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L'ora del dragone
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L'ora del dragone
E-book293 pagine4 ore

L'ora del dragone

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Info su questo ebook

Comandante dell'esercito di Aquilonia, Conan, imprigionato dal Re Numedide geloso dei suoi successi, riesce a fuggire e, pastosi a capo di una rivolta di ufficiali, succede al Re. Persa e riconquistata la corona, questa avventura lo vede saldamente sul trono di Aquilonia, che sta vivendo un periodo di pace e prosperità. Ma le oscure forze di una magia antichissima sono all'opera contro di lui nella confinante terra di Nemedia, e Conan dovrà fare ricorso a tutta la sua forza per avere ragione di un nemico estremamente pericoloso. Leggendo le storie di Conan, si ha l'impressione di vederlo balzare vivo dalle pagine: Howard è un narratore di razza, e nel campo della Fantasy pochissimi autori possono stargli alla pari.

Robert E. Howard

nacque nel 1906 in Texas e concluse la sua brevissima vita a Cross Plains, nel 1936. Dotato di una vena creativa inesauribile, scrisse non solo racconti fantasy, ma anche commedie, gialli, racconti storici e d’avventura. Accanto al ciclo di Conan, della sua vasta produzione va ricordato almeno quello di Solomon Kane (già pubblicato dalla Newton Compton).
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2012
ISBN9788854142121
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    Anteprima del libro

    L'ora del dragone - Robert E. Howard

    editori

    1. Sorgi, dormiente!

    Le fiamme dei lunghi ceri tremolarono, facendo vacillare le ombre nere sulle pareti, e gli alti drappi di velluto ondeggiarono. Ma nella stanza non c’era un alito di vento. Cerano quattro uomini, fermi ai lati del tavolo d’ebano che reggeva il sarcofago verde rilucente come giada scolpita, e ciascuno teneva alta nella mano destra una strana candela nera che bruciava con una luce sinistra di colore verde sporco. Fuori era notte fonda, e un vento cupo gemeva nel buio fra gli alberi.

    All’interno, nel silenzio e tra le ombre, quattro paia di occhi ardenti fissavano con intensità la grande arca funeraria e i geroglifici occulti che serpeggiavano sulla sua superficie e che il tremolio della luce restituiva a una parvenza di vita e di movimento. Dei quattro, colui che stava ai piedi del sarcofago vi si chinò sopra e mosse la candela come per scrivere, tracciando un simbolo mistico nell’aria. Posò quindi la candela in un nero candeliere d’oro, mormorò le parole di un incantesimo che gli altri non riuscirono ad afferrare, e affondò una grande mano bianca nella tunica bordata di pelliccia che gli scendeva fino ai piedi. Quando la ritrasse, teneva nel palmo qualcosa che sembrava una sfera di fuoco vivo.

    A quella vista, gli altri trassero un profondo respiro; dal lato opposto del tavolo, l’uomo vigoroso e di carnagione bruna sussurrò: — Il Cuore di Ahriman! — ma un rapido gesto della mano lo riportò subito al silenzio. Lontano, lugubre, si alzò l’ululato di un cane, e un passo furtivo si accostò alla porta, sprangata e chiusa a catenaccio. Ma nessuno distolse lo sguardo dal sarcofago, sul quale l’uomo dalla tunica bordata di pelliccia faceva passare la grande gemma fiammeggiante, mentre mormorava un incantesimo che era già antico quando Atlantide fu inghiottita dalle acque.

    Lo splendore della gemma abbagliava gli occhi e nessuno era certo di cosa stesse realmente osservando; ma a un tratto il coperchio istoriato del sarcofago si spalancò con un rumore di pietra che si frantuma, come se dal di dentro l’avesse divelto una spinta irresistibile. I quattro si chinarono impazienti di spiarne l’interno, e così ne poterono scorgere l’occupante: una forma confusa, vizza e rinsecchita, avvolta da cadenti fasciature di lino che lasciavano intravvedere membra prosciugate di ogni linfa vitale, scure come legno marcio.

    «Riportate in vita quella cosa?», mormorò l’uomo alla destra, basso di statura e bruno anch’egli di pelle. Emise una secca risata di sarcasmo. «Va in polvere solo a toccarla. Che sciocchezza...».

    «Sssh!», fu svelto a imporgli l’uomo che reggeva il gioiello. Aveva le pupille dilatate; la fronte ampia e pallida era madida di sudore. Si chinò ancora di più sul sarcofago e depose la sfera risplendente sul petto della mummia, badando bene di non toccarla con la mano. Poi si tirò indietro a osservare, con una fissità che incuteva timore, e mosse le labbra in una muta invocazione.

    Sul petto appassito e senza vita della mummia sembrava ardere e guizzare un globo di fuoco vivo: gli osservatori respiravano rumorosamente, a denti stretti, perché vedevano svolgersi sotto i propri occhi una metamorfosi allucinante. La forma rinsecchita contenuta nel sarcofago si espandeva, cresceva di dimensione, si allungava. Le fasciature si tesero spezzandosi, e ne rimase solo della polvere grigia. Le membra inaridite ripresero la consistenza originaria, e si raddrizzarono. Anche il colore della pelle perse ogni sfumatura brunastra.

    «Per Mitra!», sussurrò l’uomo alla sinistra, biondo e alto di statura. «Non era certamente stygiano. Dunque avevi ragione, almeno su questo!».

    Ancora una volta, una mano che tremava per la tensione, ammonì di conservare il silenzio. Lontano, il cane non ululava più. Guaiva come per un sogno spaventoso, ma poi anche quell’ultimo rumore cadde bruscamente. Nell’assoluto silenzio, l’uomo dai capelli biondi udiva chiaramente la porta massiccia gemere sui cardini, come se qualcosa la stesse spingendo con forza dall’esterno. Accennò a voltarsi, la mano sull’elsa della spada, ma l’uomo dalla tunica d’ermellino fu pronto a fermarlo con un sibilo: «Non muoverti! Non spezzare il nostro cerchio! E, se ti è cara la vita, non ti avvicinare alla porta!».

    L’altro scosse le spalle e si voltò di nuovo, ma si arrestò a metà del movimento, sgranando gli occhi. Il sarcofago di giada conteneva adesso un uomo vivo: un uomo alto e robusto, nudo, bianco di pelle, nero di capelli e di barba. Stava immobile, e gli occhi, spalancati, erano vuoti e privi di conoscenza come quelli di un neonato. Sul petto gli ardeva il grande gioiello sfavillante.

    L’uomo in ermellino ebbe una scossa, come il rilassarsi di un’estrema tensione. «Per Ishtar!», ansimò. «È Xaltotun! Ed è vivo! Valerio! Tarasco! Amalric! Avete visto? Non volevate credermi, ma io ho mantenuto la promessa! Questa notte siamo andati a un passo dalle porte dell’inferno spalancate da noi medesimi, e le forme delle tenebre si sono addensate intorno a noi. Sì, esse lo hanno seguito fin sulla soglia, ma noi abbiamo ridato la vita al Grande Incantatore!».

    «E ci siamo dannati l’anima alle punizioni eterne, senza dubbio», mormorò l’uomo di bassa statura, Tarasco.

    Valerio, l’uomo dai capelli biondi, rise. «Quale punizione è più insopportabile della vita stessa? E ad essa siamo già condannati tutti con la nascita. Ma poi, via, chi non venderebbe la sua miserabile anima, in cambio di un trono?»

    «Oraste», chiamò l’uomo dall’aspetto vigoroso, rivolto al Mago. «Il suo sguardo non dà segni di riconoscimento.»

    «È rimasto molto tempo tra i morti, ed è nelle condizioni di chi è svegliato all’improvviso. La sua mente è vuota per il lungo sonno. Sonno? No, no, era morto, non addormentato. Abbiamo riportato qui il suo spirito dal vuoto e dagli abissi della notte e dell’oblio. Ma lasciate che gli parli».

    Si chinò sul bordo del sarcofago e, fissando lo sguardo negli occhi neri e spalancati dell’uomo, mormorò lentamente: «Dèstati, Xaltotun!».

    Le labbra dell’altro si mossero in modo automatico. «Xaltotun!», ripeté in un sussurro esitante.

    «Tu sei Xaltotun!», esclamò Oraste, come se cercasse di imprimergli in mente quel concetto con l’ipnosi. «Tu sei Xaltotun di Python, nell’impero di Acheron».

    Un barlume di conoscenza ondeggiò negli occhi scuri. «Fui Xaltotun», sussurrò, «ma ora sono morto».

    «No! Tu sei ancora Xaltotun!», gridò Oraste. «Tu non sei morto, sei vivo!».

    «Io sono Xaltotun», proseguì il mormorio sovrannaturale, «ma Xaltotun morì. Morì nella sua casa di Khemi, in Stygia».

    «E i sacerdoti che ti avvelenarono hanno mummificato il tuo corpo con le loro Arti Occulte, lasciando ogni organo intatto», esclamò Oraste. «Ma ora sei di nuovo vivo! Il Cuore di Ahriman ti ha ridato la vita ed ha richiamato il tuo spirito dallo spazio e dall’eternità».

    «Il Cuore di Ahriman». La fiamma dei ricordi stava riprendendo a divampare. «Me lo hanno rubato i barbari!».

    «Incomincia a ricordare», mormorò Oraste ai compagni. «Toglietelo dal feretro».

    Gli altri obbedirono esitanti, come se provassero riluttanza a toccare quell’uomo ricreato da loro, e neppure si sentirono più tranquilli quando ne toccarono la carne soda e muscolosa, pulsante di sangue e di vita. Tuttavia lo sollevarono e lo deposero sul tavolo; Oraste lo vestì di una tunica di velluto nero di foggia insolita, ricamata di stelle e mezzelune dorate, e gli legò alle tempie un nastro intessuto nell’oro, fermando così i capelli neri e ondulati, lunghi fino alle spalle. L’uomo li lasciò fare e non disse nulla, neppure quando lo sollevarono di nuovo e lo fecero accomodare su un seggio a forma di trono, con un alto schienale d’ebano, larghi braccioli d’argento e piedi d’oro a zampa di leone. Rimase lì seduto, immobile, mentre la comprensione si faceva strada lentamente nei suoi occhi neri, rendendoli straordinariamente profondi e luminosi, come una luce magica che risalisse a galla nella notte dopo essere rimasta a lungo sommersa nel fondo di una sorgente di tenebra.

    Oraste gettò un’occhiata furtiva verso i compagni, rimasti a guardare lo strano ospite e morbosamente affascinati dalla sua presenza. I loro nervi di ferro avevano superato un’ordalia che avrebbe reso pazzi anche gli uomini più coraggiosi; non erano certo dei pavidi, quei suoi compagni di congiura! In loro, l’ardimento si era rivelato pari all’ambizione sfrenata e all’illimitata capacità per il male.

    Tornò a prestare attenzione all’uomo sul seggio d’ebano. E questi finalmente parlò.

    «Ora ricordo», disse con voce forte e sonora, parlando nemediano con un accento inconsueto, arcaico. «Sono Xaltotun, che fu Gran Sacerdote di Set nella città di Python, Capitale di Acheron. Il Cuore di Ahriman. Ho sognato di averlo ritrovato: dov’è?».

    Oraste glielo posò sulla mano, ed egli inalò a fondo, rimirando la terribile gemma che gli ardeva nella stretta.

    «Mi fu rubato molto tempo fa», disse. «È il rosso cuore della notte, potente per salvare, potente per dannare. Mi venne da lontano, da un passato immemorabile. Finché fu mio, nessuno potè opporsi alla mia forza. Ma mi fu rubato, e Acheron cadde: fu allora che riparai esule nella tenebrosa Stygia. Ricordo molte cose; molte ne ho dimenticate. Sono stato in lande remote, ho attraversato la caligine del vuoto e dell’abisso e del nero golfo. In che anno mi trovo?»

    «L’Anno del Leone volge al termine», gli rispose Oraste, «e sono trascorsi tremila anni dal crollo di Acheron.»

    «Tremila anni!», mormorò l’altro. «Un tempo così lungo! Ma tu chi sei?»

    «Mi chiamo Oraste, e fui sacerdote di Mitra. Quest’uomo è Amalric, Barone di Tor; quest’altro è Tarasco, fratello minore del Re di Nemedia; e infine questi è Valerio, legittimo erede del trono di Aquilonia».

    «Perché avete voluto ridarmi la vita?», chiese Xaltotun. «Cosa avete intenzione di chiedermi?».

    Ormai era completamente in sé, e i suoi occhi taglienti rispecchiavano una mente acuta, che niente più offuscava. Nei suoi modi non c’era esitazione né incertezza. Era venuto direttamente al punto, sapendo che nessuno dà niente per niente. E Oraste gli parlò con uguale decisione.

    «Questa notte abbiamo liberato la tua anima spalancando le porte dell'inferno, e l’abbiamo ridata al tuo corpo perché ci occorre il tuo aiuto. Vogliamo far salire Tarasco sul trono di Nemedia, e vogliamo far conquistare a Valerio la corona di Aquilonia. Tu puoi aiutarci con la tua magia».

    Xaltotun non indagò oltre. La sua mente tortuosa e piena di malizia seguiva già un altro filo di pensieri.

    «Tu stesso devi conoscere a fondo le Arti Magiche, Oraste, per avermi ridato la vita. Ma come fa un sacerdote di Mitra a conoscere il Cuore di Ahriman e l'Incantesimo di Skelos?»

    «Non sono più sacerdote di Mitra», gli rispose Oraste. «Fui cacciato dall'Ordine perché praticavo le Arti Magiche. Se non ci fosse stato Amalric, mi avrebbero condannato al rogo per stregoneria. Ma in seguito alla mia espulsione potei dedicarmi a quegli studi in piena libertà. Viaggiai fino a Zamora, a Vendhya, nella Stygia e nelle giungle stregate del Khitai. Studiai i libri di Skelos dalle legature di ferro, poi parlai con creature invisibili che vivono in pozzi tenebrosi, e con forme senza volto in giungle fetide e nere. Riuscii a scorgere il tuo sarcofago in una cripta sorvegliata da esseri demoniaci, nei sotterranei del cupo tempio di Set dalle ciclopiche mura, pel cuore della Stygia, e appresi le Arti che potevano ridare vita al tuo corpo mummificato. Da manoscritti che cadevano a pezzi venni a conoscenza dell’esistenza del Cuore di Ahriman, e allora per un anno ne cercai il nascondiglio. Poi, finalmente, lo rintracciai».

    «E perché mai ti sei dato pena di riportarmi in vita?», chiese Xaltotun, puntando lo sguardo penetrante sul sacerdote. «Avresti potuto usare a tuo favore i segreti del Cuore, per aumentare i tuoi poteri. Perché non l’hai fatto?»

    «Non l’ho fatto perché nessuno più conosce i segreti del Cuore », rispose Oraste. «Le Arti che ne fanno scaturire tutta la potenza sono morte persino nelle leggende, ormai. Sapevo che può ridare la vita, ma ne ignoravo le qualità più riposte, e quindi l’ho usato esclusivamente per farti resuscitare. Noi desideriamo che tu usi a nostro vantaggio le tue conoscenze, e per quanto riguarda il Cuore, tu solo ne conosci i terribili segreti».

    Xaltotun scosse il capo, fissando con aria meditabonda il gioiello fiammeggiante.

    «La mia conoscenza delle Arti Magiche è superiore a quella di tutti gli altri mortali», disse, «ma neanch’io conosco fino in fondo le capacità della Gemma. Nei miei antichi giorni non osavo invocarne i poteri e mi limitavo a tenerla nascosta perché nessuno potesse usarla contro di me. Poi mi fu rubata, e nelle mani di un ignorante sciamano barbaro sconfìsse la mia grande magia. Quindi scomparve, e gli invidiosi sacerdoti di Stygia mi avvelenarono prima che potessi scoprirne il nascondiglio».

    «Era nascosta in una caverna sotto il Tempio di Mitra, a Tarantia», disse Oraste. «Lo scoprii con l’inganno dopo avere rintracciato i tuoi resti nel Tempio sotterraneo di Set. Un pugno di ladri zamoriani, protetti da incantesimi che ho imparato in luoghi che è pericoloso perfino nominare, hanno rubato il tuo sarcofago dagli artigli degli esseri che lo sorvegliavano nel buio, e l’hanno portato in questa città, a dorso di cammello, su nave e sui carri. Gli stessi ladn, o meglio quelli sopravvissuti alla spaventosa ricerca, rubarono il Cuore di Ahriman dalla caverna stregata nei sotterranei del Tempio di Mitra, e poco mancò che tutte le abilità umane e tutti gli incantesimi fossero insufficienti. Uno di quei ladri riuscì a sopravvivere tanto da raggiungermi e da consegnarmi il gioiello, prima di morire mormorando parole sconnesse circa gli orrori visti in quella cripta maledetta. Nessuno è fedele alla consegna quanto un ladro zamoriano; nonostante ogni mio incantesimo, nessun altro sarebbe stato capace di rubare il Cuore dal suo nero nascondiglio guardato da dèmoni, dove era rimasto fin dalla caduta di Acheron, tremila anni fa».

    Xaltotun sollevò la testa leonina e fissò lontano nel vuoto, come a misurare i secoli perduti.

    «Tremila anni!», mormorò. «Per Set! Dimmi cos’è successo nel mondo».

    «I barbari che distrussero la gloria di Acheron hanno fondato nuovi regni», spiegò Oraste. «Dove prima si stendeva quel grande impero, sono cresciute le potenze dì Aquilonia, Nemedia, Argos, così chiamate dal nome delle tribù che le fondarono in origine. Gli antichi regni occidentali di Ophir, Corinthya e Koth, prima vassalli dei Re di Acheron, quando cadde l’impero riacquistarono l’indipendenza».

    «E cosa ne è stato delle genti di Acheron?», volle sapere Xaltotun, e spiegò: «Quando fuggii verso la Stygia, Python era un cumulo di rovine; ogni altra città dalle torri purpuree di Acheron era bagnata di sangue, calpestata dai piedi dei barbari».

    «Nelle montagne sopravvivono ancora piccole tribù che si vantano di discendere da Acheron. Ma su tutti gli altri passò la grande ondata dei miei antenati barbari e li spazzò via. Troppo a lungo avevano sofferto la crudeltà dei Re di Acheron».

    Sulle labbra dell’uomo di Python comparve un sorriso truce e terribile.

    «Sì! Molti barbari, uomini e donne, morirono urlando sull’altare, uccisi dalla mia mano. E vedevo le loro teste accatastarsi a piramide nella grande piazza di Python, quando i Re tornavano dall’occidente ricchi di bottino e di prigionieri nudi incatenati al carro».

    «Sì, e nel giorno della resa dei conti, la spada fu usata senza risparmio. Così finì Acheron, e le torri purpuree di Python divennero il mito di un’epoca remota. Ma i giovani regni sorti sulle rovine imperiali si fecero sempre più ricchi. Ed ora ti abbiamo richiamato in vita per aiutarci a conquistarli. Non sono regni lussureggianti e meravigliosi come l’antico Acheron, ma anch’essi sono ricchi e potenti, e vale la pena di lottare per impossessarsene. Osserva!». E, così dicendo, Oraste srotolò davanti agli occhi dello straniero una mappa artisticamente tracciata su pelle di pecora.

    Xaltotun fece per esaminarla, ma subito scosse il capo, confuso. «Gli stessi connotati delle terre sono cambiati. Sembra un oggetto familiare visto in un sogno, distorto dalla fantasia».

    «Certo», gli rispose Oraste, e seguì con il dito la mappa. «Qui c’è Balvero, Capitale della Nemedia, dove ci troviamo. I confini della Nemedia sono qui, e a sud e sud-est quelli di Ophir e Corinthya; la Brythunia è a est, l’Aquilonia a ovest».

    «È la mappa di un mondo che non conosco», disse Xaltotun in tono blando, ma Oraste non poté fare a meno di notare la livida vampata di odio che per un attimo gli era brillata negli occhi neri.

    «È una mappa che ci aiuterai a cambiare», gli rispose Oraste. «Per prima cosa desideriamo che Tarasco salga sul trono di Nemedia. Vogliamo che questo si verifichi senza lotta, e in modo che non sorgano sospetti su di lui. Non è nostra intenzione far dilaniare il paese dalla guerra civile: vogliamo che sia nel pieno delle forze per la conquista dell’Aquilonia. Se l’attuale Re, Nimed, e i suoi figli morissero di morte naturale, ad esempio colpiti da una pestilenza, Tarasco salirebbe sul trono come erede legittimo, senza oppositori, pacificamente».

    Xaltotun fece un cenno col capo, senza dire parola, e Oraste proseguì.

    «Il secondo obiettivo sarà più arduo. Non possiamo dare a Valerio il trono di Aquilonia senza prima vincere una guerra, e quel regno è un avversario formidabile. La gente che vi abita è una razza dura e guerriera, temprata da continue lotte contro pitti, zingariani, cimmeri. Per cinquecento anni Nemedia e Aquilonia si sono mosse reciprocamente guerra, quasi di continuo, e la vittoria finale ha sempre arriso agli aquiloniani.

    «Il loro attuale Re è il più famoso guerriero di tutte le nazioni occidentali. È uno straniero, un avventuriero che ha preso la corona con la forza, in seguito a una guerra civile, strangolando di propria mano Re Numedide sul suo stesso trono. Si chiama Conan, e nessuno gli è pari in battaglia. Ora Valerio è il legittimo pretendente al trono. È stato esiliato da Numedide, suo parente, e per anni è rimasto lontano dal paese, ma nelle sue vene scorre il sangue della vecchia dinastia, e molti Baroni sarebbero segretamente felici se spodestasse Conan, che è un nessuno, senza sangue reale o anche solo nobile. La gente del popolo, invece, è fedele a Conan, e anche la nobiltà delle province più esterne. Però, se il suo esercito fosse sconfitto nella battaglia che avrà luogo, e Conan stesso venisse ucciso, credo non sarebbe difficile far salire sul trono Valerio. Infatti, morto Conan, scomparirebbe anche la forza che tiene unita la nazione: lui non fa parte di una dinastia, è solo e non lascia successori».

    «Vorrei poter vedere questo Re», chiese incuriosito Xaltotun, lanciando uno sguardo verso un alto specchio d’argento, riccamente incorniciato, appeso al muro. La superficie dello specchio non rifletteva immagini, ma Xaltotun, dalla sua espressione, mostrava di averne inteso perfettamente la funzione: Oraste fece segno di sì, con l’orgoglio di un abile artigiano che vede riconosciuto il suo lavoro da un maestro della sua stessa arte.

    «Cercherò di mostrartelo», gli disse e, sedutosi di fronte allo specchio, fissò ipnoticamente lo sguardo nelle sue profondità, dove subito prese a formarsi un’ombra confusa.

    Era sconcertante e sembrava frutto di una presenza sovrannaturale, ma gli osservatori sapevano che si trattava solo di un’immagine dei pensieri del Mago: essi prendevano forma nello specchio, come quelli di un Negromante prendono forma nella sua sfera di cristallo. L’immagine aleggiò nebbiosa, poi si schiarì di colpo, rivelando un uomo alto, con spalle poderose e ampio torace, un collo massiccio su cui risaltavano fasci di tendini e braccia dalla muscolatura possente. Era vestito di seta e velluto; sulla ricca sopravveste senza maniche il leone reale di Aquilonia era ricamato in oro e la corona luccicava sulla sua capigliatura nera e squadrata, ma la spada che portava al fianco sembrava più congeniale alla sua figura che non i paramenti regali. Le sopracciglia, nere e folte, sormontavano due occhi di un vulcanico azzurro cupo, lucenti come se covassero una fiamma interiore. Il volto, scuro e solcato di cicatrici, quasi sinistro, era quello di un lottatore, e il velluto della veste non riusciva ad addolcire le linee dure e temibili delle sue membra.

    «Quell’uomo non è hyboriano!», esclamò Xaltotun.

    «No; è un cimmero. Un selvaggio di quelle tribù che abitano nelle grigie montagne del settentrione».

    «Combattevo i suoi lontani antenati, ai miei tempi», mormorò Xaltotun. «Neppure i Re di Acheron riuscivano a piegarli».

    «Sì», gli rispose Oraste, «e costituiscono tuttora il terrore delle popolazioni meridionali. Quell’uomo è un vero figlio della sua razza selvaggia, e finora nessuno è riuscito a piegarlo».

    Xaltotun non replicò. Sedette e fissò intensamente la sorgente di fuoco vivo che gli brillava nella mano. Fuori si levò di nuovo l’ululato del cane, lungo e cupo.

    2. Il vento delle tenebre

    L’Anno del Dragone nacque nella guerra, nella pestilenza e nell’inquietudine. La Peste Nera correva per le strade di Balvero, abbattendo il mercante al bancone di vendita, lo schiavo nel tugurio, il nobile al tavolo dei banchetti. Di fronte ad essa, le arti dei chirurghi non avevano speranza. La gente mormorava che fosse stata mandata dall’Infemo per punire i peccati dell’orgoglio e della lussuria. Era rapida e mortale come il morso dell’aspide. Chi ne veniva colpito si faceva violaceo e poi nero, e in capo a pochi minuti cadeva morente, e il fetore della sua stessa putrefazione lo sentiva nelle narici ancor prima che la morte avesse rapito l’anima dal corpo in disfacimento. Un vento caldo ruggiva senza posa da meridione; i raccolti inaridivano nei campi, e le mandrie cadevano e morivano nei tratturi.

    La gente si lamentava a gran voce della collera del dio Mitra e mormorava contro il Re, perché per tutto il regno qualcuno aveva sparso ad arte la voce che lui, in segreto, fosse dedito a pratiche orrende, a ripugnanti orge che avevano luogo nella solitudine del palazzo reale ammantato dalle tenebre notturne. Poi la morte si avventò sogghignando anche in quel palazzo, e sui suoi passi mulinarono i mostruosi vapori della peste. In una sola notte morirono il sovrano e i suoi tre figli, e i tamburi che scandivano il ritmo del lamento funebre del Re sommersero il rumore dei sonagli macabri e infausti dei carri che sferragliavano per le strade raccogliendo cadaveri in putrefazione.

    Quella notte, poco prima dell’alba, il soffio rovente che aveva continuato a ruggire per settimane cessò di sibilare sinistramente tra i tendaggi di seta. Un forte vento si alzò da nord mugghiando tra le torri, ci furono tuoni da cataclisma, accecanti bagliori a ciel sereno, e pioggia scrosciante. Ma l’alba sorse radiosa, verde, chiara; la terra bruciata si velò di erba, le messi assetate si alzarono ancora, e la peste sparì; i miasmi erano stati completamente spazzati via da quel vento possente. Gli uomini dissero che gli dèi erano soddisfatti perché il Re malvagio e la sua progenie erano morti e, quando fu incoronato il fratello minore, Tarasco, nella grande sala delle cerimonie, la popolazione lo salutò con tale entusiasmo da far tremare le torri, acclamando il nuovo monarca gradito agli dèi.

    Una simile ondata di gioia e di entusiasmo, quando percorre tutto un paese, è molto spesso segno di una guerra di conquista. Quindi nessuno si stupì quando fu annunciato che Re Tarasco aveva dichiarato decaduta la tregua stipulata dal

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