Quella del Vajont: Tina Merlin, una donna contro
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Anteprima del libro
Quella del Vajont - Adriana Lotto
Percorsi della memoria 41.
«Tina è oggi quella del Vajont
. Ma quando, da sola, raccontava le storie di quella gente non pensava certo al colpo giornalistico. Era arrabbiata per il destino già scritto di tanti, così come lo era quando si ribellava all’apparente inevitabilità per una ragazza della sua condizione sociale di dover servire a casa dei milanesi benestanti. Era arrabbiata quando scriveva dei compaesani emigrati, dispersi, umiliati. Oggi diremmo indignata
. Tutti possono essere indignati, anche quelli dei salotti milanesi. Tina non poteva invece permetterselo, né lei né la gente con la quale era cresciuta, si era formata. Loro potevano solo essere arrabbiati. Loro potevano solo ribellarsi».
Dalla presentazione di Toni De Marchi
In copertina: Tina Merlin nel 1947
Prima ristampa: gennaio 2012
Seconda ristampa: settembre 2013
Prima edizione cartacea: settembre 2011
Prima edizione digitale: giugno 2020
e-isbn
978-88-5520-068-4
©
2011
Cierre edizioni
via Ciro Ferrari,
5
37066
Sommacampagna, Verona
tel.
045 8581572
, fax
045 8589883
edizioni@cierrenet.it
www.cierrenet.it
Adriana Lotto
quella del vajont
Tina Merlin, una donna contro
Prefazione
Confesso di aver capito chi fosse veramente Tina solo dopo aver letto La casa sulla Marteniga. Un diario intimo, una storia personale, un nostrano Spoon River con quei microritratti di Bepi Moka, di don Alfonso, di Bepi Savaris ma, soprattutto, il racconto della nascita di un mondo nuovo. Perché la storia di Tina Merlin è certamente quella di una donna, di una persona, ma è anche il racconto di un mondo che ha trovato dentro di sé, prima ancora nei grandi eventi che ha attraversato, le ragioni del proprio riscatto e della propria affermazione, che ha sentito la necessità della rivolta.
Perché, certo, Tina è oggi quella del Vajont
. Ma quando, da sola, raccontava le storie di quella gente non pensava certo al colpo giornalistico, allo scoop, alle prime pagine che le sono state tante volte negate anche dal suo giornale. Era arrabbiata per il destino già scritto di tanti, così come lo era quando si ribellava all’apparente inevitabilità, per una ragazza della sua condizione sociale, di dover servire a casa dei milanesi benestanti. Era arrabbiata quando scriveva dei compaesani emigrati, dispersi, umiliati. Oggi diremmo indignata
.
Camilla Cederna scrisse una volta che era necessario indignarsi. Tutti possono essere indignati, anche quelli dei salotti milanesi della Cederna. Tina non poteva invece permetterselo, né lei né la gente con la quale è cresciuta, si è formata. Loro potevano solo essere arrabbiati. Loro potevano solo ribellarsi.
E se dovessimo usare una sola parola per definirla, ribelle
è quella che sceglierei. Certo, nessuno può essere chiuso in un solo aggettivo. Tanto meno Tina. Ma la sua è una storia di grandi e piccole ribellioni: all’ingiustizia, al conformismo, all’ineluttabilità dei destini, al mondo dei signorsì. Certamente con molte contraddizioni. Non saremmo umani senza le nostre incertezze. E Tina, di sicuro, fu umanissima, nel bene e nel male.
Adesso che ho letto molte cose, di lei e su di lei, capisco anche le ragioni di una sua certa durezza. Pensavo fosse solo un dato di carattere legato alla sua terra, alla montagna. Per vent’anni avevo passato le mie estati in Cadore. Da villeggiante
, come si diceva allora, ma un po’ sfigato
. La mia famiglia affittava delle stanze nelle case senza uomini, quasi tutti emigrati. Così condividevamo quasi tutto con i ragazzi del paese, con le donne che gestivano l’assenza. Condividevamo anche i lutti. Il giorno di Mattmark lo ricordo ancora: ci morì il papà di una nostra amichetta. Abitavamo a casa loro.
In Tina ritrovai tutta la determinazione del montanaro
e l’inevitabile scontrosità di chi sconta il pudore dei sentimenti. Con qualcosa in più, tuttavia: la necessità continua di fare qualcosa, di denunciare, di mettere in moto il cambiamento. Non fermarsi mai. In questo senso era una irriducibile al limite dell’insolenza. Per questo aveva tanti amici ma altrettanti, e forse più, nemici. E un destino all’opposizione, comunque. Una donna contro.
Naturalmente sappiamo che non è così. Perché Tina immaginava un mondo nuovo e chi, come lei, ha un progetto per il futuro è un costruttore anche quando sembra voler buttar giù tutto. E il futuro certamente Tina l’ha costruito con tenacia e determinazione in ogni momento della sua vita. Battendosi contro chi si metteva di traverso, fossero i tedeschi o i burocrati del Pci. Spendendosi per chi il futuro non lo conosceva se non come un altro oggi: i montanari, gli emigrati, gli operai delle concerie. Le donne, le donne soprattutto.
Essere umani e consapevoli, giusti ma non deboli: questa è la sintesi che potremmo fare del suo impegno ininterrotto e irriducibile e che lei stessa riassume mirabilmente in questa frase scritta pochi giorni dopo il Vajont: «Oggi tuttavia non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa».
Toni De Marchi
quella del vajont
Introduzione
Il 22 dicembre 1991, Tina Merlin si spegneva in una stanza dell’ospedale civile di Belluno. Fino all’ultimo aveva lottato contro la malattia che l’aveva tormentata per un anno, fiaccata infine, mai prostrata. Perciò la sua morte non è stata un ritiro dalla vita, e nemmeno una diserzione, piuttosto un forzato abbandono di campo, che non ha intaccato, tuttavia, tenacia e ostinazione, consapevolezza piena di sé e della propria forza. Una forza che l’accompagnava fin da bambina, che le aveva fatto superare umiliazioni e delusioni, attraversare passioni e sconfitte, ma anche assaporare qualche vittoria: la sua vita stessa, per com’era stata, la considerava con orgoglio un trionfo contro l’ignoranza, la sudditanza, la povertà, i pregiudizi. Quella forza cui si era appigliata ogni qualvolta le certezze parevano venir meno. E talune erano venute meno. Anche se Tina si era ostinata a tenerle vive, quasi avesse voluto ripercorrere, riassaporare la vita di prima
, ora che non era più, per lei, tempo di scoperte. Non si spiegano altrimenti gli scritti degli ultimi tempi, soprattutto quelli sulla Resistenza.
Quel 22 dicembre, dunque, aveva perso l’ultima battaglia. L’aveva combattuta frontalmente, e ogni volta sapeva che dopo sarebbe stato peggio. Eppure si affidava a medici e infermieri. E si sarebbe affidata anche a un ciarlatano o a un santone, pur di salvarsi. I primi giorni dopo la chemio erano terrificanti: li passava china sul water di casa, con Aldo che la sorreggeva. Quell’Aldo che l’aveva incoraggiata nella sua indipendenza, che l’aveva assecondata nella sua vita errante, che si era fatto da parte senza mai abbandonarla, e lei negli ultimi tempi si era stretta ancora di più a lui nella complicità di sempre. E aveva scritto: appunti, lettere. Scrivere per eludere la malattia, per aggirarla. Scrivere per sopravvivere. Scrivere e riordinare. La sua versione dei fatti, in altre parole la sua esistenza, perché qualcuno le desse continuità prendendo per sé quanto l’aveva sorretta. Il figlio, forse? Scrivere e dare al biografo (chissà se ci aveva pensato) sentieri segnati, tracce. Perché per Tina, che non ha mai parlato di sé, neanche quando ha scritto di sé, non era importante per quale ragione scrivesse, ma come veniva letto ciò che scriveva. E nel timore di un travisamento altrui e di un cedimento proprio all’autobiografismo, come usava disinvolta negligenza nei fatti e nelle date (nei racconti di Menica e nella Casa sulla Marteniga), così recensiva, annotava, archiviava ciò che testimoniava degli avvenimenti grandi e piccoli della sua vita. Come se con la sovrabbondanza di talune informazioni e la lacunosità di altre volesse sottrarre spazio alla scoperta e all’interpretazione, volesse cioè dettare lei la sua biografia.
Le carte personali (lettere, appunti, brutte copie, scalette di lavori compiuti e incompiuti) sono raccolte in venti faldoni. Sono tutte? Crediamo di no. Sicuramente molte le ha gettate. Mancano così le prove, mentre copiosi rimangono gli indizi e l’investigazione si è ingarbugliata. I testimoni, dal canto loro, quei pochi che ricordano, assecondano a distanza di tempo l’immagine ufficiale
di Tina, tranne uno, ma, proprio perché uno, inattendibile.
Per tutto questo non è stato facile comporre un profilo di Tina Merlin. Dato che il rischio di una agiografia
è stato allontanato fin da subito, è rimasta la difficoltà di com-prendere una persona, un personaggio e una scrittrice che, per aver sempre tenuto ben distinti pubblico e privato, si presenta schiva, reticente, gelosa dei suoi più intimi pensieri e sentimenti, sfuggente. Per non cadere nella sua trappola, perché la sua vita non fosse la sua immagine, per dirla con Gide, ho perciò interrogato Tina attraverso i suoi scritti, senza forzarle la mano, e ho usato delle testimonianze di quanti la conobbero e frequentarono come contrappunto a verità
e menzogne
. Il risultato è un ritratto mosso, poco idealizzato cioè, raschiato non per confondere ma per alludere, fedele nel fondo quel tanto che basta a potervi riconoscere la cifra di un’esistenza, i lineamenti di una donna del Novecento, che del Novecento ha vissuto, con passione e ragione, gran parte delle vicende più importanti.
In famiglia, senza famiglia
Stando all’anagrafe, Clementina (Tina) Merlin risulta nata il 19 agosto 1926 in località Santa Tecla a Trichiana, in provincia di Belluno. L’ha data alla luce, nella casa sulla Marteniga, alta e stretta, «quattro stanze con annessi stalla e fienile», Rosa Dal Magro che, rimasta vedova del primo marito, un Benvenuto Tacca di Morgàn, il 18 marzo 1910 ha sposato in seconde nozze Cesare Merlin. La donna ha allora ventisei anni, un fazzoletto di terra e un figlio, Luigi, nato nel 1905; l’altro, Clemente, detto Mente
, è morto, a neanche due anni, di meningite tubercolare come il padre, quattro mesi prima di lui, nel 1908. Cesare ha quarantuno anni e sulle spalle stagioni e stagioni di lavoro in Italia e all’estero. Forse è per questo che non si è maritato prima. Per motivi diversi, il loro è un matrimonio di necessità, non di amore, tuttavia rispettoso e prolifico.
Prima di Tina, infatti, sono nati Ida (17 novembre 1910), Giuseppe Benvenuto Nuto
(13 agosto 1912), Remo (31 agosto 1914), Antonio (26 dicembre 1919), Giuseppina Pina
(6 giugno 1922). Ma la spagnola ha portato via Nuto all’età di appena otto anni: «non voleva ingoiare le ortiche lessate, l’unico alimento disponibile che serviva anche da medicina», scriverà Tina Merlin nel racconto lungo La casa sulla Marteniga¹, il solo scritto, fatta eccezione per le prove che lo anticipano, che ci dica qualcosa della sua infanzia e degli anni giovanili. Dopo Nuto, toccherà a Luigi, Jijo, il figlio di primo letto di Rosa, concludere insulsamente la propria esistenza annegandola dentro un torrente gelido dell’entroterra ligure che gli ha fatto venire una congestione.
Luigi lascia due figlie, Piera e Silvana, e una vedova insofferente, Maria Angela. Insofferente a tal punto che, finite le lacrime, anche quelle per la figlioletta che «una punta di petto» si porta via di colpo, prende su baracca e burattini e si trasferisce a Milano infliggendo un primo colpo alla grande famiglia. Tina, che all’epoca ha su per giù quattro anni, dice di Luigi: «più che fratello avrei desiderato averlo per padre».
Tina sa dunque di essere nata da genitori già vecchi: Rosa ha 42 anni e Cesare 57, anche se scrive 48 e 63, e li fa ancora più vecchi. Li vedeva vecchi. Ma poco importa. Vecchi sono. Chissà che cosa avranno pensato di questa gravidanza tarda e rischiosa? Chissà che cosa avrà detto Cesare di questa figlia che richiedeva energia e pazienza? Per certo si sa l’immagine che Tina ha di loro. Della madre, che le fatiche, i lutti e due guerre hanno ripiegato su se stessa, scrive:
L’immagine di mia madre che ho sempre negli occhi è quella di una donna anziana, vestita di nero, malinconica, sofferente [...]. Ho invidiato certe mie compagne di scuola che avevano una madre giovane o tale sembrava, vestita di chiaro, magari col cappellino in testa, oppure a capo scoperto a mettere in mostra le trecce intorno alla testa o il cocon dietro la nuca. Anche mia madre aveva belle trecce ma le nascondeva sotto il fazzoletto nero che portava quasi sempre².
Ma Rosa, ossessionata dalle debite, silenziosamente rancorosa contro il marito che per pagarle l’ha costretta a vendere la terra di Morgàn, fedele nell’intimo al primo uomo della sua vita che suggerisce a Tina una storia da romanzo d’appendice, è una donna indurita, avara di carezze non meno di Cesare, con un unico pensiero: quello di far quadrare i conti e abituare i figli al lavoro. E su questo non transige:
In quel momento afferrò solo il conto in più da pagare. Senza neppure aprire la sporta, guardare il libretto, vedere o farsi raccontare cosa e come era successo, mi rovesciò a pedate sul pavimento facendomi ripetutamente rotolare, colpendomi a calci da tutte le parti con le zoccole, come una furia scatenata. Era un lato di mia madre che non conoscevo. Ne rimasi sconvolta³.
E non sarà questa l’unica sfuriata della donna che Tina comunque, a distanza di tempo, giustifica. Della madre, tuttavia, ha colto da piccola soprattutto gli umori e li ha introitati a tal punto da farli suoi, da conservarli per molti anni. Sono umori che la donna sfoga contro un marito taciturno e distratto, che per correre dietro alla sua natura libertaria, girovaga, generosa, somma debite, anziché pagarle. È così che ogniqualvolta Tina parla del padre, lo fa con animosità sospetta. Scandalosa, dice Wilma De Paris, l’amica del cuore degli anni giovanili, per due motivi: primo perché non si tratta così un padre, secondo perché il suo, perduta la moglie nel parto, le ha fatto anche da madre⁴. Tranquillo Prade, classe 1923, ricorda Cesare come un uomo calmo ma deciso, rispettabile ma non tenuto in giusta considerazione⁵. A tal punto che si dice di Rosa essere «l’om de Cesare», il marito di Cesare. Di fatto è lei l’amministratrice più intraprendente, quella che con la convinzione che non bisogna «stracar al temp» (stancare il tempo) ha sempre, oltre che figli, qualcosa da fare. Anche il paese pensa dunque che Cesare sia quello che si fa «minchionare» dai parenti, pagando le prediali per tutti senza vedersi restituire un soldo, che chiude gli occhi sul bracconaggio, lui guardia forestale, perché anche i poveri devono mangiare, che, assunto in cooperativa, riempie la bottiglia di vino o di olio a chi ne ha chiesto un quarto e considera gli altri tre un anticipo che prima o poi verrà saldato. Cesare, comunque, è sempre via. Il mestiere di muratore di fino lo vuole in Svizzera, laddove l’espansione demografica divora alloggi, ma Tina sospetta che gli piaccia anche «girare i paesi, conoscere gli usi e i costumi della gente, e anche sentirsi libero». Una malattia che la contagerà. Nei mesi che passa a casa, testimonia Prade, Cesare legge molto, soprattutto la Bibbia, che poi racconta ai figli. Chissà che non sia stato lui a suggestionare la figlia Pina che avrà una crisi mistica. Tiene la contabilità di altri emigrati, perché oltre a leggere e scrivere, sa far di conto, ma a modo suo, come si è visto.
A quest’uomo «un poco baldanzoso, consapevole del suo bell’aspetto e della sua virilità», che nei primi anni vede poco, così da credere che quello dell’emigrante sia un mestiere, e forse non ha tutti i torti, Tina riserva affetto e rispetto. A lui assomiglia più di quanto non creda o non voglia e non dica.
Nel piacere per la vita errante, di sicuro, e nella generosità. Al contrario di lui, lei è vivacissima, un saltorel, un mataran. Eppure, ad un certo punto qualche cosa si rompe. È per via di quella bambola che Cesare regala a Pina. Pina, Giuseppina, a ricordo del primo figlio di Cesare, Giuseppe Benvenuto. Tina, Clementina, in memoria del figlio di primo letto di Rosa, Clemente. Chissà se per Cesare è anche questo a fare la differenza. Fatto sta che Tina è morsa dalla gelosia, è offesa:
Mio padre sta seduto sulla piccola sedia e chiama presso di sé Pina. Scartoccia un grosso involto e a ogni giro di carta alza gli occhi allegri su di lei per farle gustare lentamente la sorpresa. Da una scatola esce alfine una grande bambola di celluloide rosa che ci lascia entrambe a bocca aperta. Mai avevamo avuto un giocattolo vero.
Nella mia infanzia ho presente solo una piccola bambolotta di stracci confezionata da mia madre e null’altro dopo di quella. Mio padre consegna a Pina lo stupefacente giocattolo mentre io, in disparte, è come se non esistessi. Mia sorella, che si sente la privilegiata dal padre, sequestra subito per sé la bambola e non me la lascerà mai toccare, generando in me una grande invidia nei suoi confronti e un senso di ripulsa verso mio padre [...]⁶.
E così quell’uomo, che in principio sembra essere un buon padre, diventa all’improvviso freddo e autoritario e più tardi un ostacolo, un impedimento alla sua ansia di libertà. La figura che Tina tratteggia in seguito è quella di un perdigiorno, che lavora gratis «per via delle donnette che lo impietosivano», che passa le serate leggendo in un silenzio imposto, forse per sognare i suoi paesi lontani, mentre Rosa e Tina rammendano i panni e i figli più grandi sono «già tutti a guadagnarsela per il mondo». Non solo. Schernisce i preti, ma va a messa; parla male di Mussolini, il «muss (asino) de Nini», e manda i figli alle adunate del sabato. «Avrei voluto che affermasse le sue opinioni alla luce del sole, accettandone eroicamente le conseguenze» scrive Tina, la Tina che è già passata per la Resistenza, però, e che sovrappone i tempi. Insomma, è forte la sensazione che per un verso ella ripassi una figura paterna che la madre le ha imbastito in un confronto spietato col primo marito, per l’altro che la disegni traendola da sensazioni lontane. E così emerge un uomo soprattutto bello, anche in vecchiaia. Sulla bellezza del padre, Tina si sofferma