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Obiettori
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E-book650 pagine9 ore

Obiettori

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Info su questo ebook

Savona, sul finire del secolo scorso. All'interno d'un bizzarro centro per disabili, il CRIS, quando svolgere il servizio civile sostitutivo alla leva militare aveva ancora un qualcosa di eroico, sullo sfondo di sentimenti infranti e vaghe aspirazioni, si muovono le vicende di alcuni obiettori di coscienza: piccoli e grandi episodi, spesso divertenti, quando non addirittura comici, talvolta commoventi, segneranno per sempre la loro esistenza.
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2020
ISBN9788835864752
Obiettori

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    Anteprima del libro

    Obiettori - Gabriele Furfaro

    Licia

    Primo capitolo

    Gli parve d'un tratto la salita più faticosa che avesse mai intrapreso, al cui confronto i ripidi sentieri in collina, lungo i quali amava arrampicarsi nelle belle giornate estive, impallidivano: v'arrivava col fiato in gola e il petto pronto a esplodere, in cima a quel verde, esausto ma felice. In quel momento no.

    Ogni passo, quel mattino, sembrava l’ultimo. Le sue gambe non volevano saperne d'andare avanti, ma lo facevano comunque, per forza d'inerzia. Dietro ogni curva sperava di imbattersi in un qualunque giaciglio, sul quale potersi sdraiare e riposare sino a sera. Alla sua sinistra sfrecciavano rapide anonime anime sui loro moderni veicoli, ognuna con dipinta in volto la stanchezza e la rabbia del vivere quotidiano. G. trovò più incoraggiante lasciarsi accompagnare dagli imperturbabili gabbiani, che volteggiavano alti e solenni sulla riva finale del lungo porto. Mancavano pochi anni al nuovo millennio, ma continuando con quell'andazzo non lo avrebbe mai visto sorgere, sospirò. Raccolto il coraggio residuo seguitò a camminare. Ancora un paio di curve e sarebbe giunto a destinazione, il tempo d'un’ultima, dolcissima sigaretta.

    Il cartello bianco con scritta in blu non lasciava dubbio alcuno: il Centro Recupero Italiani Spastici era quello.

    Appena ebbe varcato il cancello la sua impressione più immediata fu quella d'essere capitato in un vivaio: v'erano piante ovunque, alberi dai tanti rami, folti come i cespugli nelle piccole aiuole intorno, nonché foglie d'edera a ricoprire la parte superiore delle mura rosa dell'edificio. La luce del sole andava a riverberarsi sul vetro delle numerose finestre, abbagliando la vista. G. s'avvicinò all'angusta loggia che proteggeva la porta d’ingresso, finché, dietro la finestra alla sua destra, celato appena da una persiana semi-abbassata, non intravide un uomo, chino sulla scrivania a digitare su una tastiera, il viso dominato dal vivido azzurro riflesso dallo schermo: davanti gli si muovevano due ombre intente in una fitta conversazione, di cui G. non riusciva a percepire parola alcuna, ma immaginò che fosse lui l’oggetto della discussione, l’oggetto misterioso tanto atteso.

    Suonò il campanello una, due, tre volte.

    -Non rispondono, queste teste di cazzo?! - sbottò infine, spazientito da quella strana attesa.

    Un sorriso malizioso s’accese sul muso azzurrognolo del dattilografo, il cui sguardo incrociò gli altri, al che G. comprese chi aveva osato destarlo alle nove e mezza del mattino di sette giorni prima, onde ragguagliarlo circa l’esatta ubicazione del CRIS. Fu uno scambio di battute breve quanto memorabile:

    -Prontooounnnnn...

    -Centro CRIS, buongiorno. Sono Delfino, il segretario. E’ casa F.? Posso parlare con G.?

    -Sì, più o menoouuunnnn... Dovrei essere io.

    -Ooohh, stai ancora dormendo? Guarda che qui non cerchiamo un portiere di notte! Il sole splende alto, e chi non pedala lo fuciliamo.

    -Signorsì!

    -Attenti! Riposo!

    -Ok, buonanotte. Aaaauunnnggg... Scusi, ma è stata una nottataccia. Ci risentiamo.

    -Hai la macchina?

    -Per il caffè? No, mi spiace, solo caffettiera.

    -Ah, sei uno spiritoso. Bene, abbiamo proprio bisogno di un obiettore spiritoso, l'ultimo l’abbiamo spedito dalle Orsoline a riparare rosari. Ora ho da lavorare, sta' un po' a sentire: sai dove si trova la Torretta? Bene, una volta lì giri a sinistra e prendi la salita, vai sempre avanti e dopo sei o sette curve ci sei. Il nostro centro si troverà alla tua destra. Dovrai presentarti tra le otto e mezzogiorno, meglio le otto, e vedi di non sbagliare, perché l’ultimo l’abbiam sbattuto al WWF a rastrellar le foglie nei parchi protetti.

    -Non era finito al Polo Nord?

    -Al Polo Nord?!

    -Dalle Orsoline.

    -Senti, ragazzo...

    -Non si preoccupi, ho una laurea in topografia e vagabondaggio. Ci si vede giovedì prossimo.

    -A giovedì. Arrivederci.

    -Arrivederci.

    CRIS, viaggiare informati. Posata la cornetta G. tornò a dormire, per sognare d'aggirarsi sicuro, forte della sua laurea in vagabondaggio, in alcune vie poco frequentate dei quartieri periferici.

    Non gli rimase quindi altro da fare che chinare seccato il capo e girare la maniglia. Intuì che avrebbe dovuto impugnarla subito, anziché suonare inutilmente. Percorsi ch'ebbe un paio di metri girò a destra, per varcare la soglia di quella stanza intravista dall’esterno. Più piccola di un normale ufficio, la scrivania bianca in compensato occupava una buona metà dello spazio disponibile. Mentre il maschio lo aveva già notato, due figure femminili inedite gli si stagliarono innanzi in un impeto di cortesia.

    -Ecco il nostro nuovo acquisto! - lo salutò pimpante Caterina.

    -Buongiorno! - le fece eco Ginevra. -C’hai trovato facilmente, vero?

    Laddove le due donne, vestite in abiti leggeri, catturarono con immediatezza le sue simpatie, G. temeva invece di non possedere il physique du role per una presentazione in grande stile: avvolto in un ordinario giaccone nero e da una lampante fiacchezza, il viso emaciato, a dispetto d'alcuni chili di troppo accumulati in due anni di dolce far niente, ed il morale sostenuto soltanto dalla nicotina e da un residuo briciolo d'ironia, tutto gli sembrava giocare a suo sfavore.

    -Buongiorno, - replicò al benvenuto della coppia. -Avevo suonato, forse stavate parlando e non mi avete sentito.

    -Togliti quel cappotto, - intervenne senza alzarsi il segretario. -E così tu saresti quello che ama sparare minchiate al telefono... Io sono Emanuele, ciao. Ora conoscerai gli altri, siamo in tanti, a lavorare qua. Caterina e Ginevra ti condurranno a visitare la struttura, dovrai dunque tornare da me per i documenti: come capirai bene abbiamo delle stramaledette formalità burocratiche da espletare. Per cominciare dovresti consegnarmi la tua carta d’identità e la cartolina.

    G. estrasse dalla tasca posteriore destra dei jeans un fogliettino azzurro piegato quattro volte, e ormai più simile ad una cartaccia stropicciata, che non ad una importante comunicazione ufficiale del Ministero della Difesa. La carta d’identità la mostrava sempre con piacere, in quanto recava l’unica sua fotografia decente degli ultimi anni, almeno secondo lui, ciò grazie a un sorriso sardonico appena accennato col quale sembrava sbeffeggiare lo sfortunato osservatore, sebbene fossero in pochi ad accorgersene.

    -Ecco qua, - disse allungando il tutto.

    -Adesso dovresti timbrare il cartellino. L’ho preparato io stamattina, che servizio, mmm? Dev’essere il numero... il numero... Non lo ricordo, pazienta un attimo.

    Pronunciate queste parole Emanuele si sollevò per raggiungere la macchinetta obliteratrice, palesando una camminata zoppicante, con la gamba sinistra trascinata a fatica dietro l'altra.

    -Hey, hai pestato una merda? - non poté trattenersi dall’esclamare G.

    Emanuele, scuro in volto, si irrigidì, mentre le due donne, immobili lungo la parete, loro malgrado risero, Caterina in maniera sguaiata, Ginevra portandosi una mano alla bocca e spalancando al contempo i grandi occhi verdi. Il segretario digrignò i denti senza replicare, per tirare su uno dei tanti cartoncini, d'un azzurro più opaco rispetto alla cartolina del distretto, con stampati sopra il numero sette ed il nome del ragazzo, ancora fresco d’inchiostro e scritto con calligrafia minuta e arrotondata. Lo consegnò quindi nelle mani di G., che lo prese con un po' d’apprensione: tutte quelle caselle vuote, ognuna a segnare un giorno del mese, lo facevano star male. Conscio dell'irrinviabilità di quel nuovo impegno accusò un giramento di testa, per quanto lieve, finché non si rassegnò ad abbassare la mano destra. La mosse con estrema lentezza, tanto le dita erano riluttanti, riuscendo infine a inserire il cartellino nella fessura: da quel momento era un obiettore, abile e arruolato.

    Ginevra indossava una maglietta viola, decorata da roselline azzurre e giallo canarino sul risvolto del colletto e delle maniche corte, mentre i lunghi e ondulati capelli biondi le ricascavano sulle spalle. Uscendo dalla segreteria sorrideva ancora, d'un sorriso solare che illuminava un viso, tuttavia, le cui prime rughe ai lati delle labbra e degli occhi tradivano i segni della giovinezza che via via sfioriva. Caterina, la sua collega più anziana, sino a una dozzina d'anni prima era una donna assai desiderata, ma ormai i grandi denti sporgenti era quel che si notava subito di lei, fissandosi nella memoria sino a eclissare il resto. I tre girarono a destra, per oltrepassare la porta che conduceva alle sale di terapia. Voci stridule di bambini provenivano dalle stanze ai lati del corridoio, le cui imposte, bianche come le pareti, erano chiuse. Al contrario la più estesa, sita in fondo, era aperta e rischiarata dal sole. G. notò al suo interno numerosi attrezzi da palestra, nonché tanti giocattoli e strumenti ginnici a lui ignoti.

    -Sai già di cosa si occupa questo centro, vero? - gli domandò Ginevra con voce sostenuta, benché attraversata da un sensuale tremito, mentre tornavano indietro.

    -Immagino che accolga degli spastici, - si tenne sul vago il giovane, che specie negli ultimi giorni s'era rifiutato di rimuginare su ciò che l'attendeva.

    Si ricordò d'un ragazzo spastico alto e magro, con una pipa spenta in bocca, che qualche tempo prima aveva notato salire sul treno per Savona, e credette appunto che il CRIS fosse la meta di persone come lui, magari un paio di volte alla settimana per sottoporsi a delle visite.

    -Qui trattiamo casi molto delicati, - riprese Ginevra con tono sicuro. -Da noi vengono pazienti afflitti da handicap psicomotori, nonché...

    -Psicomotori? - la interruppe G. -Intende dire dei pazzi?

    -Ma nooo, cosa vai a pensare?! - intervenne Caterina ridendo. -Ti sembra un manicomio, questo?

    -Mah, onestamente non saprei.

    -Mmm, ne abbiamo trovato un altro, - si fermò di colpo la donna, scuotendo irritata il capo. -Senti, se hai paura te ne puoi anche andare, come hanno già fatto in tanti, non credere che saresti originale, ci tengo comunque ad informarti che qui non ci sono dei pazzi, come li chiami tu, ma soltanto adulti e bambini che hanno bisogno d’aiuto.

    Ormai era un fiume in piena.

    -Lo sai almeno cos’è un disabile? Hai mai visto un essere umano su una carrozzella? To', eccone uno! - esclamò spalancando la porta alla sua sinistra. -Armando, c’è qua quello nuovo. Lui è uno dei nostri consiglieri, obiettore. Ti lascio in buona compagnia, che ora io e Ginevra abbiamo da lavorare. Divertiti.

    Mentre la coppia s'allontanava, per tornare nella sala grande, G., pur perplesso da

    quell'inattesa e piccata reazione, si ritrovò a fissare da qualche metro di distanza colui cui era stato indicato: Armando, basso, tarchiato e con la testa rasata, giaceva prono su un lettino. Sopra di lui, assisa a cavalcioni sulla sua schiena, una signora bionda e vestita in modo leggero, con pantaloni di tuta grigi ed una immacolata t-shirt bianca, gli praticava dei vigorosi massaggi.

    -Così tu sei quello nuovo, - interruppe l'attività, per sorridere cordiale, lei. -Io sono Maria.

    -Piacere, G., - replicò lui varcando la soglia.

    -Vedo che hai già conosciuto le mie colleghe. Io sarei la fisioterapista più anziana, la vecchietta del CRIS, ma non voglio essere vista come tale, intesi?

    -Non sembra proprio una vecchietta, anzi, - eccepì G. -Sono entrato da poco, sinora ho incontrato solo quelle due.

    -Soltanto Caterina e Ginevra? Siamo in tante, a lavorare qua. Dunque, noi terapiste, le segretarie, la dottoressa... Ma ora parla un po' tu, Army. Siete entrambi valligiani, se non sbaglio.

    Il disabile sorrise timidamente dal lettino.

    -Ciao, - lo salutò G.

    -Ciao. Allora, come va?

    -Bene, e tu?

    -Potrebbe andare meglio, - sbuffò scazzato Armando.

    -Di dove sei? - chiese G.

    -Di Murialdo.

    -Non siamo poi così lontani, - riconobbe l'obiettore. -Io sono di Cairo.

    -Strano, non t'ho mai visto, in giro.

    -Nemmeno io, - alzò le spalle il nuovo arrivato.

    -Per oggi abbiamo finito, Maria, vero?

    La fisioterapista, dopo aver guardato l'ora, rispose in maniera affermativa, sollevò dunque la gamba sinistra e ridiscese dal corpo del suo paziente.

    -Vado a chiamare Ilario, - si congedò uscendo in corridoio.

    Sempre disteso, ma questa volta solo, l’espressione malinconica di Armando tradiva il rimpianto per il trattamento concluso, quando un marcantonio si piazzò sulla soglia della stanzetta. Quell'uomo gigantesco recava uno sguardo assente, come se la sua anima fosse stata svuotata da ogni speranza. Chissà a quanti sogni aveva dovuto rinunciare, pensò sgomento G., terrorizzato all'idea di invecchiare e diventare simile a lui. Da una radio, il cui gracchiare proveniva da una delle stanze intorno, un mesto comunicato annunciava l'imminenza d'un'ennesima crisi di governo, segno di un Paese autenticamente democratico per alcuni, irrimediabilmente marcio per altri. Da quando, nauseato, aveva cessato di interessarsi alle vicende politiche italiane, G., al contrario, iniziò a provare una certa curiosità nei riguardi di chi, invece, tendeva le orecchie a qualsivoglia notizia.

    -Opposizione ladra! - esordì il suo quarto terapista in dieci minuti, seguito come un'ombra da un giovane dai capelli cortissimi, scolpiti secondo i lineamenti del cranio, gli occhiali dalla montatura leggera e un’aria cordiale e svagata da santarellino.

    -Ti presento il nuovo obiettore, Daniele, - continuò il gigante. -E' qui da noi da tanto tempo, troppo: finalmente eccoti una mano, anche se per poco, ormai.

    -He,he,he... Meglio tardi che mai, - commentò l'interessato allungando una mano, per stringere quella di G.

    Armando venne quindi sollevato di peso dal terapista e da Daniele, rivestito da quest'ultimo e adagiato infine sulla carrozzella, dove sembrava alto come un bambino, nonostante i trent’anni appena compiuti.

    Il resto della mattinata svanì per G. in brevi visite alle sale più piccole, colme di giocattoli d'ogni sorta, locali dove le tre fisioterapiste operavano con altrettanti fanciulli, sorvegliati a vista dalle rispettive mamme. G. non immaginava d'incontrare tanti marmocchi al CRIS, non c'aveva proprio pensato. In fondo non s'era figurato granché, del servizio civile che s'apprestava a iniziare, se non che doveva trattarsi di una gran rottura di palle. Tornato in segreteria pose delle firme e scorse la propria cartella personale, che venne riposta in un armadio di ferro limitrofo a due fotocopiatrici.

    -E’ quasi ora di mangiare, - fece Emanuele tornando a sedere. -Chiamo Daniele, così ti porta di sopra.

    G., sino a quel momento fiducioso di poter rientrare a casa per pranzo, si rabbuiò.

    -Grazie, - pronunciò a bassa voce.

    -DANIELEEEEE!!!!!!! - urlò al contrario il segretario.

    -ARRIVOOOOO! - replicò da lontano il ragazzo.

    I timpani di G., ormai disilluso circa la raffinatezza dell'ambiente circostante, vennero scossi come canne al vento, da quelle grida tarzaniane. Non avvertiva molta fame, soltanto una gran voglia d'accendersi una sigaretta, ma farlo lì davanti a uno sconosciuto, tale ancora lo considerava, nel suo ufficio, esponendosi a un primo giudizio, non gli sembrava il miglior prologo per quella nuova avventura. S'era inoltre convinto che con tutti quei bambini in giro vigessero nell'intero centro ferree leggi anti-tabagismo. Si sbagliava: la visione del paradiso fu quella di due fisioterapiste, che tali ad angeli solcavano il corridoio con la cicca tra le dita, e relativo rivolo di fumo ad innalzarsi dalla lieve fessura tra le labbra. Un sorriso istantaneo, un impercettibile ghigno e la mano di G. era già in tasca a sollevare il pacchetto, per estrarne una sigaretta.

    -Qua non si fuma, - lo gelò Emanuele.

    -Come, scusa?

    -Non provare ad accendere quella porcheria qua dentro.

    -E le due signore? - fece G. voltandosi verso l'ascensore, accanto al quale s'erano fermate.

    Il suo sguardo, a cercare quella specie di solidarietà che si instaura spesso tra i tossici, accerchiati da un mondo ostile, non fu vano.

    -Vieni qua fuori, se vuoi fumare, - sorrise infatti divertita Caterina. -Oh, non pensavo avesse anche lui il nostro vizio: ha un’aria così innocente, delicata...

    -E' vero, è tenero, - le fece eco Maria. -Accendila pure, obiettore: puoi fumare in corridoio, se non c'è nessun utente, oppure in cucina o sul terrazzo, ma mai in segreteria o nelle sale di terapia, intesi?

    -Scusate, quale terrazzo? - chiese G.

    -Non sei ancora salito di sopra? - ribatté Caterina. -Beh, meglio per te. Oh, è già ora di mangiare, no?! Allora, Daniele, arrivano 'sti piatti? Sbrigati, che i cessi li hai già puliti prima! Poi porti su quello nuovo a vedere il terrazzo. Forza, Maria, andiamo. Ginevra, dove sei? Non incollarti al telefono, che devo chiamare mia figlia!

    G., ottenuto il via libera, s'accese la sigaretta sulla soglia, mentre il segretario, assumendo un’espressione contrariata e offesa, incollò lo sguardo al monitor che aveva davanti, per cominciare a battere sui tasti con una certa forza. Daniele, chino sulla schiena e il viso stravolto, passò di corsa spingendo un carrello carico di vettovaglie. A G. parve uno di quei carrettieri che andavano avanti e indietro lungo i binari delle stazioni ferroviarie. Fu attraversato per un attimo dal dubbio che avrebbe dovuto aiutarlo, salvo poi, seguitando placido a fumare, reputare già un successo l’essersi trattenuto dall'ordinare un sacchetto di pistacchi e un’acqua tonica. Trascorso qualche minuto, dopo aver servito il pranzo alle terapiste, Daniele fu di ritorno, per condurlo al piano superiore. Salite due rampe di scale trovava dunque luogo il terrazzo, la seconda zona franca per i numerosi tabagisti del CRIS, dopo la piccola cucina del piano di sotto. Mancavano ancora alcuni gradini al termine di quella breve ascesa, quando il cairese notò, dietro una porta a vetri dall'aria antica, incorniciata in un telaio di frassino, e semi-coperto da uno squadrato pilastro color ocra, un vecchio ed elegante bancone da bar, nonché svariate sedie bianche in ferro battuto disposte lungo la ringhiera prospiciente. Ormai giunti in cima, dalla penombra della porta chiusa alla loro sinistra, sortì all’improvviso una flessuosa figura castana, anch'essa, come le terapiste, in abiti leggeri: pantaloni di tuta rosa, una maglietta celeste e un paio di zoccoli nivei da infermiera ai piedi costituivano il suo sobrio abbigliamento.

    -Buongiorno, Marta!

    -Ciao, Daniele. Tu sei il nuovo obiettore, immagino, - gli sorrise con dolcezza. -Stavo giusto venendo giù a conoscerti. Su, entra.

    G. la seguì lungo un corridoio poco illuminato, con le porte ai lati chiuse e la grande sala in fondo rischiarata da una forte luce. Percorsi una decina di metri accedettero all’ultima stanza a sinistra: l'imposta s'aprì su un ampio salone, dove una moltitudine di persone s'aggirava intorno a due lunghi tavoli disposti in modo parallelo. Gli sguardi dei presenti convennero su G., che sentendosi a disagio divenne rosso.

    -Avanti, non stare sulla soglia, - lo sollecitò Marta.

    -Salve a tutti, - fece.

    Un numero imprecisato di ciao, accompagnato ognuno da un sorriso, riecheggiò alle sue orecchie. Alcuni visi attirarono più degli altri la sua attenzione, per la radiosità degli occhi che li abitavano. Il suo cervello stava cercando di immagazzinare ogni dato possibile su quei tratti ancora estranei, quando dietro di lui si levò uno stridio di ruote, suonò una trombetta che lo fece sobbalzare e al grido di -Forza Doria! , irruppe alle sue spalle Armando, la cui carrozzella era sospinta da un uomo stempiato che, a prima vista, gli parve un nano da circo che spingeva l’auto d'un clown. Una ad una le operatrici della struttura si presentarono. Avrebbe impiegato giorni, a ricordare ogni nome, G. decise allora di concentrarsi su coloro che più lo attraevano. Conobbe quindi le tre colleghe di Marta, ovvero le assistenti Valeria, Doriana e Natasha, poi i due autisti del pulmino, cioè Alfonso, il nano calvo, che ad una seconda occhiata si rivelò un po’ più alto, e Luna, infine altri tre disabili, due dei quali, come il murialdese, si trovavano confinati sulla carrozzella. Una di questi era Biondina, una giovane donna bruna dotata di due magnifici occhi neri, che si sforzava di sorridere sempre. Lo informarono che mancava ancora il loro capo, ovvero l’educatrice Mirella, che dopo sei mesi di malattia sarebbe rientrata la settimana seguente. Tramite il montacarichi salirono le pentole con il pranzo e le stoviglie, Valeria e Marta si premunirono d'apparecchiare. G. prese posto accanto a Daniele e agli altri due maschi, ai quali dopo pochi minuti, salendo dal pianoterra, s'andò ad aggiungere il fisioterapista Ilario. Il cairese non sapeva che dire, ma non venne sottoposto ad alcuna raffica di domande. Soltanto dopo che gli fu chiesto cosa facesse nella vita (- Prima di oggi? Niente di particolare, sono il classico disoccupato, - si limitò a rispondere vago) i dialoghi ripresero a dispiegarsi come in una famiglia, con relativi gradi di confidenza e partecipazione piuttosto alti. Le assistenti e la autista vociavano di vestiti, di ricette, di ferie arretrate ecc. Fatta eccezione per Valeria, sebbene da poco, avevano tutte superato i trent’anni. Doriana e Marta vantavano già un figlio. Gli uomini attaccarono a discutere di vicende pallonare. G., pur non essendo un gourmet, trovò il pranzo una schifezza: la pasta era scotta, mentre le zucchine al forno svilite da un sapore oltremodo acido. Saltato il cosiddetto secondo s'alzò, e dopo essersi scusato uscì ad accendersi un’altra sigaretta sul terrazzo.

    -Ciao, Sara.

    -Che diavolo ci fai, qui? Non ti voglio più vedere, vattene!

    -Aspetta, fermati un attimo, ti devo parlare, spiegarti...

    -Vai via, sei un bastardo! Levati dai coglioni o t'ammazzo!

    Il marciapiede s’allontanava. G. arrancava, sentiva mancare l’aria.

    Beep, beep, beep...

    -Sara, aspetta, non puoi andartene così!

    Beep, beep, beep...

    -No, Sara!

    Beep, beep, beep...

    -MALEDETTA SVEGLIA DEL CAZZO! - imprecò G. afferrandola e scagliandola contro il muro. -CHE CAZZO D'ORE SONO! Ma porca d'una puttana, già le cinque e mezza.

    Dall’altra camera, a dispetto di quel trambusto, seguitava a provenire un ronfare di gran lena. Fuori dalla finestra il buio era fitto, il suo letto completamente sfatto. G. iniziò a raccogliere i pezzi della sveglia sparpagliati sul pavimento. La sua gatta, passato lo spavento, lo osservava infastidita, mentre dal piano inferiore, inesorabili come nebbia in inverno, si insinuavano alle sue orecchie i lamenti dei vicini.

    Sotto la pensilina sostava una ragazza bruna. G. ignorava andassero di moda i pantaloni a scacchi bianchi e neri. Non gli interessava poi molto di come vestissero le adolescenti italiane, fatto sta che l'occhio cadde subito su quei quadretti. C’avrebbe volentieri giocato a dama sopra, e non escluse del tutto che la studentessa recasse in tasca le pedine. I lunghi capelli neri le ricadevano sulle magre spalle, contornando un viso impreziosito da un'espressione incerta.

    -Sei arrivata presto, oggi, - le si rivolse un'amica appena giunta.

    -Mi sono alzata mezz’ora prima per ripassare storia.

    -Si vede, hai due occhiaie da camionista.

    Subito dopo s'aggiunsero loro due coetanee. Le quattro giovani, una più carina dell’altra, unite nell’affrontare il penultimo anno di magistrali, sembravano formare un micromondo ove s'affollava un mare di solidarietà, ben lontano dalla durezza delle metropoli, meditò G. osservandole discreto. Trovava il loro numero perfetto: uno significava solitudine, due eccessiva intimità, tre esclusione, mentre quattro prometteva infinite possibilità. Provò una repentina invidia per quella piccola ma affiatata banda, ripensando al tempo perduto, a come la scuola, pochi anni prima, si fosse astenuta dal regalargli momenti simili, si sorprese così a spiarle a lungo, leggendo sui loro volti il piacere conferito dallo stare insieme. Quando il campanello iniziò a suonare, G. s'alzò dalla panchina di ferro e lanciò un sorriso lieve in direzione della brunetta, che non ricambiò, ma arrossì un poco, mentre ostentando indifferenza seguitava a parlare con le amiche. L'obiettore s'allontanò lungo il binario, sino a raggiungerne il fondo. I numerosi pendolari, malgrado le brutte facce, assonnate quanto ingrugnate, non gli parvero poi troppo malvagi. Essendo marzo i più freddolosi portavano ancora i guanti. A tratti si levava un fastidioso vento di tramontana. Mentre l'oscurità andava schiarendo G., sentendo che i suoi sogni evaporavano con l’alba, rimpianse la notte. Avrebbe voluto tornare accanto alle studentesse, cercare di rubar loro qualche segreto per tenersi a galla, ma restò dov'era, per iniziare a scambiare quattro chiacchiere con un impiegato delle funivie provinciali, ovvero quei vagoncini aerei appesi al cielo che facevano la spola tra l’entroterra ed il litorale per trasportar carbone, e che da sempre lo incuriosivano. L'uomo, fratello maggiore di un suo compagno delle elementari, esordì parlando di soldi.

    -Ma lo sai quanto guadagna un macchinista delle ferrovie con venticinque anni di anzianità? - fece concitato. -Lo sai quanto?

    -Francamente no, - scosse il capo l'obiettore.

    -Ne conosco uno che lavora dodici ore al giorno, comprese le pause, e lo sai quanto prende? Prova a indovinare.

    -Boh, non ne ho idea.

    -Cinque milioni e mezzo al mese! - esclamò l'impiegato come se la questione fosse per lui di vitale importanza, e rischiasse di accelerare il compimento della sua precoce calvizie.

    -Che storia, - si trattenne a stento dallo sbadigliare G., pensando alle cinquemila lire e spiccioli che gli sarebbero spettate come rimborso spese.

    -Chiedi a quel mio amico capotreno, ormai li conosco tutti. D'altronde sono rimasti talmente in pochi, dopo gli ultimi tagli... Un altro fa tre ore di straordinario, e sai a quanto? Lo sai a quanto? Novecento lire al minuto! Pensa, no-ve-cen-to lire al minuto. Nette.

    -Un caffè al minuto, - commentò G., per poi sviare lo sguardo sul binario.

    Dopo che il campanello ebbe smesso di suonare, il chilometrico regionale delle sette spuntò dalla curva alla sua sinistra, per entrare flemmatico in stazione. Uno studente alto e biondo, con un enorme zaino azzurro sulle spalle, percorse correndo gli ultimi metri che lo separavano dal treno, ma le porte gli si chiusero in faccia, un altro poco distante procedette invece a passo lento, per poi osservarlo soddisfatto mentre ripartiva. G., non appena poté sedersi, chiuse gli occhi. Il discorso dei suoi vicini si spostò presto dal tempo al calcio, argomento di distrazione prediletto per definizione. Cercò di prendere sonno, ma gli risultò impossibile. Mentre quelli sproloquiavano riguardo gli emolumenti miliardari dei calciatori G., in attesa di cominciare il suo secondo giorno al CRIS, rifletté ancora circa la sua futura paga. Immaginò di gettare le cinque banconote da mille da un balcone, con una trepidante folla che urlava nella piazza di sotto, poi lanciava le monete, una delle quali colpì alla testa un vescovo, che agitò in aria il suo pastorale, prima di scomparire risucchiato dalla marea umana. Trascorsi pochi minuti il convoglio arrestò la sua corsa nella stazione successiva, quella di San Giuseppe di Cairo, da dove transitavano i treni per Torino. Dischiuse le palpebre G. gettò lo sguardo sul marciapiede di fronte, salvo tirare subito la tendina: aveva riconosciuto una cugina che attendeva il regionale per Fossano, e voleva evitare di venire scorto. In tal caso si sarebbe sentito costretto a salutarla con un minimo d'educazione, quando avrebbe preferito farlo col dito medio alzato in bell’evidenza. Non aveva mai tollerato l'atteggiamento supponente e presuntuoso, da prima della classe, di quella semplice professoressa di lettere delle scuole medie inferiori, tanto da reputarla degna d'essere collocata tra il peggio dell'umanità. Per sua fortuna il locomotore diede presto un rapido strappo, sottraendolo all’avvilente scena della saputella che inondava con le sue profondissime conclusioni un povero malcapitato, il quale, il sorriso forzato e gli occhi imploranti pietà, aveva tutta l’aria di voler fuggire con la fiammiferaia di Kaurismaki, mentre l’isteria torrentizia della divulgatrice di Stato si palpava nell’arco di decine di metri.

    Poco fuori dal nucleo abitato s'ergevano ad ogni angolo fabbriche e capannoni in uso e in disuso, ubicati ai piedi di verdi colline cui quelle scarpe di cemento calzavano davvero male.

    Secondo capitolo

    I primi giorni di G. al CRIS trascorsero senza troppi sussulti. Trovando che la mole di lavoro fosse tutt'altro che considerevole il valbormidese si limitò a osservare Daniele, in modo da analizzarne il comportamento e studiarne i gesti. Alcuni operatori gli parevano piuttosto scontrosi, colpiti forse dal male incurabile che affligge ogni infermiere dopo l'iniziale periodo d'entusiasmo, pensò.

    Il piano di sopra corrispondeva a una comunità denominata La Margherita, ove il recupero degli handicappati consisteva nell’insegnare, a chi era in grado di svolgerle, le più svariate attività manuali, affinché occupassero in maniera costruttiva la giornata, e nello spingerli a socializzare con l'educatrice, le assistenti, gli autisti e gli obiettori, dimodoché la loro vita assumesse una parvenza di placida normalità. Di sotto ferveva al contrario un umano rumoreggiare, dettato dall’incessante vociare delle fisioterapiste e dei bambini. G., notandone uno sfrecciare in bicicletta lungo il corridoio, si soffermò a riflettere sulla necessità o meno di diventare adulti, e su cosa ciò significasse, quando dalla sala grande spuntò Maria in compagnia del collega: il loro arrivo ebbe l'immediato effetto di drizzargli le antenne.

    -He,he,he, - ridacchiò come di consueto Daniele. -Poi non so, cioè, proseguirò gli studi, è chiaro: ho già dato la metà degli esami, e ormai devo finire.

    -Bravo! - lo adulò lei. -Sono convinta che diventerai un ottimo avvocato, se è quello che desideri. Vorrei tanto che restassi qui con noi, sei stato il migliore che abbiamo avuto, ma non possiamo certo chiederti di continuare con 'sti lavoracci. Uno come te può ambire a ciò che vuole, meriti molto di più, insomma.

    -He,he,he..., - rise ancora Daniele avvicinandosi a G., che istintivamente sentì d'odiarlo.

    -Comunque nun me ne vado mica domani, - attaccò a parlare in romanesco il vecchio obiettore. -Aò, Maria, che stai a pensa'? He,he,he... Starò ancora due mesi, qui.

    -DANIELEEEEEE!!! - lo chiamò Emanuele dalla segreteria.

    -ARRIVOOOOO! - si precipitò lui.

    Da quando era esploso l’ultimo conflitto nei Balcani G., stanco di troppe bugie e grossolane omissioni, aveva smesso di leggere i quotidiani, ma per far scorrere più alla svelta il tempo al CRIS decise di ricominciare. Escludendo tutto il resto, trovava che certe pagine dedicate alla cultura e agli spettacoli avessero ancora qualcosa di interessante da dire. Poi c’era sempre quel signore, l'ingegner Montani, che sfogliava Liberazione mentre sua figlia era in trattamento: siccome lo lasciava in giro di proposito per propagandare le idee di Rifondazione Comunista il cairese, non di rado, ne approfittava per leggerlo a sbafo. Percepì che il suo contegno schivo rischiava di farlo passare per un asociale, ma atteggiarsi altrimenti per compiacere gli altri, come fosse un obbligo, tradendo in pratica sé stesso, lo reputava poco dignitoso. Ilario, con quel suo sguardo gelido, perennemente privo di slanci emotivi, che lo rendeva simile ad un attore porno dopo tre giorni di estenuanti riprese, continuava a spaventarlo, mentre le altre fisioterapiste erano sempre affaccendate, quando non intente a sorbire litri di caffè o a fumare una sigaretta dopo l'altra. Esisteva una stanza apposita per le pause, ovvero la piccola cucina sita accanto alla sala principale. Nonostante potesse essere considerata a tutti gli effetti una camera a gas, G. vi si fermava spesso con il giornale dell'ingegnere in mano. L’unica che non vi accedeva quasi mai, in quanto strenua nemica del fumo, era Ginevra. Lo stesso Daniele, ogni tanto, beneficiava di qualche boccata di Marlboro. L'obiettore, molto vezzeggiato in tutto l’istituto, si alternava tra i due piani, per conversare con chiunque gli capitasse a tiro. Dopo dieci mesi di servizio faceva ormai parte della famiglia, mentre G. saliva alla Margherita soltanto per mangiare, in quanto la dottoressa lo aveva assegnato al piano inferiore, per fare tirocinio e calarsi da subito nell’ambiente, così gli disse. La dottoressa era una donna minuta, di mezza età ma abbastanza giovanile, dai ricci capelli bruni, abbigliata di norma con sobri tailleur dai colori scuri. Soleva trascorrere gran parte delle ore al CRIS chiusa nel suo studio a ricevere i genitori dei piccoli, concordando con loro le terapie da seguire, oppure da sola a studiare i vari casi, al punto che la si scorgeva di rado nelle altre sale. Spesso poi non c’era proprio, in quanto in giro per convegni e corsi d’aggiornamento vari. Sebbene le fisio godessero d'un ampio potere decisionale l’ultima parola, almeno sulla carta, spettava a lei.

    Oltre a osservare il collega, fumare e sfogliare le pagine culturali dei giornali, G. non faceva altro, se non riempire la vasca d’acqua calda per il bagno di Armando e pulire, con straccio e amuchina, i tappetini di gomma blu usati dai pazienti. Quando notava Daniele correre chissà dove lo lasciava andare senza manifestare troppa curiosità. Il suo atteggiamento passivo insospettì da subito le alte sfere, nella fattispecie il segretario Emanuele. Per sua fortuna in cucina c’era sempre almeno una terapista, a condividere con G. il vizio del tabagismo, le sortite poliziesche dell’a lui inviso zoppo non sortirono così effetto, anche perché adempiva comunque alle attività basilari: pur essendo il minimo sindacale non gli si poteva rimproverare di lasciare i tappetini sporchi, né la vasca vuota, l'apatia però lo divorava: G. intuì con una certa chiarezza che avrebbe dovuto aprire la porta di quella saletta più spesso per tornare ad assistere ai trattamenti, anziché barricarsi al suo interno per delle mezz'ore intere. Peccato che, a parte il fatto che ancora non sapeva relazionarsi coi bambini, lo disturbasse notare la fatica che producevano per camminare con le stampelle, o con quelle impalcature metalliche intorno alle gambe, oppure per cercare di muovere correttamente le braccia e le mani danneggiate. Si trattava quasi sempre di fanciulli molto vivaci, la maggior parte dei quali intelligenti quanto i coetanei più fortunati. G., consapevole di non poterli aiutare a guarire, si scopriva amareggiato, nel vedere i disperati e anomali movimenti di quei piccoli arti, ma allo stesso tempo avvertiva una sorta di freddezza, come fosse quello lo spettacolo più logico della terra. Ne dedusse che stava cominciando in fretta a interiorizzare tutto, ad abituarsi allo status quo, come ormai da anni era accaduto alle dipendenti del CRIS. Soltanto sul viso di alcuni genitori si leggeva ancora una certa malcelata inquietudine.

    In occasione del pranzo tendevano a formarsi dei gruppetti ben precisi, con le donne sedute al tavolo posto lungo le finestre e gli uomini assisi presso l'altro, prossimo al muro interno e alla porta. Siccome il cibo della mensa non incontrava chissà quale gradimento le quattro assistenti, nonché la autista Luna, si dividevano spesso un primo o un’insalata preparati da una di loro. I disabili meno gravi, Biondina, Gina e Maurizio, potevano mangiare con gli altri, mentre i più malmessi dovevano essere imboccati.

    G., nell'apprendere che l'assistente Natasha era la moglie dell'autista Alfonso, si domandò per quale strana ragione una donna dall'aspetto così attraente avesse finito col convolare a nozze con un uomo che non gli pareva possedere molte qualità, bensì, al contrario, una dubbia avvenenza fisica unita a un pessimo carattere. Il fatto che, fuori dal CRIS, lavorassero presso il medesimo negozio di scarpe, gli sembrava inoltre di cattivo gusto: non capiva come facessero a sopportarsi, trascorrendo quasi tutta la giornata insieme. L’unica spiegazione possibile fu che dovevano amarsi molto, concluse.

    I due coniugi, quel martedì, discutevano di cinema con Daniele. G., che non aveva ancora un posto fisso, gli si sedette accanto, così da poter udire meglio i commenti sul film campione d’incassi in Italia. Le loro argomentazioni finirono presto col turbarlo: provò a eccepire di come l'attrice spagnola oggetto di tali attenzioni non sapesse minimamente recitare, tenendo lo schermo solo grazie a un paio di labbra e di enormi seni di lampante estrazione artificiale, finché non venne fulminato dallo sguardo carico di sarcasmo d'Alfonso.

    -Ah sì? E a te non piacciono quelle tette? - fece deciso l'uomo. -Abbiamo un altro obiettore dell’altra sponda?

    Gli occhi di Daniele, sentendosi tirato in causa, ebbero un subitaneo sussulto, presto celato dal rapido gesto d'un bicchiere d’acqua sollevato verso la bocca.

    -Ma quale sponda, - replicò G. -Non sto mica dicendo che non sia avvenente, semmai che...

    -Guarda che la Carmen non me la devi toccare! - intervenne dall’angolo in cui sfogliava un quotidiano sportivo Armando. -Io una così la terrei giorno e notte legata al letto.

    -Forse volevi dire al lettino, - sorrise ironico G.

    -Ha due gambe che ti mozzano il fiato! - continuò il disabile, fingendo di non aver udito.

    -E due occhi che ti rapiscono! - rincarò la dose Alfonso, mentre la moglie, seccata, guardava altrove.

    -E vogliamo tacer del culo? - insistette con sguardo sognante Armando. -Sembra scolpito nel marmo di Carrara!

    -Oltre ad essere una pessima attrice è rifatta dalla testa ai piedi, - ribadì G.

    -E allora? - riprese Alfonso. -Non ha forse il diritto d'abbellirsi, se lo desidera? Che poi, secondo me, sarò scemo ma mi sembra tutta naturale.

    Gli sguardi si moltiplicarono nella loro direzione: alcuni, specie tra le donne, parevano solidali con le esternazioni pseudopuritane del nuovo arrivato, altri piuttosto ostili. Il cairese, desideroso di porre fine alla questione, tirò fuori di tasca una sigaretta e s'apprestò ad accenderla, ma ciò non fece che peggiorare la situazione: mentre Alfonso e Armando riprendevano a tessere le lodi di quella boiata di pellicola che lui non avrebbe visto per tutto l’oro del mondo, Biondina, seduta all’estremità opposta, chinò con espressione dolente il capo. G. si chiese che le avesse preso, dato che era convinto di riscuoterne le simpatie, visto che sovente gli sorrideva. Ilario, con un'aria di superiorità e disprezzo dipinta in volto, per la testa qualche pensiero impenetrabile, gli sedeva di fronte. Terminato di mangiare l'uomo s'erse in tutta la sua mole, fece il giro del tavolo e si piazzò alle sue spalle.

    -E’ preferibile non fumare, in sala da pranzo, - sentenziò. -Come puoi ben vedere ci sono anche i disabili.

    Estratta dal taschino della camicia una Diana Blu, notando che anche il suo piatto era ormai vuoto, lo invitò quindi a seguirlo. Mentre gli altri continuavano a discutere del più e del meno Daniele, con la coda dell'occhio, li osservò allontanarsi.

    Dal terrazzo si poteva scorgere il mare, uno spicchio azzurro di spumeggianti onde distante poche centinaia di metri, mentre il resto del paesaggio era composto dalle morbide colline che cingevano l'edificio. Alle loro spalle un vento leggero trasportava impercettibili granelli di polvere sul bancone del bar, ancora inattivo dopo la chiusura invernale: avrebbe riaperto entro pochi giorni, con il ritorno della primavera e dell’educatrice Mirella, la comandante della Margherita. La superficie delle sedie bianche in ferro battuto era piuttosto fredda, ciò nonostante s'accomodarono.

    -Che fai, nella vita? - domandò a bruciapelo Ilario non appena s'ebbe acceso la sigaretta.

    -L’obiettore, - ribatté indisponente G., prima di dar fuoco alla sua.

    -Guarda che lo abbiamo notato, che non hai voglia di fare un beato cazzo: sta' attento, Emanuele ti tiene d’occhio.

    -Non credo che quel che afferma rispecchi la realtà.

    -In che senso? - aggrottò la fronte il terapista.

    -Il fatto è che non ho ancora ben chiari i miei compiti, - specificò G. -Non conosco ancora bene tutti, e a parte pulire i tappeti e stare a guardare i malati non mi sembra ci sia molto da fare.

    -Invece c’è! - esclamò l'uomo con un tono che non ammetteva repliche, e che conferiva al suo aspetto quello di un sergente che striglia delle reclute alquanto restie a conformarsi alla disciplina richiesta.

    Un pettirosso si posò sulla ringhiera, fece un paio di saltelli, si guardò intorno e, fiutata l'atmosfera tesa, volò via.

    -Sta passando Daniele, - continuò Ilario scorgendolo mentre scendeva le scale. -Cerca di stargli vicino, e osservalo bene, mentre lavora, infine prendilo ad esempio.

    -Ma veramente quello è quasi sempre di sopra a chiacchierare, - protestò infastidito G.

    Ilario, giudicando esaurito il suo incarico pedagogico, s'alzò senza replicare, gettò il mozzicone ancora a metà in terra e girò dietro il bancone. Reperito un bicchiere di carta lo riempì d’acqua, che bevve mandando giù una pastiglia estratta da una scatolina tenuta in tasca, infine se ne andò, per rientrare nella struttura e tornare di sotto. L’obiettore, lasciato solo, si ritrovò suo malgrado a riflettere per qualche minuto sulla reprimenda subita. Forse avrebbe dovuto davvero cercare di darsi un po' più da fare, pensò. Forse quell’uomo aveva ragione, continuò, era una specie di santo che voleva aiutarlo, prima che qualcuno dotato di maggior potere lo riprendesse in modo serio.

    -Al diavolo, alziamoci!, - esclamò tra sé, prima di scendere a sua volta.

    Al piano inferiore, nel corridoio deserto, una giovane e attraente bionda che G. non aveva ancora incontrato rideva e scherzava con Daniele, il quale, con risultati tragicomici, si ostinava a esprimersi in un romanesco maccheronico. Il cairese, fingendo di non stare a sentire, si fermò a sedere su uno sgabello rosso accanto alla porta. Malgrado tale precauzione venne subito scorto.

    -Chi è, quello? - domandò la ragazza.

    -Ah, lui? - fece Daniele. -E’ il nuovo obiettore, non l’hai ancora conosciuto?

    -No.

    -Vieni, allora, che te lo presento.

    -Grazie, - acconsentì lei, per poi decidere d'anticipare tale intervento facendo da sé. -Oohhuuu, obiettooore? Che fai lì?

    -Aspetto il tram.

    -Io sono Gabriella, - sorrise allegra la donna con una vocina aggraziata. -Sono una fisioterapista, e torno oggi dopo due settimane di malattia.

    -Strano, sembra il ritratto della salute, - la prese in giro G., divertito da quella didascalica autopresentazione.

    Il viso florido e gli occhi verdi e vivaci, la carnagione di Gabriella appariva d’un rosa luminoso, che ricordava i mandorli in fiore, mentre i suoi lunghi e lisci capelli castani profumavano di fresco. In attesa di cambiarsi indossava una minigonna viola ed un giacchetto nero di finta pelle. G. cercò di vincere la tentazione di incollare gli occhi sulle sue gambe affilate, sforzandosi senza troppo successo di guardare più in alto.

    -Sei quello nuovo, giusto? - domandò lei.

    -Per servirla. Veramente incantato, - s'alzò finalmente in piedi lui, facendo storcere il naso al collega più anziano, immobile come una statua di cera a pochi metri di distanza.

    -Ehy, qui ci manca solo il baciamano, - rise la terapista. -Non fare il furbo con me, ok? Speriamo tu sia bravo come Daniele.

    -Io? Molto di più, non si preoccupi. Mi vuol già mettere alla prova?

    -La pianti di darmi del lei? - replicò Gabriella arrossendo un poco. -Che poi avremo quasi la stessa età: ho soltanto ventisei anni, io, e non sono abituata al lei.

    -Va bene, come desideri, - sorrise sornione G. -Hai davvero le sembianze di una creatura incantevole, seppure un po' più vecchia di me. La tua apparizione mi ha abbagliato in un momento di profonda mestizia, sono pertanto certo che nei prossimi mesi andremo d’amore e d'accordo, giacché di fronte a cotanto splendore sono pronto a tramutarmi nel più fedele degli schiavi.

    La bella rimase allibita per qualche istante, le grandi gemme verdi spalancate e la bocca socchiusa pronta a erompere in una risata.

    -Hey, abbiamo un nuovo poeta provenzale, al CRIS? - replicò quindi. -Tranquillo, nessuno vuole avere uno schiavo: malgrado le apparenze non siamo così terribili, qui, comunque penso che potresti essermi utile.

    Detto ciò gli strizzò un occhio.

    -La servirò tutte le volte che desidera. Pardon, madame, - si corresse G. -Ti servirò tutte le volte che lo vuoi, e senza mai esserne stanco.

    -Ha,ha,ha! - rise ancora lei, per poi sfilargli accanto, oltrepassare la porta e avviarsi verso le scale che conducevano agli spogliatoi. -Ci vediamo, gentiluomo.

    -Addio, mia amata! - esclamò lui. -Non hai bisogno d’aiuto, adesso?

    -Mi so ancora svestire da sola! - rispose ad alta voce la graziosa, iniziando a scendere i gradini.

    -Peccato! - le gridò dietro il valbormidese, visibilmente eccitato.

    -Ah, come ti chiami? - urlò a sua volta Gabriella.

    -G.!

    -Bel nome!

    E così dicendo, l'eco dei tacchi a rimbombare nel silenzio del primo pomeriggio, si perse nei meandri dell’edificio. G., ormai pazzo di lei, avrebbe voluto raggiungerla nel sotterraneo e scoparla contro un armadietto, ma reputò più saggio limitarsi a voltarsi in direzione del collega, che appoggiato al muro non aveva più aperto bocca.

    -Madonna, che gnocca! - affermò. -Perché non me l’hai detto prima, che tornava oggi? Mi sarei vestito un po' meglio, guarda che razza di stracci ho addosso.

    -In effetti Gabriella è molto simpatica, - replicò scuro in volto Daniele. -Cosa voleva, Ilario?

    -Mah, niente, - sviò lo sguardo G. -Era per il bar, boh, manco me lo ricordo...

    -Tra poco arriverà Yuri, - riprese il vecchio obiettore. -Come puoi ben notare ho già cominciato a riempire la vasca. L'unica differenza è che l’acqua deve essere di qualche grado meno calda, rispetto al mattino.

    -E chi sarebbe, questo Yuri, uno tipo Armando?

    -Macché, Yuri è un bambino: ha solo nove anni.

    -Mmm, che palle, un altro bambino... Lo sai che non li sopporto. E cos’ha, di brutto?

    -Distrofia muscolare, - rispose Daniele.

    -Mi spiace, soltanto nove anni e ha già la distrofia, - tornò finalmente serio G., smettendo al contempo di vagheggiare la terapista.

    In quel breve periodo, malgrado l'indubbia indolenza, aveva osservato bene i pazienti in cura al CRIS, pertanto non ignorava di come quella malattia concedesse scarse speranze di guarigione.

    -In fase avanzata? - chiese.

    -Sì, non cammina più, o meglio, porta i tutori, con quelli un po' ce la fa. Per il resto è tutto ok. Certo non aspettarti sia una cima.

    -Cazzo, ma se ha ancora nove anni! - replicò irritato G., la cui stima verso Daniele, da quando aveva cominciato il servizio, decadeva ogni giorno di più. -Tu a nove anni eri già laureato?

    -Come? - fece sorpreso l'altro.

    -Magari è simpatico, no?

    -Sì sì, simpaticissimo... A me è simpatico.

    Le guance in fiamme, Daniele accedette al vicino bagno, uscendone poco dopo con una borsetta rossa. Seguito da G. entrò nella stanza dirimpetta, quella adibita alla terapia idrica, estrasse quindi dalla borsa un piccolo accappatoio bianco, un costume blu e un asciugamani azzurro, per adagiarli sopra la stufetta elettrica che aveva acceso poco prima.

    -Che idiota, - esclamò battendosi la fronte. -Ho dimenticato le lenzuola.

    Detto ciò tornò ancora in bagno, aprì l’armadietto e ne estrasse due lenzuola bianche, che andò a posare a sua volta sul termostato. Un lungo tubo di gomma giallo, collegato alla parte inferiore del rubinetto del bagno, attraversava il corridoio per entrare nella stanza, che tutti per comodità chiamavano piscina, s'arrampicava dunque sulla vasca rotonda gonfiabile, per colmarla lentamente d’acqua.

    -Vieni con me, - ordinò Daniele.

    Tornati in bagno mostrò a G. la manopola per regolare la temperatura.

    -Se si inceppa chiama Ilario, non stare a girarci intorno, tanto provare a sbloccarla è del tutto inutile.

    -Vuoi forse dire che lui è più forte di me? - sorrise G., per poi sollevare la maglietta nera che aveva su quel giorno, scoprendo una discreta scolpitura degli addominali e dei pettorali ben fatti.

    -Ma cosa fai? Rivestiti! - arrossì Daniele turbato. -Se viene qualcuno?

    -Beh, siamo tra uomini, no? - considerò G.

    -Su, rimettila, non siamo in spiaggia.

    -Hai paura che ci vedano e pensino male? Sei troppo serio, Daniele, te lo dico io, che sono la serietà in persona.

    -Serio tu?! Insomma, - rise il vecchio obiettore, cercando a fatica di riacquistare un minimo di disinvoltura. -Dunque, ti stavo illustrando il corretto funzionamento della piscina. La vasca, come per Army, impiegherà dai quindici ai venti minuti, per riempirsi, pertanto occorre prepararla per tempo. Oggi siamo in netto ritardo, visto che tra dieci minuti l’auto della Croce Verde sarà qui.

    -Potevi dirmelo, invece di stare a parlare con la figona, - scherzò G. -Di' la verità, piace anche a te, o no? Non contare palle.

    -Guarda che io parlo con chi voglio! - s’inalberò Daniele.

    -Ehy, ma cosa ti succede? - replicò G. sorpreso.

    -Io parlo con chi voglio, non devo renderne conto a te!

    -Sì sì, ma certo, - sorrise il cairese, nel tentativo di trarsi d'impaccio. -Certo che puoi parlare con chi vuoi, non posso mica impedirtelo, no? Guarda, facciamo così: oltre a parlare con chi vuoi da questo momento puoi parlare anche con chi non vuoi. E con i muri, con gli uccelli, se hai tendenze francescane, con i limoni...

    -Te sei strafatto, - scosse il capo Daniele, producendosi in una smorfia.

    Scoccate le tredici, le dipendenti del centro si trovavano ancora a tavola. Nel silenzio da cui erano circondati, i due giovani potevano udire il riecheggiare delle risate provenienti dalla sala da pranzo delle terapiste, situata a metà del corridoio dell’altra ala del piano, alla sinistra dell’ingresso. All'improvviso suonò un clacson.

    -Merda, è in anticipo, - fece Daniele. -Te aspetta qua.

    -Ai suoi ordini, maresciallo! - si mise sull'attenti G.

    Daniele lo guardò in modo strano, quindi attraversò la porta lasciata aperta da Gabriella, prese a sinistra in direzione dell’uscita e corse fuori. G., non trovando alcun motivo per rimanere lì da solo, raggiunse a sua volta l’atrio. Nel mentre Alfonso scendeva le scale a larghi passi, la cui eco rimbombava minacciosa come un urlo in un burrone. L'uomo impiegava gran parte del suo tempo sul pulmino, per fare la spola tra il CRIS e i vari quartieri di Savona, dove si trovavano le abitazioni e le scuole degli utenti. La sua esilità rompeva il luogo comune sull’autista grosso e prestante.

    -Hey, obiettore, hai già fatto un giro sul pulmino? - gli domandò bruscamente.

    -No, - scosse il capo lui.

    -Allora vieni, su. Naty, va bene se viene con noi? E’ la prima volta.

    -La prima volta? D'accordo, vieni, - acconsentì la moglie. -Ma prima chiedi se devi restare.

    -A chi devo chiedere, alle terapiste?

    -Alle fisio, a Emanuele, al sindaco... Domanda a chi ti pare, basta che ti sbrighi, - replicò l'autista prima di uscire.

    In segreteria non c'era nessuno. G. aprì piano l'imposta che dava sul corridoio di sinistra, da dove provenivano le voci delle terapiste a

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