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La bionda che inganna: eLit
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E-book348 pagine5 ore

La bionda che inganna: eLit

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Info su questo ebook

L'agente immobiliare Kaye Winslow è scomparsa nel nulla, lasciandosi dietro, in una delle case in vendita che doveva mostrare a un cliente, la propria carta di credito, il BlackBerry e il cadavere di un uomo non identificato. La socia e cognata di Kaye, Mia DeLucca, vuole vederci chiaro, soprattutto per tranquillizzare la nipote, che crede di essere indirettamente responsabile della sparizione della matrigna. Ed è frequentando la polizia che Mia si invaghisce di Doug Policzki, il detective della omicidi incaricato delle indagini. Intanto Doug scopre che Kaye non è esattamente una persona amabile, e la cerchia dei sospetti si allarga.

LinguaItaliano
Data di uscita28 ago 2014
ISBN9788858927991
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    Anteprima del libro

    La bionda che inganna - Laurie Breton

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Point Of Departure

    Mira Books

    © 2007 Laurie Breton

    Traduzione di Maria Barbara Piccioli

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2014 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5892-799-1

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Prologo

    Grazie a Dio era ottobre.

    Fino alla fine di settembre, Boston era stata così calda che lei aveva temuto di sciogliersi mentre camminava sul marciapiede. Ottobre, però, aveva constatato Kaye Winslow percorrendo Comm Ave alla ricerca di un parcheggio, era molto vicino alla perfezione. Le giornate erano ancora tiepide e le notti gradevolmente fresche. Il cielo, non più offuscato dalla foschia estiva, era di un azzurro vivido, e visibile a tratti attraverso le fronde verdi punteggiate di chiazze di rosso e oro brillante.

    La fortuna era con lei, pensò nel vedere un posto vuoto sul lato opposto della strada. In Dartmouth approfittò del semaforo rosso per svoltare a sinistra, tagliando la strada a un furgone che strombazzò in segno di protesta. Girò intorno allo spartitraffico riservato ai pedoni e invertì direzione di marcia per infilarsi con disinvoltura nello spazio vuoto, ignorando il cartello che segnalava che quel tratto di strada era per i residenti di Back Bay.

    Kaye spense il motore, e osservandosi allo specchietto retrovisore, eliminò una macchia di rossetto da un dente, poi prese la ventiquattrore di Gucci e scese dalla BMW.

    La casa era a mezzo isolato di distanza, un’imponente costruzione di pietra e mattoni situata nel quartiere più elegante di Boston. Ampia e alberata, nello stile dei boulevard europei e divisa in due da un’aiuola di verde rigoglioso che la differenziava dalle altre strade, anguste e congestionate, Commonwealth Avenue era il fiore all’occhiello della città. Era, di fatto, uno degli indirizzi più prestigiosi e, come amavano dire i colleghi di Kaye, l’indirizzo è tutto.

    Casa Worthington, e definirla casa era riduttivo, era stata costruita da Gerald Worthington nel 1886 ed era rimasta della famiglia per innumerevoli generazioni. Quando sei anni prima la matriarca era morta e si era sparsa la voce che gli eredi intendevano cedere la proprietà e spartirsi il ricavato, nel mercato immobiliare di Boston l’interesse si era immediatamente risvegliato. Non c’era agente che non fosse disposto a sacrificare qualcosa di importante per mettere le mani sulla casa, ma per un caso fortunato era stata Kaye Winslow che gli eredi avevano contattato.

    La vendita, il cui importo ammontava a sei milioni e mezzo di dollari, avrebbe dimostrato al mondo che la Winslow & DeLucca era in grado di tenere testa ai colossi del settore: ERA, Coldwell Banker, Century 21. La transazione avrebbe inoltre consolidato la reputazione di Kaye, permettendole di mettere fine al suo matrimonio farsa con Sam Winslow.

    Consapevole che il pensiero del marito le procurava sempre qualche ruga sulla fronte, Kaye si sforzò di rilassare i muscoli facciali. A trentatré anni era ancora troppo giovane per avere il viso segnato. Sam, però, sapeva quali pulsanti premere, e li premeva con immutabile regolarità. Erano sposati da due anni; anni in cui lei aveva assecondato ogni suo capriccio; in cui era sempre stata al suo fianco, impeccabile padrona di casa, moglie perfetta, e naturalmente, amorevole matrigna.

    Quando è troppo è troppo. L’utilità di Sam era venuta meno. Da lui, Kaye aveva avuto quello che voleva: la rispettabilità. In quanto sua moglie, si era assicurata la stima a cui aveva ambito da sempre. Tuttavia, ora che si era fatta un nome come membro rispettato del settore immobiliare, non aveva più bisogno di lui. Era arrivato il momento di liberarsene, come si fa con un vecchio abito. Era arrivato il momento di un nuovo inizio, una nuova vita che non includesse il professor Sam Winslow né la sua pazza rampolla anoressica.

    Kaye salì i gradini di granito e aprì la massiccia porta. Con le lampade da parete di ottone e la maestosa scalinata, fastosa quanto insolita in una casa di Back Bay di quell’epoca, l’ampio ingresso a due piani non mancava mai di toglierle il fiato. In quel momento, la stanza era inondata dalla luce pomeridiana che filtrava dai pannelli di vetro piombato del lunotto che sormontava la porta.

    Il rumore dei suoi tacchi echeggiava nello spazio vuoto, mentre Kaye passava di stanza in stanza, sollevando a una a una le tapparelle. C’era un vago odore di stantio, come sempre accade nelle case chiuse da tempo. Lei posò la ventiquattrore sul mobile della cucina, la aprì e ne estrasse l’arma segreta che non abbandonava mai. Una spruzzata qui e una lì, e l’aria soffocante assunse una deliziosa fragranza di vaniglia. Kaye conosceva tutti i trucchi in grado di rendere confortevole una casa disabitata; era stato il suo mentore a insegnarglieli, Marty Scalia, l’uomo che l’aveva presa sotto la sua ala e le aveva insegnato tutto quello che c’era da imparare sul mercato degli immobili. Solo alcune accortezze, fra cui l’uso di uno spray al profumo alla vaniglia, erano farina del suo sacco.

    Ripose la bomboletta e tornò nell’ingresso per darsi un’ultima occhiata allo specchio. Tailleur rigoroso ma elegante. Bene. Capelli. Bene. Trucco. Bene. Era tutto in ordine. Quando il campanello della porta trillò, Kaye abbassò gli occhi sul Rolex. Le quattordici e trenta, il cliente era in perfetto orario. Lei apprezzava la puntualità. Si incollò un sorriso professionale sul viso, e andò ad aprire.

    Il sorriso si spense e scomparve quando vide l’uomo in piedi sull’ultimo gradino, le mani infilate nelle tasche della giacca leggera. Merda, pensò in preda alla frenesia. Di colpo avvertì una contrazione allo stomaco. Oh, merda. Oh, merda. Aveva creduto di essersi liberata di lui, aveva creduto che sarebbe scomparso per sempre dalla sua vita una volta ottenuto da lei ciò che voleva. Aveva creduto di avergli fatto capire con chiarezza che non avevano più niente da dirsi, che aveva commesso un errore ed era ben decisa a rimediare.

    A quanto pareva, non era riuscita nel suo intento. «Cosa ci fai qui?» chiese secca.

    «Sai come si dice, Kaye.» Lui sorrise, ma senza allegria. «La pecora torna sempre all’ovile.»

    «Cosa diavolo vorrebbe dire?»

    «Vorrebbe dire che tu e io dobbiamo parlare.»

    «Non ho nulla da dirti. Vattene. Il mio cliente arriverà da un momento all’altro.»

    «Non ci vorrà molto. Mi lasci entrare, o devo farlo con la forza?»

    «Se non te ne vai, chiamo la polizia.»

    «Oh, non credo che lo farai. Troppe domande imbarazzanti a cui rispondere. Tutto quello che voglio sono cinque minuti del tuo tempo. Se non mi fai entrare, potrei renderti le cose piuttosto sgradevoli. Mandare all’aria il roseo futuro che hai pianificato per te. Mandare all’aria un bel po’ di cose, di fatto.»

    Kaye guardò il marciapiede deserto alle sue spalle. Come temporeggiare fino all’arrivo dei rinforzi? Il suo cliente non si vedeva. Erano soli, e se si fosse rifiutata di parlargli, lui avrebbe potuto rovinarle la vita. Sapeva che non avrebbe esitato. Era l’unica persona di sua conoscenza che aveva meno scrupoli di lei.

    Nei guai se lo fai, nei guai se non lo fai.

    «Cinque minuti» sibilò. Non voleva che lui percepisse la sua paura. «E se il mio cliente arriva prima, te ne vai. È chiaro?»

    Avrebbe voluto cancellare quel sorriso arrogante con un ceffone.

    «Immaginavo che mi avresti capito» disse lui.

    Kaye spalancò la porta e il visitatore entrò. Lei inspirò lentamente, nel tentativo di calmarsi. Avrebbe trovato la maniera. Se stava attenta, se usava le parole giuste, riusciva sempre a togliersi dai pasticci. Era Kaye Winslow, dopotutto. Aveva il dono della parlantina, il potere di persuadere. Non le era servito altro per passare dall’essere una piccola segretaria, una nullità, a rispettato agente immobiliare, una persona a cui gente come i Worthington sentiva di poter dare fiducia. A condizione che non lo dimenticasse, a condizione che mantenesse la lucidità e non facesse passi falsi, il piccolo mondo che si era costruita non le sarebbe crollato addosso.

    Alzò il mento in un gesto di sfida e incrociò le braccia sul seno. La schiena premuta contro la porta, disse: «Ti ascolto. Parla pure».

    1

    Doug Policzki era in ritardo per la festa.

    Lì in Comm Ave, dove il prezzo degli immobili era abitualmente di sette cifre, la presenza di una mezza dozzina di veicoli fra auto di pattuglia e ambulanze, aveva attirato all’aperto molti residenti. Se ne stavano riuniti in capannelli, parlando a bassa voce e gettando occhiate preoccupate alla casa. Una delle emittenti televisive locali aveva già intuito qualcosa. Se quella fosse stata Dorchester, dove i ragazzini venivano uccisi per strada tutti i giorni... ragazzini di colore, naturalmente... i media non si sarebbero preoccupati di farsi vedere. A Dorchester, l’omicidio non era una novità. In quella roccaforte di prosperità, invece, era sembrato degno di nota.

    Policzki riconobbe una commentatrice di punta, una rossa sensazionale che, portacipria rosa in mano, controllava il trucco prima che le telecamere cominciassero a ronzare. Lei alzò gli occhi, incontrò il suo sguardo e lo studiò un po’ più a lungo del necessario prima di stabilire che non era una persona degna di nota e tornare quindi a occuparsi del proprio maquillage.

    La casa era imponente, una di quelle mostruosità in pietra e mattoni edificate dalla ricchezza a fine diciannovesimo secolo, una fortezza eretta per proteggersi dalla plebe.

    Doug si fermò un istante a studiarla prima di mostrare il tesserino all’agente di guardia incaricato di tenere lontano i curiosi. «Policzki» si qualificò. «Omicidi.»

    L’agente gli fece cenno di entrare. Policzki scavalcò il nastro giallo che delimitava la scena del delitto e salì di slancio i gradini di granito.

    Davanti alla porta, un altro agente in uniforme guardò senza interesse il suo distintivo e gli rivolse un cenno secco con la testa. Policzki entrò. In alto, un massiccio lampadario proiettava milioni di particelle luminose su un ingresso enorme. Lampade a muro di ottone illuminavano la scalinata più maestosa che lui avesse mai visto. La maggior parte delle case bostoniane di quell’epoca avevano scale anguste con scalini così ripidi da mettere alla prova anche i fisici più robusti. Ma chiunque avesse progettato quella dimora, si era scostato da quell’abitudine per costruire un’ampia, aggraziata spirale che sembrava sospesa a mezz’aria.

    Le stanze erano vuote. Mentre seguiva le voci che echeggiavano nella parte posteriore della casa, Policzki abbracciò la scena con un unico sguardo: il cadavere, un fagotto sul pavimento della cucina, un braccio teso in fuori e il palmo della mano rivolto verso l’alto, come per una richiesta di pietà; il tecnico della scientifica che fischiettava stonato mentre cospargeva di polvere per la rilevazione delle impronte digitali la ventiquattrore posata sul mobile di granito; l’uomo panciuto e di mezza età con indosso un abito di Ralph Lauren che sedeva, apparentemente dimenticato dai presenti, su uno sgabello pieghevole, e si asciugava la testa calva con un fazzoletto di lino candido.

    Inginocchiate accanto al cadavere, due donne esaminavano il corpo con clinico distacco. All’avvicinarsi di Policzki, Lorna Abrams disse senza alzare gli occhi: «Era ora che arrivassi».

    Policzki si chinò accanto a lei, e studiò con interesse il foro nella tempia del morto. Il sangue stava cominciando a rapprendersi sul pavimento di ardesia. «Non c’è bisogno di fare del sarcasmo» replicò. «Il nostro amico, qui, è già morto.»

    Neena Bhatti, l’assistente dagli occhi di cerbiatta del medico legale, lo guardò e tentò di soffocare una risatina. «Doug» lo salutò.

    L’accento nasale del Queens della deliziosa, esotica Bhatti non mancava mai di sorprendere l’agente della Omicidi. Era un po’ come sentire Grace Kelly parlare in dialetto stretto. «Neena» disse. «Allora, che cosa abbiamo?»

    «Quello che abbiamo» replicò Lorna, «è un John Doe.»

    Policzki inarcò un sopracciglio. «Nessun documento di identificazione?»

    «Niente portafogli, niente fede, neppure un’etichetta sulla camicia che dica Salve, io sono Bruce

    «Come puoi vedere anche tu» interloquì Neena, «sembra che sia stato ucciso da un unico colpo alla testa. Calibro piccolo. Foro di entrata pulito. Quello di uscita è un po’ più incasinato. Uscendo, il proiettile si è portato via un pezzetto del cranio.»

    «Bello spettacolo» commentò Policzki. «Neppure un’idea su chi possa essere?»

    «Neanche l’ombra» sospirò Lorna. «Ma la casa è in vendita. Il tizio seduto nell’angolo si chiama Philip Armentrout. Aveva un appuntamento alle quattordici e trenta con Kaye Winslow, della Winslow & DeLucca, per visitare la proprietà. Era un po’ in ritardo ed è arrivato intorno alle quattordici e quarantotto. La porta era aperta, così è entrato e ha trovato il nostro signor Doe. Chi, invece, non ha trovato è la signora Winslow.»

    Policzki si appoggiò all’indietro sui talloni. «Di lei non si sa nulla?»

    «Nulla» rispose Lorna. «Ma la ventiquattrore che O’Connell sta esaminando è sua.»

    Policzki guardò brevemente nella direzione che la donna gli indicava. «Dunque è stata qui.»

    «Così pare.»

    Ciò che entrambi sapevano era che la presenza della ventiquattrore faceva di Kaye Winslow il principale sospettato, un poco invidiabile ruolo che divideva con Philip Armentrout, almeno fino a quando delle prove non avessero alleggerito la loro posizione.

    Policzki aveva imparato presto a non dare niente per scontato, a mettere in discussione ogni cosa, a prescindere dalle apparenze. Solo perché aveva detto di essere inciampato nel cadavere, questo non significava che Armentrout dicesse la verità.

    Dedicò al corpo una seconda attenta occhiata prima di chiedere a Neena: «È stato possibile calcolare approssimativamente l’ora della morte?».

    «Non c’è bisogno che ti ricordi che il lavoro sul campo non è una scienza esatta. Potrò darti una valutazione accurata una volta che avremo portato il signor Doe in laboratorio.»

    «Fra quanto sapremo qualcosa? Più o meno» volle sapere Lorna.

    «Un paio di ore al massimo. Direi che era morto da non più di mezz’ora quando il signor Armentrout lo ha trovato.» Neena si alzò e, con un gesto secco, si sfilò i guanti di lattice. «Io qui ho finito.»

    «Grazie.» Lorna si rivolse all’agente della Omicidi. «Magari stasera riesco a tornare a casa a un orario decente.»

    «Con la tua vasta esperienza, tu più di tutti dovresti sapere come stanno le cose.»

    La donna fece roteare gli occhi. «Giusto. Grazie di averlo detto così chiaramente. Dovrò mandare uno degli uomini a parlare con i vicini. Scoprire se qualcuno ha visto o sentito qualcosa. Poi cercheremo di rintracciare la Winslow. E se non la troveremo subito, dirameremo un avviso di scomparsa. Potrebbe essere stata lei. Oppure...» Lorna tacque e dopo un’occhiata al collega si strinse nelle spalle.

    Il messaggio era chiaro. Se la Winslow non era l’assassina, allora era probabile che fosse morta a sua volta o fosse in guai seri.

    «Vuoi che parli con Armentrout?» domandò Policzki.

    «Fa’ un tentativo. Dopo di che, puoi controllare i documenti della Winslow e cercare il parente più stretto.»

    Mentre Lorna usciva per chiamare a raccolta le truppe, Policzki si prese un momento per riflettere sulla strategia da adottare. Philip Armentrout se ne stava seduto curvo in avanti, i gomiti piantati sulle ginocchia e la testa china. Un atteggiamento schietto e franco, pensò lui guardandolo, sembrava la tattica preferibile. «Signor Armentrout?» disse avvicinandosi.

    L’altro alzò gli occhi, si rese conto di avere davanti un ennesimo sconosciuto e si accigliò. «Quando potrò andarmene?» chiese.

    «Sono l’agente investigativo Policzki. Posso farle qualche domanda?»

    «Ho già risposto a un sacco di domande. Due volte. Non comunicate mai fra di voi? Tutto questo è ridicolo. Ho già detto ogni cosa. Sono un uomo impegnato, e devo tornare al lavoro.»

    Policzki si accovacciò davanti a lui. «Mi rendo conto che ha parecchio da fare. E mi rendo conto che tutto questo le è di disturbo, ma non ci vorrà molto, e una volta sbrigata la faccenda potrà tornare alla sua impegnata esistenza. Sfortunatamente...» Tacque, e nel silenzio che seguì fu chiaramente udibile il rumore della cerniera dell’apposito sacco in cui i tecnici avevano infilato il cadavere. «La vittima non potrà fare altrettanto.»

    Armentrout trasalì e chiuse gli occhi un istante. «Molto bene» affermò poi con un sospiro. «Che cosa vuole sapere?»

    «Perché non mi racconta tutto ciò che è successo, iniziando dal suo arrivo?»

    «L’appuntamento era alle quattordici e trenta. Ero in ritardo di venti minuti perché il mio incontro precedente si era prolungato. Sono arrivato alle quattordici e cinquanta circa, e ho bussato. Non ha risposto nessuno e, dato che la porta era aperta, sono entrato. Pensavo che la Winslow fosse da qualche parte e che non mi avesse sentito bussare. L’ho chiamata un paio di volte e, quando ho girato l’angolo, ho visto quel tizio che sporgeva da dietro il mobile della cucina. È stato uno choc terribile.»

    «Lo immagino. E a quel punto che cosa ha fatto?»

    Armentrout si massaggiò la nuca con la mano carnosa. Aveva gli occhi iniettati di sangue. «Mi sono avvicinato per controllare. Pensavo che fosse svenuto o qualcosa di simile, e che avesse bisogno di aiuto. Non mi sono reso conto che era morto finché non ho visto il sangue.»

    «Come ha capito che era morto?»

    Armentrout gli scoccò una lunga occhiata gelida. «Non sono nato ieri. Era palese.»

    Abbastanza giusto. «Che cosa ha fatto quando ha capito che era un cadavere quello che aveva davanti?»

    «Me la sono filata. L’assassino poteva essere ancora in casa, e non avevo nessuna voglia di essere la vittima successiva. Ho chiamato il 911 dai giardini pubblici al di là della strada e ho aspettato lì l’arrivo della polizia.»

    «Molto bene. Per caso ha toccato qualcosa?»

    «Solo la maniglia.»

    «Conosceva la vittima? L’aveva incontrata in precedenza?»

    Armentrout scosse la testa. «Ho pensato che si trattasse di uno dei soci della Winslow. No, non so chi diavolo sia. Probabilmente potrà dirvelo lei.»

    Probabilmente, pensò Policzki; se solo fossero riusciti a trovarla. «Benissimo, signor Armentrout» disse. «Per il momento abbiamo finito. Avrò bisogno di verificare dove si trovava nel primo pomeriggio, e mi servirà un numero dove contattarla nel caso abbia altre domande da farle.»

    «Verificare... cosa? Che diavolo, sono sospettato?»

    «È la prassi. Dopotutto, è stato lei a trovare il corpo. In mancanza di una pistola fumante o di una confessione firmata, è nostro dovere considerarla un sospettato finché non potremo escluderla. E speriamo che accada quanto prima.»

    «Non ci posso credere.» Armentrout si cacciò una mano in tasca e ne tirò fuori il portafogli da cui estrasse un biglietto da visita. Lo porse all’agente. «Vengo a dare un’occhiata a una casa, e mi ritrovo in questo pasticcio. Un pomeriggio rovinato. Può credermi se le dico che questo mausoleo non è più nell’elenco delle mie potenziali abitazioni.» Scuro in volto, ripose il portafogli. «Tanto per la cronaca, a questo punto non comprerei casa a Boston neanche se mi pagassero. Non dopo questa follia. Forse troverò qualcosa a Newton o ad Andover. Mi hanno detto che Lexington è proprio carina.»

    Quel borioso uomo d’affari la cui giornata era stata sciaguratamente travolta dalla scoperta di un cadavere, se ne andò in tutta fretta. Una vera e propria seccatura, pensò Policzki, mentre lo seguiva con gli occhi. Davvero un peccato che l’omicidio avesse mandato a gambe all’aria i suoi programmi.

    La porta si chiuse con un tonfo alle spalle di Armentrout. All’altro capo della stanza, O’Connell, il tecnico della scientifica, chiuse la propria valigetta. «È andata bene» commentò.

    «Già. Non mi ha puntato contro una pistola e non ha minacciato di farmi licenziare, quindi immagino che sarebbe potuta andare peggio.»

    «Oh, sì. Molto peggio.» Con un cenno della testa, O’Connell indicò il sacco di plastica nera che gli inservienti stavano portando verso la porta. «Avresti potuto esserci tu lì dentro.»

    Il sole al tramonto si riversava nell’aula, riscaldandola come una sauna, attraverso le finestre chiuse. Le giornate più calde dell’estate erano ormai un ricordo, come pure l’aria condizionata che le aveva rese tollerabili. Criteri di costruzione basati sul risparmio, isolamento minimo e un’amministrazione inefficiente che insisteva perché il riscaldamento venisse attivato in base al calendario e non alla temperatura esterna, tutto contribuiva a rendere quel luogo di apprendimento alquanto ostile. Nel bel mezzo di quel paradiso tropicale, il professore aggiunto Sam Winslow leggeva l’ultimo Dan Brown edizione tascabile mentre i suoi studenti di storia dell’arte affrontavano il primo esame del trimestre. Cinquantotto teste se ne stavano chine su cinquantotto libri azzurri, mentre cinquantotto penne scarabocchiavano diligenti sulla carta.

    Sei anni prima, Sam era approdato a quella cattedra. Gli era stato necessario qualche tempo per accettare la verità che al novantotto per cento dei suoi studenti non importava molto della sua materia. Il Back Bay Community College non era il genere di posto che sforna specializzati in arte. Le sue lezioni erano frequentate solo perché tutti quelli che si diplomavano al BBCC avevano bisogno di accumulare crediti con le materie umanistiche. Avevano sentito dire che il professor Winslow era largo di manica e, dopotutto, quanto poteva essere difficile la storia dell’arte? Con poche eccezioni, i ragazzi erano lì per una sola ragione: i tre crediti che sarebbero comparsi sulle loro schede se avessero fatto attenzione in aula e si fossero presentati il giorno dell’esame per ripetere più o meno bene quello che avevano appreso dal docente.

    Ecco cos’era la sua vita: una realizzazione non proprio soddisfacente, soprattutto alle sedici e quarantacinque di una calda giornata, quando l’unica cosa che aveva mandato giù dopo colazione era una barretta.

    Sentendo un colpo sommesso alla porta, Sam alzò gli occhi dal libro e vide il viso di Lydia Forbes, decano della facoltà Arti e Scienze e suo supervisore, incorniciato nella minuscola finestrella. Posato il libro, si alzò, attraversò l’aula e con una lunga occhiata alla classe... si supponeva che i suoi studenti fossero adulti, ma non guastava dare l’impressione di avere un paio d’occhi anche sulla schiena... aprì la porta e uscì in corridoio.

    «Lydia» disse, lasciando socchiuso l’uscio.

    «Scusami l’interruzione, ma non sembravi particolarmente occupato.»

    Più di un metro e ottanta con i suoi solidi cinque centimetri di tacco, molto magra, Lydia indossava un tailleur di tweed marrone e, come sempre, portava i capelli grigi raccolti in un austero chignon. Le sopracciglia, due segni scuri nel viso pallido, le davano un’aria sorpresa. La prima volta che l’aveva vista, Sam aveva pensato a Miss Grundy, l’insegnante dei fumetti di Archie. Non aveva impiegato molto a capire che quell’involucro serviva solo a mimetizzare professionalmente una donna dalla risata contagiosa, da un piccante senso dell’umorismo e da una dipendenza terribile dalle sigarette senza filtro. «Vieni a fare due passi con me» gli propose lei.

    Sam lanciò uno sguardo alla classe.

    «Cristo santo!» esclamò Lydia. «Piantala di essere così rigido. Sono adulti e responsabili delle loro azioni.»

    Sam le si affiancò, adeguando il passo a quello di lei lungo il corridoio silenzioso. Uscirono nel frizzante pomeriggio di ottobre e, appena fuori, Lydia accese subito una sigaretta. Gli occhi chiusi in un’espressione estasiata, esalò una nube di fumo azzurrino e affermò senza rancore: «Al diavolo le leggi statali».

    Alle sue spalle, Sam agitò la mano per disperdere il fumo. Lei tirò un’altra boccata. «Ieri ho inoltrato via mail alla commissione la tua candidatura a un posto di ruolo.»

    Lui inspirò una boccata d’aria pulita. «E?»

    Lydia si voltò a fissarlo con i vispi occhi azzurri. Tirò un’altra boccata e aggiunse: «Sono preoccupata per via di Larsen».

    Il professor Nyles Larsen era nemico giurato di Sam. Era anche il capo della commissione per l’assegnazione dei posti di ruolo. In teoria, se un docente non otteneva l’incarico, nulla lo costringeva a cambiare scuola. Nella realtà, un rifiuto era come un ceffone in piena faccia a cui era opportuno reagire con una rapida ritirata con la coda fra le gambe. C’era solo un problema. Sam non aveva alcuna intenzione di ritirarsi. Era approdato all’insegnamento dopo giri tortuosi, ma ora era ben deciso a non andare altrove.

    Corrugò la fronte. «Credi che ci darà problemi?»

    «Credo che Nyles Larsen sarebbe più che felice di rifiutarti l’incarico. Ce l’ha con te dal giorno in cui hai varcato per la prima volta la porta di ingresso di questo istituto.»

    Era vero. Larsen aveva fatto parte del comitato che aveva assunto Sam e, quando aveva sviluppato un’immediata antipatia nei suoi confronti, Sam aveva rischiato di vedersi preferire un altro candidato. Non fosse stato per il solido sostegno di Vince Tedeschi, professore di matematica, ora sarebbe stato a un angolo di strada a vendere matite. Fortunatamente per lui, la maggioranza si era espressa a suo favore, ma Nyles Larsen si era lanciato in una campagna personale contro quelli che definiva gli standard mediocri e i metodi didattici

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