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Nella mente del serial killer
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E-book456 pagine5 ore

Nella mente del serial killer

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Info su questo ebook

Autore bestseller del Washington Post

A Chicago sono state ritrovate due donne, prima strangolate, poi imbalsamate e infine messe in posa come se fossero ancora vive. Si tratta di scene talmente raccapriccianti che l’FBI corre in aiuto della polizia locale e interviene, convocando immediatamente la psicologa forense Zoe Bentley. Lavorerà in coppia con l’agente speciale Tatum Gray, un cane sciolto impulsivo e con scarsissimo rispetto per le regole. Non potrebbe andare peggio per Zoe, che invece è rigorosa e organizzata. Ma nonostante le differenze, dovranno fare di tutto per calarsi insieme nei meandri più oscuri della mente dell’assassino, cercando di studiarne le fantasie più perverse. In caso contrario, altre donne moriranno. Quando però, durante lo svolgimento delle indagini, affiora un indizio che collega in modo inquietante quegli omicidi all’infanzia di Zoe, il cacciatore potrebbe diventare improvvisamente preda…

Un perverso assassino
Una scia di cadaveri imbalsamati

Il primo caso per la psicologa forense Zoe Bentley

«Zoe Bentley è una protagonista meravigliosa e il finale del romanzo mi ha lasciato a bocca aperta.»

«Una volta iniziato è impossibile smettere di leggerlo. Una scrittura eccellente e una trama da togliere il fiato.»

Mike Omer
È l’autore di numerosi thriller di successo. Ama prendere spunto dai casi reali per inventare le sue storie, ma senza rinunciare a una dose di ironia. Nella mente del serial killer è il suo primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita12 feb 2019
ISBN9788822730145
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    Anteprima del libro

    Nella mente del serial killer - Mike Omer

    Capitolo 1

    Chicago, Illinois, domenica 10 luglio 2016

    Un pungente odore di formaldeide riempì la stanza, mentre versava il liquido nella miscela. All’inizio l’aveva odiato, ma col tempo aveva imparato ad apprezzarlo, consapevole di cosa rappresentasse: l’eternità. Il fluido per l’imbalsamazione impediva alle cose di deteriorarsi. Nel migliore dei casi, finché morte non ci separi era un concetto privo di ambizioni, il vero amore doveva trascendere quel punto.

    Aggiunse più sale dell’ultima volta, sperando in un risultato migliore. Era un equilibrio delicato, l’aveva imparato a sue spese. Il fluido per l’imbalsamazione prometteva l’eternità, ma la soluzione salina aggiungeva una componente di flessibilità.

    E una buona relazione doveva saper essere flessibile.

    Al di là della porta chiusa si sentì un cigolio. I rumori – una serie di stridii e raschiamenti irregolari, inframezzati dai grugniti di sforzo della ragazza – gli urtavano i nervi. Stava di nuovo cercando di liberarsi. Si muoveva in continuazione, cercava sempre di sfuggirgli – all’inizio lo facevano tutte quante. Ma poi sarebbe cambiata, se ne sarebbe assicurato personalmente. Non ci sarebbero più stati movimenti incessanti, niente più suppliche soffocate, niente più grida rauche.

    Sarebbe rimasta zitta e immobile. E a quel punto avrebbero imparato ad amarsi l’un l’altra.

    Un rumore improvviso gli fece perdere la concentrazione. Irritato, appoggiò il sale e si avvicinò alla porta sbarrata, sbloccandola e aprendola. La luce si riversò nella stanza buia.

    La ragazza giaceva sul pavimento e si stava dimenando. Aveva rovesciato di lato la sedia di legno, che si era spezzata. In qualche modo era riuscita a liberarsi i piedi e stava strisciando per terra sulla schiena, cercando di… cosa? Scappare? Non c’era modo di andarsene da lì. Il suo corpo nudo si agitava in un modo che gli diede fastidio. Quello, unito ai grugniti soffocati, la fece sembrare più un animale che un essere umano. La cosa doveva finire.

    Entrò nella stanza, la afferrò per un braccio e la fece alzare in piedi, ignorando le sue urla. Iniziò a divincolarsi e a cercare di picchiarlo.

    «Finiscila», le intimò bruscamente.

    Non lo fece. A quel punto ci mancò poco che la colpisse, ma si costrinse a respirare a fondo qualche volta, allentando la stretta del pugno chiuso. Un livido non sarebbe scomparso facilmente da un cadavere, e lui voleva che restasse ragionevolmente incontaminata.

    Potendo, avrebbe preferito posticipare quel momento. Con la ragazza precedente c’era stata una romantica cena a lume di candela, poco prima della trasformazione. Era stato piacevole.

    Ma non necessario.

    Avrebbe potuto lasciarla nella stanza, ma lì correva il rischio di farsi male, rovinare la sua perfetta pelle lattea, e non voleva che succedesse. Così la spinse in malo modo nell’officina e la fece sedere sulla sua sedia. Lei si dimenò e gli colpì lo stinco con il piede sinistro. Era scalza e il calcio non gli provocò alcun dolore, ma lo irritò. Afferrò lo scalpello dal tavolo e ne appoggiò la punta aguzza sul suo seno sinistro, appena sotto il capezzolo.

    «Se non la finisci di muoverti, te lo taglio», le disse con voce fredda.

    La ragazza si bloccò immediatamente, tremando di paura. La sua sottomissione lo eccitò, un dolce momento di preliminari, e il cuore gli batté più forte. Si stava già innamorando.

    Prese con delicatezza il cappio che aveva preparato in precedenza sul tavolo. Era soddisfatto della consistenza del materiale. In passato aveva usato una normale corda di cotone e il segno che aveva lasciato sul collo non gli era piaciuto per niente: la frizione aveva rovinato una pelle perfetta. Questa volta ne avrebbe usata una sintetica multiuso, delicata e piacevole al tatto. Pensava che sarebbe piaciuta anche a lei.

    Gliela fece passare sopra la testa. Non appena la ragazza avvertì il tocco della corda che le si stringeva intorno al collo, iniziò di nuovo a muoversi, ma ormai era troppo tardi.

    Il cappio consisteva in un semplice nodo scorsoio con un piccolo accorgimento: vi aveva incuneato una sottile sbarra di metallo. A quel punto fece scivolare la corda finché non si strinse contro la gola della giovane, abbastanza da non muoversi più. Voleva lasciare solo un segno. Poi, afferrando la sbarra di metallo, la girò in senso orario. Un giro, due, tre… il cappio si strinse intorno al collo della ragazza, i cui movimenti convulsi si fecero ancora più disperati, tanto che colpì violentemente il tavolo con un piede, procurandosi sicuramente un livido. Ancora un ultimo giro… e fu abbastanza.

    Mentre la giovane smetteva di opporre resistenza, lui rifletté su che tipo di segno le sarebbe rimasto. All’inizio aveva sperato che non ve ne fosse alcuno, ma poi iniziò a considerarlo il suo primo regalo, un bellissimo girocollo a rappresentare il loro legame. La gente normale era solita infilare un anello al dito: non c’era da meravigliarsi che la percentuale di divorzi fosse così elevata.

    Quando i movimenti cessarono del tutto, tremò d’eccitazione. Doveva mettersi subito al lavoro su di lei: più in fretta avesse riempito il suo corpo con il fluido per l’imbalsamazione, più fresca sarebbe stata.

    Ma il desiderio era troppo forte, così decise che prima si sarebbe divertito un po’.

    Capitolo 2

    Dale City, Virginia, giovedì 14 luglio 2016

    Zoe Bentley si rizzò a sedere nell’oscurità, con un urlo intrappolato in gola e le dita che stringevano le lenzuola. Il suo corpo era scosso da lievi tremiti e il cuore le rimbombava nel petto. Il sollievo quando si rese conto di trovarsi nella propria camera da letto fu palpabile.

    Solo un altro incubo. Sapeva che l’avrebbe avuto già quando era andata a dormire: gli incubi tornavano sempre quando trovava le buste marroni tra la posta.

    Si odiava per essere così facile da manipolare, così debole.

    Prese il telefono dal comodino e controllò l’ora. La luce intensa dello schermo le fece sbattere le palpebre, mentre macchie scure le danzavano dinanzi agli occhi: le 4:21. Maledizione! Era abbastanza presto da alzarsi, anziché tentare di riaddormentarsi. Sarebbe stata una giornata da sette tazze di caffè, col cavolo che ce l’avrebbe fatta con le consuete cinque.

    Si alzò e si districò dalle coperte. Nel sonno, era riuscita a rigirarsele parecchie volte intorno alla vita. Accese la luce e spalancò gli occhi. Alla finestra rimase a scrutare l’edificio di fronte al suo, ancora avvolto nell’oscurità: tutte le finestre erano al buio. Era stata una delle prime persone della sua strada a svegliarsi – un traguardo decisamente poco desiderabile. Osservò il letto in disordine, i vestiti per terra, i libri sparpagliati sul comodino: caos, nella sua mente e fuori.

    Zoe, apri la porta. Non puoi restare là dentro per sempre, Zoe. E poi la risatina, la voce di un uomo consumato dal desiderio.

    Rabbrividì e scosse la testa. Aveva trentatré anni, dannazione, non era più una bambina. Quand’è che i suoi ricordi le avrebbero concesso un po’ di pace?

    Mai, probabilmente. Il passato aveva un suo modo di affondare le radici nel profondo e lei, più di chiunque altro, doveva saperlo. Quanti dei suoi soggetti erano stati segnati e cambiati in modo permanente dal proprio passato?

    Si trascinò fino in bagno, sfilandosi maglietta e biancheria e lanciandole sul pavimento. Il getto della doccia le schiarì i pensieri, aiutandola a sciacquarsi di dosso l’ultima ombra di sonno. Lo shampoo era finito e riempì la boccetta con un po’ d’acqua per sfruttare i rimasugli, ma invano. Aveva usato lo stesso trucco il giorno prima, e anche tre giorni prima. Se voleva lo shampoo, doveva andare a comprarselo. Lasciò che l’acqua le accarezzasse un altro po’ la pelle. Rinvigorita, uscì dalla doccia, pensando: Devo aggiungere lo shampoo alla lista della spesa, devo aggiungere lo shampoo alla lista della spesa. Frugò tra i vestiti sparsi sul pavimento e non trovò niente che le andasse di indossare. Aprendo l’armadio, localizzò una camicia azzurra con i bottoni al colletto e un paio di pantaloni neri e se li infilò. Devo aggiungere lo shampoo alla lista della spesa. Si pettinò i capelli ramati con impazienza, smettendo non appena si fu sbarazzata dei nodi peggiori. Devo aggiungere lo shampoo alla lista della spesa.

    Si trascinò fino in cucina e accese la luce, concentrandosi immediatamente sull’elemento più importante: la macchina del caffè. Prese il barattolo di caffè colombiano macinato lì accanto: non ne era mai a corto, non dal disastro dell’estate del 2011. Mise due filtri per renderlo più forte: le serviva una scossa violenta di caffeina per mettersi in moto al mattino. Aggiunse una montagnetta di caffè nei filtri e poi ne aggiunse dell’altro ancora. Vi rovesciò sopra l’acqua e accese la macchinetta, restando a guardare lo spettacolo del caffè che gocciolava nella tazza.

    Mentre il liquido vitale era in infusione, andò alla lista della spesa appesa al frigorifero, restando a fissarla. Doveva aggiungerci qualcosa. Alla fine scrisse carta igienica. Era la scommessa più sicura, le mancava sempre. Tornò alla macchinetta e rovesciò il caffè nella sua tazza bianca preferita, anche se sbeccata, ignorando la sfilza di altre tazze intonse sulla mensola. Erano state destinate all’inutilizzo perché troppo piccole, troppo grandi, troppo spesse o perché avevano un manico scomodo. L’albo del disonore delle tazze da caffè.

    Sorseggiò la bevanda, inalandone l’aroma. Rimase in piedi accanto alla macchinetta, limitandosi a bere e godere della sensazione della caffeina che si diffondeva nel suo corpo, finché la tazza non fu vuota.

    Meno una, ne mancano solo sei.

    La busta marrone se ne stava sul tavolo di legno della cucina, con un pezzo di tessuto grigio che sporgeva al di fuori. L’aveva lasciata lì la notte precedente, cercando di dimostrare a sé stessa che non le importava, che ormai era acqua passata.

    Ora, nell’oscurità del primo mattino, le sembrò di aver fatto una sciocchezza. Raccolse la busta e la portò con sé nel proprio studio, dove c’era la scrivania. Si fece coraggio e aprì il primo cassetto, quello che teneva quasi sempre chiuso.

    All’interno si trovava un mucchietto di buste simili a quella che aveva in mano. Vi aggiunse l’ultima, schiacciò la pila e richiuse il cassetto, sentendosi meglio. Ritornò in cucina a passo più leggero.

    Mentre gli strascichi dell’incubo svanivano, si rese conto di avere fame. La cosa bella dello svegliarsi presto era avere un sacco di tempo per prepararsi la colazione. Ruppe un paio di uova in padella, le lasciò friggere e mise una fetta di pane a tostare. Decise di meritarsi anche un po’ di crema al formaggio. Sorridendo, tolse le uova dalla padella e le dispose con cautela sul piatto. Entrambi i tuorli rimasero intatti: una vittoria per Zoe Bentley. Tagliò il toast a triangoli e poi ne infilò con attenzione uno nel rotondo giallo dell’uovo, addentandolo.

    Squisito. Come faceva un semplice uovo ad avere un tale sapore? E cosa c’era di meglio di un caffè per accompagnare quella colazione? Se ne versò un’altra tazza.

    Due.

    Diede di nuovo un’occhiata al telefono. Erano le cinque e mezza, ancora troppo presto per andare al lavoro, ma il pensiero di restare in quell’appartamento silenzioso, con la busta in agguato nel cassetto, era troppo sgradevole.

    Al diavolo, avrebbe potuto occuparsi di qualche scartoffia. Mancuso, il suo capo, ne sarebbe stata felice.

    Scese al piano di sotto e salì sulla sua Ford Fiesta color ciliegia. Accese il motore e fece partire Red di Taylor Swift, mandando avanti veloce fino a All Too Well. La voce della cantante e il suono della chitarra riempirono l’abitacolo della piccola vettura, sciogliendo i nervi tesi di Zoe. Poteva sempre contare su Taylor per rendere tutto migliore.

    Le strade di Dale City erano praticamente deserte. Il cielo era ancora buio, con una sfumatura blu scuro che preannunciava l’avvicinarsi dell’alba. Zoe si godette il silenzio, mentre percorreva Dale Boulevard. Forse avrebbe dovuto alzarsi sempre alle quattro del mattino: era padrona del mondo intero, nient’altro che lei… e quello stronzo di camionista che le aveva tagliato la strada, costringendola a rallentare. La canzone di Taylor si mischiò al torrente di imprecazioni che Zoe riversò nell’abitacolo, suonando selvaggiamente il clacson. Il camionista accelerò.

    Prese la

    I

    -95 e guidò a sud, mentre Taylor passava a 22. Zoe pigiò sull’acceleratore, dando gas. Alzò il volume e si mise a cantare, facendo dondolare leggermente la testa a ritmo dell’allegra melodia della canzone. Dopotutto la vita non era male. Si sarebbe fatta un altro caffè non appena fosse arrivata al lavoro, decise. Quelle tre tazze avrebbero dovuto bastarle fino a pranzo. Uscì su Fuller Road, seguendo i cartelli stradali per Quantico.

    Parcheggiò l’auto nel piazzale semideserto, con poche altre auto a punteggiare i dintorni. Una breve camminata, la tessera identificativa mostrata all’ingresso, due rampe di scale e arrivò in ufficio. Il silenzio dell’intero piano era alquanto sconcertante. L’Unità di Analisi Comportamentale dell’

    FBI

    era raramente un posto rumoroso persino in pieno giorno, ma in genere Zoe poteva sentire il vocio degli agenti che parlavano in corridoio o il rumore degli occasionali passi affrettati fuori dalla sua porta. Oggi, invece, regnava il silenzio, fatta eccezione per il ronzio del condizionatore. Si sedette davanti al proprio computer, preparandosi mentalmente per il rapporto settimanale che sapeva Mancuso le avrebbe chiesto non appena fosse arrivata. Zoe doveva presentarne uno ogni lunedì, riassumendo il lavoro della settimana appena trascorsa. In genere lo consegnava il venerdì successivo, quando ormai Mancuso l’aveva già minacciata di rispedirla a Boston. Oggi, però, sarebbe andata diversamente: per una volta avrebbe avuto il rapporto pronto per giovedì, con solo tre giorni di ritardo, liberandosi da quell’incubo burocratico fino alla settimana successiva. Zoe sorrise e iniziò a battere sulla tastiera.

    Il telefono sulla scrivania la svegliò di colpo. Guardò confusa il monitor, dove le parole Rapporto settimanale, 4-8 luglio 2016 erano rimaste orfane, prive del resto. Doveva essersi addormentata cercando di pensare a come iniziare. L’orologio in basso a destra sul desktop segnava le 9:12: alla faccia dello svegliarsi presto al mattino! Rispose al telefono ruotando la testa nel tentativo di dare sollievo al collo indolenzito. «

    UAC

    , parla Bentley».

    «Zoe», disse la voce di Mancuso. «Buongiorno, potresti passare dal mio ufficio? C’è una cosa a cui vorrei dessi un’occhiata».

    «Certo, arrivo immediatamente».

    L’ufficio del capo dell’unità si trovava a quattro porte dalla sua, lungo il corridoio. La targa bronzea appesa alla porta recitava: Capounità Christine Mancuso. Zoe bussò e Mancuso la invitò subito a entrare.

    Zoe si accomodò sulla sedia per gli ospiti dall’altro lato della scrivania. Mancuso sedeva di fronte a lei, con la sedia girata da un lato. Stava fissando con profonda concentrazione l’acquario che risaltava lungo la parete posteriore. Era una donna che non passava inosservata, con la pelle ambrata liscia e praticamente risparmiata dai segni dell’età, i capelli neri raccolti all’indietro, striati da ciocche argentee. Era di profilo, mostrando il lato con il neo accanto alle labbra.

    Zoe osservò l’oggetto che attirava l’attenzione del suo capo. L’interno dell’acquario cambiava spesso, in base all’umore di Mancuso. Attualmente dava l’impressione di una foresta lussureggiante, con spruzzi di alghe che coloravano l’acqua di verde e turchese. Banchi di pesci gialli, arancioni e porpora nuotavano pigramente in entrambe le direzioni.

    «C’è qualche problema con i pesci?», domandò Zoe.

    «Oggi Belinda è depressa», mormorò Mancuso. «Credo che ci sia rimasta male perché Timothy sta nuotando con Rebecca e Jasmine».

    «Be’… magari a Timothy serviva solo un po’ di spazio», suggerì Zoe.

    «Timothy è un bastardo».

    «Giusto… ehm, come mai volevi vedermi?».

    Mancuso girò la sedia e fissò Zoe. «Conosci Lionel Goodwin, l’analista?»

    «È quello che si lamenta sempre che tutti gli rubano da mangiare».

    «Fa parte della Highway Serial Killings Initiative».

    A Zoe ci volle un momento per fare mente locale. Nell’arco degli ultimi dieci anni era emerso un trend allarmante di cadaveri femminili abbandonati lungo le autostrade. Gli analisti dell’

    FBI

    avevano trovato un elemento in comune per gli omicidi: le vittime erano per la maggior parte prostitute o drogate, i sospetti più probabili camionisti che coprivano lunghe tratte. Nel tentativo di abbinare ai sospettati degli schemi specifici, l’

    FBI

    aveva dato vita alla Highway Serial Killings Initiative: gli agenti avrebbero ricercato crimini simili sul

    V

    i

    CAP

    , il database dei delitti violenti del Bureau, per poi tentare di collegarli ai percorsi e alla cronologia dei sospettati.

    «Okay», annuì Zoe.

    «Ritiene di avere identificato uno schema e l’ha collegato a un gruppo di possibili sospetti».

    «Fantastico», commentò Zoe. «E io in tutto questo cosa…».

    «Il gruppo consiste di duecentodiciassette camionisti».

    «Ah».

    Mancuso aprì un cassetto, ne estrasse uno spesso fascicolo e lo sbatté sulla scrivania.

    «Sono questi i sospettati?», domandò Zoe.

    «Oh, no», rispose Mancuso. «Questi sono solo i file dei crimini provenienti dai vari distretti coinvolti». Estrasse altri due fascicoli aggiuntivi e li sistemò sopra al primo. «Questi sono i sospettati».

    «Vuoi che restringa la ricerca?», domandò Zoe.

    «Sì, per favore». Mancuso sorrise. «Se riesci a farmi avere un gruppo di dieci persone entro la fine della prossima settimana sarebbe fantastico».

    Zoe annuì, eccitata alla prospettiva. Era il primo profiling in tempo reale che le veniva richiesto da quando era entrata nell’unità. Restringere un gruppo di duecentodiciassette sospetti a dieci sarebbe stato un compito complesso persino nell’arco di un mese: sarebbe riuscita a farcela in una settimana?

    Certo che sì, era quello che sapeva fare meglio.

    «Oh, e il rapporto settimanale… ce l’hai già pronto?», le domandò Mancuso, con voce piccata. «Avresti dovuto consegnarlo…».

    «L’ho quasi finito», rispose Zoe. «Devo solo aggiungere gli ultimi ritocchi».

    «Fammelo avere entro l’ora di pranzo».

    Zoe annuì e si alzò. Prese i tre fascicoli e uscì dalla stanza del capo. Sulla strada verso il proprio ufficio si mise già a consultare quello più in alto. La prima pagina era la descrizione di un crimine ai danni di una diciannovenne rinvenuta in un fossato nel Missouri, lungo la

    I

    -70. Era nuda e presentava lividi in molteplici punti del corpo, insieme a segni di morso lungo il collo. Zoe fece per girare la pagina successiva, ma andò a sbattere contro un uomo. Il fascicolo gli penetrò nello stomaco e dai polmoni gli uscì uno sbuffo sorpreso.

    Era alto, con le spalle ampie e una criniera di capelli corvini. Aveva occhi castani profondi, nascosti da sopracciglia folte e scure. Sembrava la versione anziana di un tronfio studente entrato al college con una borsa di studio sportiva. Si massaggiò la pancia con il palmo della mano, con un mezzo sorriso in volto, irritando all’istante Zoe, come se fosse colpa di quel tizio se gli era andata a sbattere contro.

    «Mi dispiace», disse, piegandosi a raccogliere i fascicoli caduti a terra.

    «Nessun problema», disse lui, chinandosi a sua volta per darle una mano.

    Lei afferrò l’ultimo dei fascicoli dal pavimento prima che l’altro potesse toccarlo. «Già fatto, grazie».

    «Lo vedo», disse lui, con il sorriso che andava allargandosi sul volto, mentre si rialzava in piedi. «Non penso che ci siamo ancora presentati. Io sono Tatum Gray».

    «Okay», replicò Zoe distratta, cercando di riorganizzare i fascicoli che aveva in mano.

    «Hai un nome anche tu o mi serve un’autorizzazione di sicurezza più elevata per conoscerlo?», le domandò Tatum.

    «Sono Zoe», rispose lei. «Zoe Bentley».

    Capitolo 3

    Tatum rivolse a Zoe uno sguardo distratto. Dapprima notò soltanto il naso spigoloso e il modo in cui si arricciò per l’irritazione quando le domandò il suo nome, ma poi lei alzò il viso e lo guardò dritto in faccia, e per poco Tatum non ebbe l’istinto di arretrare di un passo. Gli occhi erano verde chiaro e intensi. Gli diedero l’impressione di potergli leggere nella mente e sfogliare i suoi pensieri come le pagine di un libro. Insieme al naso, quegli occhi la facevano somigliare a un rapace, ma l’effetto complessivo era smorzato da una bocca dolce e delicata. Portava i capelli tagliati corti sopra le spalle, e qualche ciocca le era finita sul viso in seguito al loro scontro. Si scostò i capelli ribelli dagli occhi con un gesto noncurante che lui trovò alquanto seducente e gli rivolse un sorriso teso.

    «Be’, è stato un piacere conoscerti, Tatum», disse, e fece per voltarsi e andarsene.

    «Un momento», la fermò lui. «Potresti dirmi dove si trova l’ufficio del capo…», gli ci volle un istante per ricordarsi il nome, «Mancuso?».

    Lei diede un’occhiata al corridoio. «A tre porte da qui», rispose.

    «Sei anche tu nella

    UAC

    ?», le chiese.

    «Sono una consulente», rispose lei. Non gli sfuggì il suo tono difensivo e il modo in cui socchiuse gli occhi, aspettandosi un commento pungente.

    «Ah, giusto». Gli venne in mente che qualcuno gli aveva parlato di lei. «Sei la psicologa di Boston».

    «In persona», rispose. «E tu sei l’agente di Los Angeles».

    «Già», confermò, sorpreso. «Come fai a conoscermi?»

    «Abbiamo ricevuto una mail ieri», spiegò Zoe. «Manderemo da voi l’agente Tatum Gray, dall’ufficio di Los Angeles, per favore accoglietelo e bla bla».

    «Ah, giusto», ripeté Tatum e sorrise. Quella donna lo metteva parecchio a disagio. «Be’, ci becchiamo in giro, Zoe».

    Lei se ne andò per la sua strada con i pesanti fascicoli, e Tatum rimase a fissarla, momentaneamente in trance. Poi si accorse di essere rimasto in piedi in corridoio, essenzialmente a fissare il culo di una donna che si allontanava, e si voltò di fretta, incamminandosi verso l’ufficio di Mancuso e bussando alla porta.

    «Sì?».

    Entrò. Christine Mancuso, il nuovo capo dell’unità, sedeva dietro la scrivania, incorniciata da un gigantesco acquario in fondo alla stanza. Aveva fatto domande in giro su di lei: si era meritata una certa fama nell’ufficio di Boston. Dopo aver guidato la task force di un caso di rapimento di grande interesse pubblico, era stata promossa a capounità della

    UAC

    e a molti non era andata giù. L’assistente caposezione avrebbe voluto promuovere qualcuno dell’unità, ma a quanto pareva aveva invece ricevuto l’ordine di assegnare l’incarico a Mancuso, che aveva immediatamente iniziato a modificare nomine e protocolli. Cosa ancora peggiore, si era portata dietro una civile a fare da consulente.

    «Capo Mancuso?», disse. «Sono Tatum Gray».

    «Entra pure», lo invitò, indicando la sedia davanti alla scrivania. Tatum si chiuse la porta alle spalle e si accomodò. Scoprì che non poteva fare a meno di guardare il neo accanto alle labbra del capo.

    «Quindi…», esordì lei aprendo un fascicolo sulla scrivania. «Agente speciale Gray dall’ufficio di Los Angeles».

    «In persona», rispose lui, sorridendo.

    «Promosso di recente dopo aver risolto con successo il caso di una banda di pedofili, dopo un anno di indagini». Il modo in cui pose l’accento sulla parola successo lo fece sembrare tutt’altro – quasi un fiasco in effetti, cosa che gli diede ai nervi.

    «Ho solo fatto il mio lavoro».

    «Ah sì? Il tuo capo non sembrava vederla in questo modo. E mi pare che potrebbe esserci un’indagine degli affari interni…». Voltò una pagina, dando l’impressione di essere immersa nella lettura, anche se Tatum immaginò che conoscesse già bene cosa c’era scritto. Avvertì un moto di rabbia nel profondo.

    Lei riabbassò il fascicolo.

    «Mettiamo le carte in tavola. Sei stato promosso perché era un caso d’alto profilo».

    «Deve sembrarle familiare».

    Lei si irrigidì.

    Complimenti, Tatum. In meno di cinque minuti ti sei già fatto odiare dal tuo superiore.

    «Ma non è stata realmente una promozione», continuò Mancuso, con voce gelida. «Volevano solo toglierti di mezzo, spedirti dove non avresti potuto fare troppi danni, cioè dietro una scrivania alla

    UAC

    , a guardare foto di scene del crimine».

    Tatum non aprì bocca: Mancuso aveva ragione. Era essenzialmente quello che gli avevano detto a porte chiuse, dopo averlo promosso.

    «E sei stato assegnato a me», continuò, «perché sono il nuovo capo dell’unità e si divertono a rompermi le palle».

    Lui si strinse nelle spalle. Non si preoccupava delle politiche dei superiori e non gliene poteva fregare di meno di quale fosse il posto di Mancuso nella catena alimentare.

    «Io però non ti lascerò a marcire dietro una scrivania, a guardare foto di scene del crimine», sentenziò Mancuso. «Sarebbe uno spreco».

    Tatum non disse nulla, non capendo dove volesse andare a parare.

    Mancuso gli spinse davanti un altro fascicolo. Lui si chinò, lo raccolse e lo aprì. L’immagine superiore era quella di una ragazza in piedi su un ponte di legno sopra a un ruscello, intenta a fissare l’acqua con sguardo vacuo. Aveva un colorito strano, pallido.

    «Questa è Monique Silva, prostituta di Chicago», spiegò Mancuso. «È stata trovata morta a Humboldt Park la scorsa settimana e, come puoi vedere, è stata messa in posa come se stesse guardando l’acqua».

    «Morta?». Tatum si accigliò, osservando la foto. La ragazza sembrava parecchio viva. «Come…».

    «È stata imbalsamata», rispose Mancuso. «Il coroner ha affermato che era morta già da cinque o anche sette giorni, quando il corpo è stato ritrovato. È sparita un paio di settimane fa, secondo il suo pappone. È la seconda vittima a rispuntare in queste condizioni. Per via del ritrovamento in luoghi frequentati e del modo in cui vengono messe in posa, è diventato un caso di pubblico interesse. Il dipartimento di polizia di Chicago è messo sotto pressione perché rintracci il killer, abbastanza da venire a chiedere aiuto a noi».

    «Cosa dicono loro?»

    «Gli agenti del Bureau di Chicago al momento sono molto occupati con altri casi, stanno per fare una grossa retata ai latinos».

    Tatum annuì. I Latin Kings erano una grossa banda di strada con basi operative sparse in tutto il Paese, e le più temibili avevano sede a Chicago.

    «Anche se l’ufficio di Chicago avrebbe volentieri preso parte alle indagini, è stato deciso che le sue risorse fossero meglio impiegate in altra sede».

    Il decifratore di stronzate di Tatum tradusse la frase in: Qualcuno ai piani alti ha deciso di tenersi alla larga da questa faccenda, perché se la stanno facendo sotto.

    Sospirò e alzò lo sguardo su di lei. «Cosa vuole che faccia?»

    «Voglio che domani tu vada laggiù, che parli con il detective in carica e ti faccia un’idea di dove stiano puntando le indagini, per poi venire a riferire a me. A quel punto decideremo come procedere».

    «Devo fare rapporto anche all’ufficio di Chicago oppure…».

    «Faremo prima se ci penserò io».

    «Okay», commentò Tatum. Sarebbe stato ben felice di lasciare il balletto in punta di piedi coi burocrati a qualcuno più abile di lui. Quell’incarico avrebbe significato un fine settimana a Chicago, ma non gli importava. Non ci era mai stato prima.

    «Agente Gray, l’

    FBI

    ha una funzione consultiva. Non voglio venire a sapere che hai dato a intendere in qualsivoglia modo che a dirigere le indagini sia tu. Stiamo lavorando sodo per conquistarci la fiducia della polizia locale, così da chiedere eventualmente la loro assistenza in casi futuri, sono stata chiara?».

    Lui annuì. «Certo, capo».

    «C’è altro?»

    «No», disse lui, alzandosi. «Bei pesci».

    «Già, ne vuoi uno?».

    Lui la fissò, confuso. «Vuole darmi un pesce?»

    «Posso tenerne da parte uno per la tua nuova casa», rispose Mancuso, dando un’occhiata all’acquario. «Ma ti avviso… è un bastardo».

    Capitolo 4

    Zoe aprì la porta di casa in modalità automatica, sovrappensiero, passando mentalmente al setaccio i dati della scena del crimine. Aveva trascorso l’intera giornata a leggere e rileggere i casi degli otto omicidi che le aveva consegnato Mancuso, senza toccare i fascicoli dei sospettati. Avrebbe dovuto muoversi, lo sapeva, lavorare più duramente, ma c’era qualcosa che la metteva in agitazione, impedendole di andare avanti. Alcuni dettagli non quadravano e aveva rimuginato sulle prove cercando di snidarli e capire dove fosse il problema.

    I casi le avevano dato il tormento anche sulla strada del ritorno e per poco non aveva perso l’uscita della

    I

    -95. Continuavano a ronzarle in testa e già sapeva che avrebbe fatto fatica a addormentarsi.

    Entrò nell’appartamento e si irrigidì immediatamente sentendo un rumore provenire dalla cucina.

    «Zoe, sei tu?», chiese una voce.

    Si rilassò e lasciò cadere la borsa accanto alla porta. «Ehi, Andrea», salutò in risposta.

    Il viso sorridente di sua sorella sbucò dal vano della porta della cucina. «Ehi», la salutò a sua volta. «Sei affamata?»

    «Sto letteralmente morendo».

    «Ho fatto la pasta, spero che ti vada un po’ di italiano», disse Andrea, e scomparve di nuovo in cucina.

    Zoe avrebbe voluto rispondere qualcosa di spiritoso, sul tipo di italiano che le andava davvero. Cercò di riflettere su una battutina arguta: Certo, purché sia un uomo mediterraneo con un corpo sexy, ma non faceva ridere per niente, nemmeno nella sua testa. Come la maggior parte delle sue battute di spirito, anche questa andò incontro a una morte prematura. L’arguzia era la caratteristica di altre persone, e se mai le veniva in mente qualcosa di divertente da dire, in genere accadeva con tre ore di ritardo. «Certo, la pasta va benissimo», disse infine.

    «Fantastico», commentò allegra Andrea.

    Zoe entrò in cucina e poi si bloccò. «Porca miseria, è fantastico davvero».

    Andrea aveva sistemato due piatti sulla tovaglia a scacchi che nascondeva il brutto tavolo squadrato. Su ognuno era disposto uno strato di foglie di basilico con una porzione di spaghetti giallastri. Sopra alla pasta, che già faceva venire l’acquolina, c’era una fettina di salmone con una crosta marroncina spruzzata di aglio.

    «Non mi merito questo magico pasto», commentò Zoe, fiacca.

    «Certo che sì. Avanti… non fare complimenti. Ho comprato anche un paio di birre».

    Zoe si sedette a tavola e assaggiò un po’ di salmone. La crosta era sottile come carta e croccante, e il pesce praticamente le si sciolse in bocca. Chiuse gli occhi e inspirò. Era la prima volta in tutta la giornata che aveva la mente completamente svuotata e assaporò la gioia puramente fisica di gustare un pasto appetitoso.

    Andrea le sistemò davanti una bottiglia di birra e un bicchiere appannato con sopra una fetta di limone.

    «Mi sembra di mangiare al ristorante», commentò Zoe.

    «Immagino che volesse essere un complimento». Andrea sorrise e arrotolò gli spaghetti sulla forchetta. «Allora… com’è andata al lavoro?».

    Le otto ragazze morte inondarono di nuovo la mente di Zoe.

    «Così male?», le domandò Andrea, scrutandola in viso.

    «No, no», rispose in fretta Zoe. «In realtà è andata molto bene, è stata molto interessante. Solo… intensa».

    Riuscì ad avvolgere tre spaghetti intorno alla propria forchetta, ci mise sopra una foglia di basilico, poi

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