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Le armi dei vinti
Le armi dei vinti
Le armi dei vinti
E-book123 pagine1 ora

Le armi dei vinti

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Info su questo ebook

Dalla cattedrale di Santiago di Compostela è misteriosamente scomparso un tesoro, il Codex Calixtinus, pregiato libro quasi millenario. Molto strano questo furto, quasi incomprensibile, dal momento che un simile volume è talmente prezioso da non poter avere alcun mercato.
A meno che esso non contenga, magari, un segreto.
C’è qualcosa infatti che lega Hector, il principe troiano che solo si oppose per dieci anni alle schiere degli eroi Achei, e Hruodlandus, il paladino cantato dai grandi poeti del Rinascimento, il prediletto di quel Karolus che fu capace di mettere ai propri piedi tutta l’Europa. Qualcosa che in un passato ormai lontano ha significato grande potere, e che può significarlo di nuovo.
Per risolvere il caso, l’ispettore Juan Riveiro ha una carta da giocarsi: la competenza e l’intuizione di suo fratello, appassionato e irriverente professore universitario di Salamanca. Jorge Riveiro, affidandosi alla sua curiosità meticolosa e un po’ scanzonata, si mette sulle tracce del libro. Affrontando anche pagine amare del proprio passato personale, presto si addentrerà in un enigma nascosto in quella piega un po’ oscura dove la storia va a fondersi con il mito.
Da un fatto di cronaca recente, prende ispirazione un romanzo di grande suggestione, che, alternando i toni lirici della grande epica e le intonazioni quotidiane, intesse i fili delicati delle storie di due dei più leggendari guerrieri della letteratura con lo spaccato di un contemporaneo vivace e avvolgente.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2020
ISBN9788832927054
Le armi dei vinti

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    Anteprima del libro

    Le armi dei vinti - Stefano Motta

    1974

    1

    Piana di Wilusha, Troade

    1180 a.C.

    No, diceva con gli occhi ai suoi, mentre i piedi volavano inseguendolo sulle rocce, lui è mio !

    No! diceva l’altro, fuggendo e scuotendo la testa verso i suoi, sulle mura, mentre il fiato gli mancava, gli occhi umidi di sudore e lacrime.

    Era rimasto da solo nella spianata, ad affrontarlo, per permettere ai suoi uomini di ritirarsi dentro le mura, al sicuro.

    E poi non ce l’aveva fatta, ed era fuggito, il sapore ferroso della paura in bocca, per la prima volta in vita sua.

    Fu l’inseguitore il primo a fermarsi, appoggiato alla lunga asta di faggio, lo scudo ancora imbracciato, gli occhi beffardi.

    Quando se ne accorse, anche Hector rallentò e si volse indietro, stanchezza mista a fierezza.

    Non morirò con una lancia nella schiena. Se vuoi la mia vita, vieni a prendertela, ma guardandomi negli occhi. Se ci riesci.

    Il giavellotto dell’altro gli strozzò le parole in gola: si chinò rapido a schivare il colpo partito prima di quanto se lo aspettasse. Stringeva i pugni così forte che le nocche erano diventate bianche. Anche i denti serrati, e ancora quel sapore di sangue e rabbia in bocca. Lasciò che le ginocchia piegate si tendessero come un arco, roteò il braccio all’indietro e poi scattò, il mantello disegnò un’ampia curva, si gonfiò, raccolse l’aria e quasi la soffiò dietro al giavellotto: l’asta gli uscì di tra le dita della destra aperte e volò, volò, taglio l’aria con un sibilo acuto e volò. Le sarebbe andato dietro anche lui, se solo fosse servito a spingerla con più forza. Durò un attimo: la punta di bronzo colpì lo scudo dell’altro e rimbalzò.

    Hector ritrasse la destra e sfoderò la lunga spada che portava appesa al fianco. Fu una frazione sciocca di tempo, un’esitazione, forse, che permise all’altro di scartare in avanti, raccogliere l’asta e brandirla a difesa.

    Prima che Hector potesse affondare la spada nel petto dell’avversario, la punta di bronzo della lancia, deformata dall’impatto con il cuoio e il legno dello scudo, gli squarciò la carne alla base del collo, così violenta e offensiva nel suo essere tozza e accartocciata. Non una ferita, una penetrazione impietosa e devastante.

    Cosa la spingi più in fondo, Achilleus? Un fondo non c’è.

    Il sangue gorgogliò in gola a Hector, gli occhi verso le mura della sua città, nelle orecchie la voce rotta di pianto di sua moglie Andromàke che gli diceva di non sfidare quell’uomo.

    Non sono morto fuggendo.

    2

    Ardre , isola di Gotland

    inverno del 770

    Voglio tre spade, disse l’ospite inatteso, la sua figura possente che oscurava la luce della stretta porta d’entrata alla fucina. Sulle spalle una folta pelliccia di martora, il tono di voce tagliente di chi non era abituato a chiedere se non una volta sola, e una sola era la risposta possibile. Il calpestio di passi e il tintinnio di armi fuori dalla cupa officina dicevano che non era venuto solo.

    Il vecchio stava seduto davanti a una massiccia incudine, faticosamente appoggiato a essa, le braccia nude nonostante il freddo, grosse come le cosce di un ragazzo. Le gambe molli, magre sotto il grembiale di pelle, paralizzate, gli attrezzi posati sull’enorme ceppo di quercia su cui stava l’incudine.

    Mi hanno parlato di voi, fabbro, come del migliore, gli disse.

    Le vostre parole mi lusingano, ma chi vi ha fatto il mio nome non vi ha detto tutta la verità: non ho più la forza. Ormai forgio solo ferri di cavallo e coltelli per i macellai, quando mi va bene.

    Come se nemmeno l’avesse udito, il cavaliere aprì sull’incudine il proprio sacco e ne estrasse una piccola borsa di pelle e un involto di stracci, all’apparenza senza significato. Come devo chiamarvi, fabbro?

    La gente del posto mi chiama Völundr.

    "Bene. Voglio tre spade, mastro Völundr, e voglio che siate voi a forgiarle per me. Non credo alla magia, non credo ai sortilegi: non siedo così in alto da aver dimenticato i segreti della terra, e l’abilità delle mani di un artigiano. Voglio il sapere che le vostre mani nascondono. I miei uomini potranno aiutarvi con la fucina: noi ci accamperemo qui fuori finché non avrete finito."

    Le vostre mani mi hanno portato qualcosa, però. O sbaglio?

    Non sbagliate, mastro. Svolse con lentezza sospirata gli stracci che aveva appoggiato sul ferro freddo e nero dell’incudine. Ne emerse quel che rimaneva di una corta spada, scura, dai riflessi quasi verdi. Non aveva codolo: quattro piccoli fori alla base della lama dimostravano che era collegata a quella che un tempo era stata la sua impugnatura da un sistema di rivetti. Subito sopra, la lama corta si allargava come fosse una foglia: l’anima centrale in rilievo, come una lisca di pesce, un pesce letale, i margini sottili come petali un tempo affilatissimi e ora smangiati come orli sbeccati di un orcio.

    Voglio che usiate questa lama.

    Il vecchio lo guardò in silenzio. Gli lasciò il tempo perché si risolvesse a dire anche altre parole, che doveva necessariamente dire ma che erano evidentemente difficili da tirar fuori.

    È una lama molto vecchia, di bronzo, continuò, senza abbandonare la reticenza.

    Questo il vecchio lo aveva visto. Erano constatazioni, non informazioni.

    Ancora silenzio.

    Voglio che in ognuna delle tre lame che forgerete ci sia questa spada.

    Sta bene.

    Non ho finito.

    Perdonate.

    Il cavaliere sciolse il laccetto di cuoio che chiudeva la piccola bisaccia e ne trasse, uno a uno, una serie di oggetti disparati: un dente, una sacchetta che conteneva un piccolo brandello di lino, una ciocca di capelli, un altro frammento metallico, non di bronzo ma di ferro, più che altro una grossa scheggia.

    Voglio che questi oggetti siano nascosti nell’elsa delle tre spade, nell’ordine che troverete scritto su questo foglio. Appoggiò accanto agli altri oggetti un cartiglio, e lo fermò sull’incudine con un grosso anello che si sfilò dall’anulare destro. Il rosso delle braci della fucina si rifletté nella gemma rubescente che emergeva dal grosso castone, quasi infiammandola.

    Questo sarà la vostra ricompensa, disse al fabbro.

    Ho bisogno di sei giorni, disse l’artigiano.

    Ne avete tre.

    Come devo chiamarvi, sire?

    I miei uomini mi chiamano Karolus.

    3

    Santiago di Compostela, Galizia

    6 luglio 2011

    ¿Diga?

    Don José?

    Chi parla?

    Don José, mi scusi per l’ora tarda, sono Enrique, dall’archivio.

    Che ci fai ancora lì? Sono le nove e mezza.

    Ho cercato dappertutto, don José, dappertutto. Non c’è.

    Enrique, spiegati bene: chi è sparito?

    "Non chi, cosa: il Codex! Non trovo più il Codex."

    Il fondo medievale della biblioteca di Santiago de Compostela custodisce svariate centinaia di codices, ma quel codex era il Codex. Maiuscolo, nessun bisogno di aggettivi, chiarimenti, ulteriori specificazioni: duecentoventicinque pagine di pergamena, scritte sul recto e sul verso, suddivise in cinque libri e due appendici, aperte da una lettera di uno che si dice papa Callisto II, catalogato sotto la segnatura CF-13. Il Codex Calixtinus è il codex. Ed era sparito.

    Don José Luis García Rodríguez, decano e archivista della cattedrale, abbandonò sul tavolino il libro delle Ore sul quale stava recitando Compieta, prima di coricarsi, insolitamente presto rispetto al solito, stanchissimo alla fine di una giornata intensa. Ora capiva che il tarlo continuo che lo aveva roso, spossandolo per l’intero pomeriggio e a cui non era riuscito a dare una ragione, il particolare che lo aveva messo in allarme, che lui aveva rimosso e che adesso non riusciva a far ritornare a galla, aveva a che fare col Codex.

    Non toccare niente, arrivo.

    Non toccare niente. Enrique aveva messo le mani dappertutto, rivoltato senza troppe cerimonie incunaboli e volumi membranacei, chiamato a collaborare, con meno cerimonie ancora, svariati santi del calendario cristiano, masticato a mezza voce parole irripetibili tra quegli scrigni della cristianità. Il Codex non c’era.

    La polizia arrivò alle ventidue, con la stessa ottusa domanda di don José: Ha toccato qualcosa?

    Certo che ho toccato qualcosa, ho toccato tutto, ho guardato ovunque, non so più nemmeno dire dove vadano rimessi i volumi che trovate sui tavoli!

    Enrique, con calma, gli disse don José, raccontaci cos’hai visto.

    Sono passato come faccio di solito a spegnere le luci sui tavoli di consultazione, a riporre negli scaffali i volumi lasciati in deposito, a riordinare le sedie e a controllare che tutto fosse a posto, e c’era qualcosa che non andava. Non è che controlli ogni giorno la cassaforte: se nessuno ha chiesto di aprirla do per scontato che non manchi nulla. Non è che sia un maniaco compulsivo del controllo, cioè, se ho chiuso a chiave una porta non è che poi ricontrollo la maniglia per controllare se è chiusa davvero e…

    Enrique, non preoccuparti, non devi scusarti, lo rassicurò don

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