia­ni, cam­mi­na­va sull'aria, e si pen­sa­va aves­se dei po­te­ri par­ti­co­la­ri. La don­na, in­ve­ce, sta­va a ter­ra e lo guar­da­va, lo ado­ra­va, lo ama­va al­la fol­lia, an­che se aves­se pre­so il co­ro­na­vi­rus avreb­be con­ti­nua­to a sta­re al suo fian­co. 

    Al­cu­ni cit­ta­di­ni era­no con­tra­ri al­la cat­tu­ra del vi­rus. In fon­do, era un es­se­re vi­ven­te. Po­te­va sof­fri­re di qual­che cri­si di iden­ti­tà e co­sì cer­ca­re dei cor­pi do­ve an­da­re.

    Fi­nal­men­te Fa­bri­zio cat­tu­rò il vi­rus. Al­me­no co­sì dis­se. Vi­de un gab­bia­no po­sa­to sul pa­laz­zo co­mu­na­le, lan­ciò il cac­cia­vi­te e il gab­bia­no mo­rì. Tut­ti i cit­ta­di­ni si ri­ver­sa­ro­no sul­le stra­de, ades­so non ave­va­no più pau­ra. Nes­su­no di­ce­va una pa­ro­la. Fa­bri­zio co­min­ciò a ur­la­re «non di­te nien­te? Ave­te per­so la pa­ro­la? Ve­ni­te qui vi sco­ten­no!», e ri­de­va ti­ran­do fuo­ri i po­chi den­ti ca­ria­ti.

    La fu­ria di Fa­bri­zio, ades­so, si era sca­te­na­ta ver­so le per­so­ne, non si ca­pi­va per­ché. La sua don­na sta­va zit­ta co­me sem­pre, e ap­pro­va­va quel­lo che fa­ce­va. «Dai Fa­bri­zio, cal­ma­ti», e lo guar­da­va in ma­nie­ra fis­sa, spe­ran­do che per una vol­ta nel­la vi­ta aves­se un'at­ten­zio­ne nei suoi con­fron­ti, le chie­des­se co­me sta­va, se ave­va fa­me, se vo­le­va ta­gliar­si i ca­pel­li per una vol­ta. I ca­pel­li, in­fat­ti, si era­no ap­pic­ci­ca­ti al­la cu­te del­la te­sta e era­no di­ven­ta­ti tut­ti bian­chi. La don­na ave­va ap­pe­na 38 an­ni.

    Una bam­bi­na fe­ce no­ta­re ai cit­ta­di­ni che la don­na an­da­va aiu­ta­ta e sal­va­ta. I gran­di, pe­rò, fer­ma­ro­no la bam­bi­na, per­ché avreb­be po­tu­to con­trar­re il co­ro­na­vi­rus. La bam­bi­na co­min­ciò a pian­ge­re e a di­re che il vi­rus lo ave­va vi­sto en­tra­re nel­la va­li­gia.

    Ar­ri­vò an­che Fa­bri­zio, che dis­se: «se non mi ve­dre­te per due set­ti­ma­ne vuol di­re che ci han­no chiu­si». «Al­lo­ra», pen­sò la bam­bi­na, «se noi del­le po­po­la­zio­ni ci chiu­dia­mo in ca­sa per il co­ro­na­vi­rus, quel­li che stan­no nel­le car­ce­ri de­vo­no es­se­re li­be­ra­ti tut­ti? Sol­tan­to co­sì pos­so­no evi­ta­re il con­ta­gio». Ma Fa­bri­zio or­mai era rien­tra­to. 

    Spa­ri­to il vi­rus, la vi­ta di sem­pre ri­pre­se. Tut­ti era­no am­mu­to­li­ti, nes­su­no di­ce­va una pa­ro­la, e tan­ti ave­va­no no­stal­gia del co­ro­na­vi­rus, avreb­be­ro vo­lu­to un suo ri­tor­no, per­ché co­sì ci sa­reb­be sta­to di

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