Girl-Gear: Annabel (eLit): eLit
Di Alison Kent
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La vice presidente della Girl-Gear, Annabel Poe, ha bisogno di cambiamenti. Questo comporta dire addio alla sua più recente conquista, Patrick Coffey. In teoria il compito non sembra difficile, la difficoltà sta nell'applicarlo, dato che Patrick è il miglior amante che Annabel abbia mai avuto. Come si può rinunciare a del sano e fantastico sesso?
Alison Kent
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Girl-Gear - Alison Kent
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La cosa più difficile per una donna è dire a un uomo di andarsene pur non essendo sicura di volere che se ne vada, pensò Annabel Poe Lee, in piedi davanti alla finestra del proprio ufficio di vice presidente della Girl-Gear, guardando le luci delle auto che correvano lungo l'autostrada Southwest di Houston.
Erano le 8 di sera di mercoledì 17 dicembre. Aveva davanti a sé due settimane di vacanza, e contava su quel periodo per riprendersi dalla fatica che aveva fatto per mesi, studiando indefessamente per riuscire a laurearsi in antropologia.
Due settimane per valutare che cosa fare della propria vita. Un'analisi, quella, che doveva fare in solitudine, anche andando contro il parere delle sue socie che avrebbero voluto allacciare nuovi contatti, allargare il giro di conoscenze, fare delle ricerche di mercato. Annabel, come Greta Garbo, desiderava stare sola.
Non che intendesse evitarle per quindici giorni. Le avrebbe incontrate alla cena della vigilia di Natale offerta a coloro che sarebbero rimasti a casa durante le vacanze e... sì, la sera di Capodanno avrebbe dovuto occuparsi di un catering che minacciava di diventare un disastro e che le avrebbe portato via molto tempo.
Tuttavia quei due impegni la preoccupavano molto meno del fatto che quella sera, prima di coricarsi, avrebbe dovuto dire addio al sesso.
A trentatré anni, non era più vergine ormai da molto tempo. Aveva avuto un certo numero di amanti fedeli e anche di meno devoti, ma non era mai stata travolta da un uomo. Fino a quel momento.
Da circa sette settimane, invece, si sentiva come drogata e sapeva che per poter ottenere i risultati che si era prefissa, doveva bandire dalla propria esistenza la tentazione rappresentata da un uomo che era in grado di farle dimenticare il mondo intero in un unico istante.
Incrociando le braccia sul petto, sollevò il mento e si specchiò nel vetro della finestra. L'immagine di se stessa in minigonna nera e tacchi a spillo la soddisfece.
Il collant nero che indossava lo avrebbe sicuramente irritato. A lui piaceva vederla con addosso solo le autoreggenti e le giarrettiere. Nuda, o quasi...
Quella sera avrebbe preso il toro per le corna. Prima di lasciare l'ufficio gli avrebbe dato appuntamento per un aperitivo e poi gli avrebbe detto che era finita. Lui non sarebbe stato contento. Diavolo, non era contenta nemmeno lei... Nessuna donna sana di mente si sarebbe rallegrata, rinunciando a un rapporto sessuale perfetto sotto ogni punto di vista.
Le cose si erano complicate già la prima volta che lui l'aveva baciata. Appena l'aveva spinta contro il muro, la sera di Halloween, e le aveva sfiorato la lingua con la propria, aveva capito di essere perduta.
Lui le aveva appoggiato le mani sui fianchi e, respirando affannosamente, le aveva sussurrato delle parole crude, assolutamente irripetibili.
In quel momento aveva giurato che se lo sarebbe portato a letto. In lui non c'era niente di raffinato. Era imprevedibile, rozzo, trasgressivo e forse anche un po' matto. Era l'uomo più intrigante che avesse mai incontrato, e anche il più pericoloso. Per lei e per se stesso.
Forse era proprio il desiderio di liberarlo dai suoi demoni che l'avvinceva tanto. Ma la sua era pura illusione. Non sapeva niente dei suoi tormenti interiori e si rendeva conto di non poter cambiare in alcun modo quel rapporto che li stava distruggendo.
Tuttavia lo desiderava con tutta se stessa, pur sapendo di non poter avere un futuro con lui. Era troppo instabile... troppo segnato dentro.
Tre minuti dopo, quando la sagoma di lui si stagliò sulla porta del suo ufficio, Annabel si maledisse per avergli dato la chiave del palazzo.
Veniva spesso a trovarla quando lavorava fino a tarda ora. La tentava senza dire una parola e la strappava dal lavoro e dallo studio per trascinarla nel suo mondo. Un mondo di bar di periferia, di facce anonime e dei peggiori liquori immaginabili. Di corse lungo strade senza fine, di passeggiate notturne sotto la pioggia, di visite allo zoo, sotto gli alberi grondanti, circondati dal cinguettio degli uccelli.
Un mondo che non era reale.
E ora eccolo di nuovo lì, inaspettato, anche se non del tutto. Non era sorpresa di vederlo, ma non era pronta. Non era ancora riuscita ad alzare il ponte levatoio, aveva bisogno di più tempo prima di gettarsi nella battaglia.
Mentre lui le si avvicinava, sentì crescere la tensione e il cuore prese a batterle con violenza.
Le mani di lui le circondarono il collo e Annabel lottò per non gettarsi a sua volta su di lui. Il suo tocco era caldo... La sua temperatura corporea, così come il suo temperamento, non era normale. Del resto in quell'uomo niente era normale.
Chiuse gli occhi, raccogliendo tutte le proprie forze, ma lui cominciò a toccarla come nessuno aveva mai fatto, e Annabel fu sul punto di cedere. In teoria l'idea di lasciarlo era ottima, ma in pratica quell'uomo la stregava. Tremando, fece un lungo sospiro.
«Dobbiamo parlare» tentò di fermarlo.
«No. Non dobbiamo.»
Illanguidita da quelle parole, Annabel si lasciò togliere la giacca. Poi lui le sfilò la camicia di seta dalla gonna senza darle il tempo di proferire parola.
No. Un semplice monosillabo che lui aveva il dono di farle dimenticare.
Evidentemente, non si rendeva conto del potere che aveva il suo corpo e della forza della sua passione. Non sapeva che cosa volesse dire comportarsi in modo civile. O forse, semplicemente, non gl'importava.
In quel momento, lui stava lottando con la parte più selvaggia della propria natura che lo spingeva a denudarla, strappandole letteralmente gli abiti di dosso. Riuscì invece a controllarsi, abbassandole la cerniera lampo della gonna, ma con una tale violenza da rischiare di romperla.
Quando si accorse che sotto lei portava un collant e le mutandine, imprecò. La voleva nuda e, come un bambino, si spazientiva quando non otteneva subito ciò che voleva.
Annabel si era abituata al suo modo di fare. Scalciò via la gonna, ma non partecipò in altro modo alla propria svestizione. Era già abbastanza umiliante aver tradito il giuramento di restare vestita.
Lui si tolse il giubbotto di pelle nera, si sfilò la camicia dalla testa e si accostò a lei, sfiorandole i glutei con il proprio corpo.
Annabel si vide riflessa nel vetro della finestra e quell'immagine la eccitò quanto il contatto dei loro corpi.
La pelle di lui era ancora abbronzata per via dei tre anni di prigionia che aveva passato ai Caraibi. I capelli, striati dal sole e alquanto spettinati, gli arrivavano alle spalle. I muscoli erano tonici, il corpo perfetto. Aveva lasciato gli Stati Uniti che era solo un ragazzo ed era tornato con le mani e la bocca di un demonio.
Nel vetro lei vide quelle mani afferrarle i seni e rovesciò indietro la testa. Premendo la schiena contro il suo petto, sentì che la sua pelle scottava.
Annabel avrebbe voluto conoscere l'origine di quel calore, ma lui si rifiutava di parlarle del proprio passato. Strano che fosse così geloso della propria vita privata e, allo stesso tempo, così generoso nel dare.
Poi lui cominciò a muoversi. Le infilò una mano sotto le mutandine e l'accarezzò finché non sentì che stava per raggiungere il piacere. A quel punto, tirò fuori dalla tasca un preservativo e un coltello e, con un gesto rapido, tagliò il collant e gli slip.
A quel punto poteva prendere quello che voleva. Lo fece adagio, liberandola degli indumenti lacerati e facendole scivolare le mani sul corpo.
Puntellandosi contro lo scrittoio, Annabel spalancò le gambe. Le dita di lui erano abili, il suo tocco preciso.
Gridando di piacere, lei si lasciò cadere in avanti sullo scrittoio, sollevando il bacino. Il ringhio di lui le fece capire che apprezzava la sua mancanza d'inibizioni, la sua disponibilità a dargli tutto. Lui era stato altrettanto generoso nel permetterle di usare il suo corpo a volontà, ma era la sola cosa che le aveva dato. E questo, a volte, la infastidiva.
In quel momento, tuttavia, Annabel non desiderava altro. Sentiva il suo tocco su di sé. In passato, avrebbe raggiunto subito l'apice del piacere, ma adesso conosceva perfettamente l'assoluta soddisfazione che le dava il corpo di lui. Lo voleva, e glielo fece capire spingendosi contro il suo ventre.
Lui rise di soddisfazione, non di allegria. La risata non gli usciva mai dalla bocca. Rumoreggiava nel suo petto e moriva lì come se si fosse dimenticato il sollievo di una risata liberatoria e non fosse più capace di lasciarsi andare.
Annabel sentì che si sollevava e, attraverso il vetro della finestra, lo vide abbassarsi i jeans.
La perfezione del suo corpo e la sua struttura atletica non finivano mai d'incantarla. Era raro vederlo mangiare. Non assaggiava neppure i piatti prelibati che cucinava per gli altri.
Poi lui le si avvicinò, le afferrò un fianco con una mano e la fece sua. Annabel chiuse gli occhi. Più tardi, pensò. Più tardi gli avrebbe detto addio.
Lui la penetrò con tanto impeto da sollevarla da terra. Poi si fermò, stringendole i fianchi e gustando il piacere di quella sensazione. Era caldo, bollente, e lei si sentì incendiare.
I tacchi alti le offrivano l'angolatura perfetta per l'unione dei loro corpi. I colpi s'infittirono, divennero quasi violenti. Le dita di lui le artigliavano i fianchi in modo doloroso, ma non le importava nulla.
L'unica cosa che contava era l'immenso piacere che sentiva crescere dentro di sé. Lui riusciva a darle un senso di completezza assoluta. Come avrebbe fatto a vivere senza quelle sensazioni?
Quando raggiunse l'apice, le sembrò di esplodere. Tentò di muoversi, ma lui la tenne stretta con forza e affondò in lei ancora una volta.
Lui la raggiunse subito dopo in silenzio e lei lo capì solo dall'aumento della sua temperatura. Per lunghi minuti non si mossero, i corpi fusi, i pensieri divisi. Mentre il suo respiro tornava normale, Annabel sentì che i fremiti di lui diminuivano. Aveva imparato ad aspettare, sapeva che il suo orgasmo era molto più lungo del normale.
Finalmente lo sentì scivolare fuori da lei, si girò, e lo vide sistemarsi prima di cominciare a rivestirsi.
Rimpiangendo di non avere delle calze e degli slip di ricambio, infilò i piedi nudi nelle scarpe e si allacciò la giacca. Infine, prese la borsetta e lo guardò negli occhi.
«Non possiamo più vederci, Patrick.»
«Devon?» domandò Annabel alla hostess del Three Mings, il ristorante di Devon Lee nel cuore del Rice Village di Houston.
«Buonasera, Poe» rispose la ragazza, avvezza a sentirla chiamare con quel soprannome. «Suo fratello è andato di sopra venti minuti fa. Devo farlo chiamare?»
«Non importa. Lo troverò io.» Annabel tornò ad affrontare il vento freddo che soffiava all'esterno e girò intorno all'edificio solitario che sorgeva in una tranquilla strada laterale dell'University Drive.
Il secondo piano del ristorante ospitava una galleria d'arte esclusiva, nella quale le opere esposte erano mostrate solo su appuntamento e vendute attraverso trattative private. Acquarellista lui stesso, Devon l'affittava a pochi clienti selezionati.
Dopo aver percorso un corridoio dal soffitto basso, Annabel entrò nella sala di esposizione e vide il fratello immerso in una vivace conversazione con un artista indiano la cui specialità consisteva nel dipingere il corpo con le henné.
Devon la vide e, sorridendo, le fece cenno di aspettare. Annabel annuì e si voltò a guardare le foto di gruppo appese alla parete. Una, in particolare, destava sempre il suo interesse. La ragazza era vestita da geisha, con tanto di pettinatura shimada-mage, il volto bianco e le labbra cremisi.
Sapeva che quel colore si otteneva da un estratto di fiori e che la chioma della ragazza, in realtà, era una parrucca o katsura. Il trucco, a cominciare dall'applicazione del bintsuke-abura - un miscuglio oleoso che consentiva alla lacca di aderire alla pelle - fino al disegno delle sottili sopracciglia nere e al tocco di rosso sulle palpebre, aveva richiesto ore di lavoro.
Lo sapeva perché quello che