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Fede contese e nobiltà
Fede contese e nobiltà
Fede contese e nobiltà
E-book529 pagine7 ore

Fede contese e nobiltà

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Info su questo ebook

Valdarno, XIII secolo.

La famiglia alto borghese dei Valdesi è in contrasto con la famiglia Donati, di ceto inferiore. Solo la comune fede in Dio e l'opera di evangelizzazione di Padre Antonio riescono a tenere a bada le tensioni fra le due fazioni.

Ma quando scoppia l'amore tra Michele Valdesi e Angelica Donati nasce anche una nuova speranza di pace fra i due ceti sociali.

Riuscirà il loro amore a spegnere l'astio tra le due famiglie? I due protagonisti avranno l'arduo compito trasmettere il messaggio più importante, ovvero che il bene prevale sempre, l'amore vince l'odio, la vendetta è disarmata dal perdono.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ago 2020
ISBN9788831691536
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    Anteprima del libro

    Fede contese e nobiltà - Rosaria Lullo

    romanzo.

    C A P I T O L O I

    E’l’alba di un giorno di primavera, e un gallo pimpante e burbanzoso sfodera il suo primo canto per risvegliare e salutare il nuovo giorno.

    E’ l’anno 1401. 

    Già con le prime luci ombrate dell’alba si preannuncia l’arrivo di un mattino senza sole. Il cielo è coperto di grigio, semioscuro e minaccioso, quasi pronto per un temporale. 

    Come di consueto, proprio alle prime ore del mattino, un manipolo di servi della gleba (lavoratori della terra), con attrezzi in spalla, borracce di pelle e tascapane a tracolla, percorre in fila indiana, su una piccola altura, uno stretto sentiero che solca serpeggiando tra i cespugli di ginestre e un alto e folto campo di mais, per raggiungere, avvolti dal silenzio campagnolo, i luoghi da coltivare, ove trascorrere l’intera giornata e fare rientro al tramonto.

    Quella quiete di campagna è interrotta, poco dopo, puntualmente, come ogni giorno, dal suono dei campanacci dei greggi che, più a valle, si dirigono verso i verdeggianti e ricchi pascoli, guidati da pastori, anch’essi con otre e bisacce in spalla, cappellacci in testa, con bastoni di rami di quercia e la compagnia di cani di diverse razze, molto pimpanti, che, abbaiando e scodinzolando, costringono le pecore a non allontanarsi dal gruppo.

    Tutti vengono da un piccolo villaggio senza nome, che sorge in una valle della Toscana, nel Valdarno. E’ un insieme di poche decine di case, sparse qua e là, in cui dimorano i coloni che coltivano i terreni dell’intera valle, e gli allevatori che sfruttano i pascoli con la pastorizia, a qualche miglio di distanza, oltre una vicina collina.

    Tutti lavorano per conto di un unico padrone, proprietario dell’intero fondo e con il quale gli agricoltori, in virtù di un contratto di mezzadria, spartiscono in parti uguali tutti i loro raccolti.

    I pastori, dal canto loro, la lana ricavata dalle tosature delle pecore la destinano all’industria tessile dello stesso padrone del fondo, a un prezzo ridotto della metà, come pure la produzione del latte e i relativi formaggi.

    Anche gli allevatori di bachi da seta forniscono materia prima per la produzione di tessuti pregiati all’industria tessile del medesimo padrone, il Conte Luigi Ferdinando Valdesi, unico proprietario dell’intera zona.

    Nella valle del Valdarno, però, a poche miglia di distanza dal villaggio senza nome, fuori dai territori di proprietà dei Valdesi, vive Ippolito Donati. E’ un pastore e agricoltore, unico possidente di un piccolo podere, con poco più di un ettaro di terra, con casupola fatta di calce, sassi e tavole, con una stalla di legno, per il ricovero degli animali; l’ovile, formato da una recinzione di trave di faggio e coperta da un tetto fatto di rami e paglia; infine, il pollaio, anch’esso fatto di tavole. Insomma, una piccola fattoria.

    Questa proprietà, Ippolito, l’ha avuta in eredità dal padre, Filippo, che, ai suoi tempi, quando era in vita, si era sempre rifiutato di cederla ai Conti Valdesi, i quali, con la loro arroganza e prepotenza, cercavano a tutti i costi di ottenerla, essendo confinante con i loro terreni, disposti a pagarla solo con una manciata di fiorini.

    Il padre, Filippo, prima di morire disse al figlio Ippolito: «Figlio mio, non cederla mai a nessuno questa terra, è molto fertile, ti farà vivere senza sottostare e subire la prepotenza e lo sfruttamento di nessuno, specialmente dei ricchi signori. I Valdesi, per mezzo dei loro tirapiedi, mi ricattavano e, un giorno, mi picchiarono, mi bruciarono il fienile, il granaio e uccisero alcune pecore per impaurirmi e costringermi a firmare l’atto di vendita. Essi mi minacciarono dicendomi che la prossima volta che venivano, dopo sette giorni, se non firmavo, avrei fatto la loro stessa fine, mi dissero alludendo alle pecore uccise. Chiesi aiuto ai magistrati di Firenze e così con l’intervento delle guardie armate, al loro ritorno, i tirapiedi dei Valdesi si arresero e furono arrestati, da allora non si fecero più vedere».

    Ippolito, uomo di mezza età, bruno, grande lavoratore, dall’aspetto rude, incurante di sé, di media statura, con barba incolta e brizzolata, viso incavato, segnato dalle fatiche, capelli brizzolati con qualche ciuffo bianco, per gli anni che passano, schiacciati da una cuffia, copricapo simile al basco, dal quale si stacca solo quando va a letto. Privo di un minimo di istruzione, sa’ firmare solo con il segno di croce, abituato a lavorare sin da bambino, pascolando pecore. L’uomo, anche se analfabeta, è dotato di buone qualità tali da meritarsi di essere considerato un buon padre di famiglia, sa’ impartire ai suoi due figli lezioni di vita corretta: rispetto delle persone adulte, andare in Chiesa nel piccolo villaggio le domeniche e i giorni festivi, aiutare i genitori nei lavori di casa e dei campi, e inoltre, essere bravi risparmiatori, come per tradizione, per pensare al futuro.

    Egli vive con la moglie Agnese, donna umile, robusta, di media statura, instancabile lavoratrice, bionda, capelli lunghi raccolti con trecce arrotolate dietro la nuca, viso poco curato e segnato anch’esso dalle fatiche. Donna molto brava nello sbrigare tutte le faccende di casa, aiuta il marito nei campi nei periodi di semina e di raccolto, provvede alla mungitura delle pecore, alla custodia, pulizia e governo degli altri animali: un cavallo, una diecina di conigli, tre maiali, una ventina di galline, il cane chiamato Dog, di razza maremmano abruzzese, addestrato come ricercatore di persone, e un gatto grigio chiaro col muso bianco, chiamato Pelù. E’ una madre molto attenta nell'impartire tutti gli insegnamenti per una completa educazione ai due figli, Angelica e Carletto.

    Angelica, primogenita, ragazza ventenne, ormai donna, anzi, una bellissima figura bionda, come la madre, alta, bella presenza, occhi celesti, carnagione chiara, viso dolcissimo, angelico come il nome che porta, capelli lunghi, raccolti a volte a trecce, in altri momenti a codino. Ragazza molto timida. Quando capita di andare con il padre al villaggio e qualche coetaneo del posto gli incolla lo sguardo addosso, arrossisce, china il capo e accelera il passo. Istruita, quanto basta per leggere e scrivere. Molto educata e rispettosa di chi è più grande di lei. Molto premurosa con i genitori e il fratellino. Anche lei aiuta i genitori in tutti i lavori della casa, della stalla e dei campi. 

    Il fratellino Carletto, ragazzino di dieci anni, vispo, biondino, con lentiggini sul naso, frequenta la scuola presso un Monastero dei Monaci Francescani. Ragazzino ubbidiente, affezionato molto alla sorella e al cane Dog, con il quale trascorre molto tempo a giocare.

    Anche Ippolito, come altri pastori, all’alba dello stesso mattino, con l’oscurità per il cattivo tempo, con il suo gregge e il suo cane Dog, con bisaccia in spalla, con una buona scorta di pane, formaggio e acqua, armato di un robusto bastone di quercia più alto di lui, si dirige verso prati ricchi di ottima erba, non in territorio Valdesi, ma in una terra incolta e in stato di abbandono, appartenente allo Stato, distante qualche miglio dalla sua proprietà. E’ la cima di una collina: ‘La Collina Luminosa’, chiamata così per il luccichio dell’erba alta nei giorni di splendido sole. Un luogo molto gradevole agli animali per il prato molto invitante. E’ un posto piacevole anche all’uomo per la vista panoramica, per la presenza di un’immensa quercia secolare, unico albero esistente in quel luogo, dotato di un tronco tanto robusto che per abbracciarlo ci vorrebbero almeno sedici braccia, con una chioma di circa dieci metri di diametro e circa quindici di altezza. A fianco della grande quercia, a circa quindici passi, esiste un vecchio capanno di legno, con mura di tronchi, messi uno su l’altro, che riparano solo da tre lati, e un tetto costruito con l’accostamento di tronchi spaccati per metà. Questo riparo, forse costruito tanti anni prima da altri pastori, è un ottimo rifugio, specialmente per ripararsi dalle intemperie, come in questo giorno di cattivo tempo, e dal forte caldo d’estate, anche se la parte anteriore è senza protezione.

    A circa un miglio di distanza dai piedi della collina, dalla sua parte opposta, inizia una boscaglia, ove sono soliti andare i taglialegna, e questa mattina si sentono in lontananza i colpi delle loro asce.

    Ippolito, stanco per il lungo cammino e per la salita della collina, entra nel capanno, si scrolla di dosso le bisacce, l’otre pieno d’acqua, poggia il lungo bastone alla parete del capanno e si mette a sedere su uno dei pezzi di tronchi tagliati e sparsi qua e là, che con la loro forma cilindrica, posizionati in piedi, fungono da sedile. Tira fuori dalle bisacce il coltello, taglia un po’ di pane e lo mette davanti a Dog, che gli sta vicino. Poi, taglia anche per sé un po’ di pane e un pezzo di formaggio e inizia a farsi il suo primo spuntino, mentre dal capanno tiene sotto controllo tutto il gregge.

    Dopo qualche ora, cessano i colpi d’ascia dei taglialegna e si sentono delle grida venire dalla loro direzione. Ippolito, che era ancora seduto sotto il capanno, si alza di colpo e va dietro la casupola per vedere in lontananza, verso la boscaglia, cosa sta succedendo. Purtroppo, è molto lontano e non si comprende il motivo delle loro urla. Continua a guardare, quando, all’improvviso, vede in lontananza smuovere il campo d’erba. Qualcosa si muove tra i campi e viene nella sua direzione.

    «Che cosa sarà mai?!»

    Fissa lo sguardo verso quella scia che smuove l’erba. 

    Dopo qualche secondo, Ippolito esclama: «Oh Dio, i lupi selvaggi, Signore, aiutami a cacciarli!»

    Per fortuna non è un branco, sono solo due, pensa lui. Ne aveva sentito parlare giorni prima giù al villaggio. Impugna il bastone e, al loro arrivo, inizia il combattimento. Dog mostra le sue zanne e inizia a scagliarsi contro il primo arrivato. Ippolito affronta il secondo, gli sferra un colpo sul dorso e lo fa rotolare lasciandolo quasi tramortito a terra. Mentre va verso Dog, che tiene impegnato sempre lo stesso lupo, un terzo spunta dall’erba e si scaglia su una pecora e la azzanna. Ippolito corre con il suo bastone verso l’ultimo arrivato e mentre lo colpisce alla testa, inciampa a un sasso, cade a terra e batte il ginocchio su un altro sasso. Si alza e, zoppicando, va verso Dog, e colpisce di striscio l’ultimo rimasto, il quale scappa via pieno di ferite. I due lupi rimasti a terra non si muovono più, sono morti per i forti colpi subiti. Ippolito, con il dolore al ginocchio, che inizia a farsi sentire, trasporta, uno per volta, i lupi morti lontano da quel posto e, con una vecchia vanga trovata nel capanno, scava una fossa e li seppellisce.

    Piano e zoppicando, inizia il rientro in anticipo verso casa. Anche Dog zoppica per il duro combattimento affrontato. Appoggiandosi al lungo bastone, Ippolito si sforza di camminare, il dolore al ginocchio si fa sempre più intenso. 

    «Ce la farò ad arrivare sino a casa? Questo dolore incomincia a darmi alla testa».

    Un passo dietro l’altro, poi non ce la fa più. Si siede a una roccia, ai piedi della collina, sotto un albero. Il gregge continua il suo percorso verso casa e Ippolito non può fermarlo. Dog si avvicina al padrone lamentandosi, e Ippolito gli sgrida: «Vai Dog, vai a casa, guida tu le pecore. Vai!… Vai! … Non restare qui. Io verrò più tardi, fammi riposare ora. Vai!... Vai!» 

    Dog obbedisce e zoppicando, abbaiando e scodinzolando tiene le pecore raccolte in gruppo e le spinge verso casa.

    Alla casa, Agnese sta fuori a dare da mangiare alle galline, buttando a terra manciate di orzo, quando all’improvviso sente in lontananza un belato di pecore e un abbaio continuo di un cane. 

    Agnese, stupita: «Chi è questo pastore che porta il suo gregge da queste parti? Sin’ora mai nessuno si è permesso di passare sulla nostra proprietà».

    Agnese si accorge che quell’abbaio è di Dog.

    «Come mai rientrano così presto?» 

    Il gregge si avvicina sempre più, Agnese si spaventa.

    «Signore, fa’ che non sia il nostro gregge, non vedo Ippolito».

    Continua a fissare lo sguardo sul gregge cercando di vedere il marito..., non lo vede...

    «Mio Dio, che cosa è successo? Angelica! Angelica!... Vieni fuori! Angelica, esci!»

    Angelica esce da casa correndo.

    «Madre, che cosa è successo, perché gridi?»

    Agnese: «Tuo padre non si è ritirato con il gregge, è successo qualcosa, esci il cavallo e prepara il carretto, fai presto …, sbrigati!»

    Angelica: «Faccio presto madre».

    Mentre la madre sistema il gregge nell’ovile, Angelica prepara subito il carretto con il cavallo. Vi salgono entrambe sopra. Angelica si mette alla guida e Agnese parla con il cane: 

    «Dog, portaci da Ippolito, Dog, corri da Ippolito …, dal tuo padrone …, da Ippolito, Dog, corri!»

    Il cane, abbaiando e zoppicando, corre davanti al cavallo e gli fa strada. Ecco che, poco dopo, Agnese intravede da lontano un uomo seduto sotto un albero. 

    Agnese: «Eccolo ..., è lui …, grazie Signore …, fa che non sia nulla di grave!» 

    Il cavallo corre, mentre Dog precede tutti e arriva per primo. Salta, abbaiando, addosso a Ippolito facendogli le feste e contento per quello che era riuscito a fare. 

    Ippolito lo abbraccia e lo accarezza.

    «Bravo …, sei stato molto bravo!»

    Nel frattempo giungono Agnese e Angelica con il carretto. Scendono giù. 

    «Che cosa è successo?», chiede Agnese, ansiosa, al marito.

    Ippolito: «Ho battuto il ginocchio, mi fa troppo male …, io e Dog ci siamo imbattuti con tre lupi di montagna, due sono morti e uno è scappato, e mentre si lottava, sono inciampato e ho battuto il ginocchio a un sasso».

    Agnese dà un’occhiata al ginocchio, è molto gonfio e livido. Lei e Angelica lo aiutano ad alzarsi e, piano, piano, lo fanno sedere alla parte posteriore del carretto, essendo la parte più bassa. Con lui si siede Agnese insieme a Dog, mentre Angelica prende le redini e guida il cavallo.

    Tornati a casa, Ippolito, con l’aiuto di Agnese, si mette a letto, mentre Angelica con il carretto si dirige subito verso il villaggio per raggiungere il dottore. Corre con il carretto a tutta birra. Giunta al villaggio si ferma davanti alla casa del dottore. Scende dal carretto e, mentre sta per bussare alla porta, un amico di Ippolito, Leopoldo si avvicina ad Angelica.

    «Come mai sei venuta da sola senza tuo padre, e perché dal medico?»

    Angelica: «Il mio babbo è stato aggredito dai lupi di montagna e ha battuto il ginocchio cadendo».

    Leopoldo, è molto sorpreso e anche arrabbiato.

    «Di nuovo quei maledetti lupi …, è tempo di farla finita con quelle bestiacce! Un mese fa, durante il pascolo, mi azzannarono tre capre e un montone, non staremo più con le mani in mano, passerò parola agli altri …, organizzeremo presto una battuta e li stermineremo definitivamente, non staremo più ad aspettare che ci facciano altri danni; intanto, saluta tuo padre, verrò presto a trovarlo, adesso vado a informare i primi pastori e quando si ritireranno gli altri dal pascolo, ci riuniremo e decideremo il da farsi».

    Nel frattempo, il vociare dietro la porta aveva attirato l’attenzione del dottore che stava nel suo studio. Questi, incuriosito, apre la porta ed esce. Angelica lo informa dei fatti. Il dottore prende la sua borsa, sale sul carretto e si dirigono verso la fattoria.

    Giunti a casa, il dottore raggiunge Ippolito in stanza da letto e inizia la visita. Dopo un attento esame, torce il muso e parla a Ippolito: «Si sta creando il liquido, speriamo che non ci sia nulla di rotto, la risposta l’avremo tra qualche giorno, intanto, nel frattempo, spalma questo unguento su tutta la parte gonfia e, per lenire il dolore, bevi ogni otto ore un cucchiaio di questo sciroppo».

    Il medico prescrive la terapia per Ippolito consegnandola ad Agnese.

    «Dopo aver spalmato l’unguento, prendete un panno bagnato di acqua fresca e fate impacchi su tutta la parte gonfia, aiuterà a combattere il gonfiore e il dolore, mi raccomando, assoluto riposo, non si deve piegare la gamba fino a quando non sparisce il gonfiore. Per il momento, la gamba non la fasciamo e non la blocchiamo, ci rivedremo tra cinque giorni».

    Il dottore saluta Ippolito e Agnese, ed esce insieme ad Angelica. Salgono sul carretto e si avviano verso il villaggio.

    Ippolito inizia a preoccuparsi.

    «Come farò per il pascolo e per tutti i lavori da fare?»

    Agnese lo consola: «Non avvilirti, ce la caveremo …!»

    Angelica tornata a casa, dopo aver accompagnato il dottore, sistema il cavallo nella stalla e riprende ad aiutare la madre.

    Agnese ad Angelica: «Tuo padre è molto preoccupato per il pascolo e per tutto il resto …, ma noi ce la caveremo, è vero, Angelica?»

    Angelica accondiscende: «Non preoccupatevi babbo, al pascolo ci penso io, mentre per i lavori di casa ci pensa mamma, da domani porterò io il gregge in collina, alla grande quercia, verrà con me Dog».

    Ippolito: «Ci sono i lupi, come farai a difenderti?»

    Angelica lo rincuora: «Ho visto Leopoldo al villaggio …, vi saluta, e dopo che gli ho raccontato dei lupi, mi ha detto che provvederà, con gli altri, ad organizzare una battuta di caccia, tutti i pastori hanno intenzione di sterminare quelle bestie, quindi, voi potete stare tranquillo». 

    C A P I T O L O II

    Siamo agli albori del XV secolo. In Italia s’incrementa tra i popoli il desiderio di dare vita a una nuova era, un’era più moderna, un’era improntata nello sviluppo e progresso in ogni settore: nell’arte, nella politica, nell’industria, nell’agricoltura e, soprattutto, nel commercio. E’ il secolo del trapasso dall’era Medioevale a quella Rinascimentale, iniziata già verso la fine della seconda metà del 1300.

    L’Italia è divisa da tanti piccoli Stati diversi tra loro, che si distinguono per estensione territoriale e per regime politico. Tra questi, si trova la Toscana, uno stato frammentato da una miriade di entità politiche, come la repubblica di Firenze, di Pisa e di Siena. E’ la culla del rinascimento, che coincide con l’apogeo della potenza fiorentina e con l’affermarsi del casato dei Medici, che come le maggiori famiglie fiorentine, si sono arricchiti con le banche, ottenendo al contempo grande rilevanza politica nelle istituzioni repubblicane.

    Tra le tante famiglie ricche di Firenze, c’è la famiglia dei Conti Valdesi, lontani parenti dei Medici, possidenti di vasti appezzamenti di terreni nel Valdarno e nella Maremma, parte coltivata dai coloni mezzadri e parte destinata al pascolo; proprietari di un grande sito industriale tessile, situato a qualche miglio distante da Firenze, per la produzione di tessuti in lana e seta, destinati all’esportazione sui più importanti mercati europei, grazie al grande sviluppo del commercio di tali prodotti. Inoltre, possidenti di un’immensa fattoria per l’allevamento di cavalli da destinare alle cavallerie militari e, infine, varie proprietà immobiliari residenziali sparse su tutto il territorio toscano. 

    Il Conte Luigi Ferdinando Valdesi, capofamiglia, discende da una gerarchia di alta nobiltà, figlio di altri ricchi Signori: il Conte Michele Alberto Valdesi e della Contessa Dolores Di Cordova Mendoza Valdesi, vissuti nel Regno di Spagna per lungo tempo e trasferitisi definitivamente in Toscana, dove hanno trascorso tutto il resto della loro vita. Luigi Ferdinando ha vissuto la sua giovinezza studiando arte militare presso una scuola di alta formazione in Francia. 

    Tornato in Toscana, circa trentenne, con il grado di Capitano dei corazzieri, si arruolò nell’esercito fiorentino e vi rimase per alcuni anni. Ritornato alla vita civile, si dedicò all’amministrazione dell’ingente patrimonio ricevuto in eredità dai genitori. E’ un uomo sulla cinquantina, dalla corporatura alta e possente, di aspetto ben appariscente, bruno di carnagione, con baffi e pizzo ben curati, capelli ondulati di media lunghezza, sempre ben pettinati. Una figura molto ammirata per la sua eleganza. E’ un signore di alta borghesia, dotato di grande intelligenza, molto severo per il rispetto del proprio rango, attento organizzatore sui compiti assegnati al personale subalterno, compreso gli addetti alla difesa dell’intera contea, costituita da un centinaio di uomini armati. E’ Amministratore e lavoratore instancabile, abile stratega nell’attuazione dei processi produttivi nell’ambito delle sue attività agricole, industriali e commerciali, al punto di conseguire, approfittando dei tempi favorevoli, ingenti guadagni e, quindi, forti incrementi delle proprie ricchezze. E’ un buon padre di famiglia, un po’ altezzoso, scrupoloso educatore dei suoi due figli, pretenzioso di rispetto da parte loro di tutte le regole di un corretto vivere, sia a livello educativo che istruttivo, impartendo loro una severa disciplina specialmente nell’osservanza di tutte quelle norme di etichetta di palazzo. 

    Coniugato con la Contessa Maria Luisa Fabbri Valdesi, figlia del Barone Alfonso Luca Fabbri, toscano, alto ufficiale di Cavalleria Fiorentina, e la Baronessa Cristina Baldi Fabbri, di origine piemontese. 

    Maria Luisa è una donna dotata di grande fascino femminile, per la sua bellezza e modo di porsi, di carnagione castano chiaro, quasi bionda, alta e snella. Una signora sempre molto elegante, un vero simbolo dell’alta nobiltà. Figura dotata di grande generosità, sempre pronta ad offrire sostegno, con le offerte, ogni qualvolta che si presenta la necessità di aiutare i monaci dell’unico convento in tutto il Valdarno, i quali provvedono a dare sostentamento ai più bisognosi. Signora dotata di grande intelligenza e incommensurabile cultura. Per anni, in età giovanile, allieva presso una famosa scuola letteraria di Firenze, che aveva preso le sue origini dall’antica scuola denominata ‘Dolce stil novo’, fondata quasi un secolo prima da Guido Guinizzelli, nei primi anni del 1300. Scrittrice e autrice di diverse opere letterarie.

    La Contessa Maria Luisa conobbe il marito, Luigi Ferdinando, negli anni di servizio militare di questi, in occasione di un ricevimento organizzato dallo stesso corpo militare in cui prestava servizio suo padre, il Barone Alfonso Luca. Fu amore a prima vista. Bastarono qualche ballo e un drink in quella serata di gala e vari appuntamenti segreti che seguirono nei giorni successivi, per decidere di annunciare a tutti i parenti il loro fidanzamento ufficiale e, dopo qualche mese, il loro matrimonio.

    La dimora dei Conti Valdesi si trova nel Valdarno, a una cinquantina di miglia da Firenze. Si tratta di una piccola roccaforte, messa a nuovo, costruita da antenati Valdesi nei primi decenni del 1200, come rifugio e luogo di difesa, a seguito dei vari conflitti sorti per il controllo del Comune di Firenze, che diedero origine a una sorta di guerra civile tra le due fazioni opposte degli Uberti e dei Fifanti. E’ una costruzione situata su una piccola collinetta, con la facciata e il grande portone d’ingresso rivolti in direzione di Firenze, dalla quale assume una posizione dominante su tutta la pianura, sulla quale si estendono i terreni di loro proprietà. E’ una fortezza formata da una grande costruzione residenziale in posizione centrale, a due piani, e da altre piccole costruzioni, di solo piano terra, sparse intorno, utilizzate come stalla dei loro cavalli, magazzino, armeria, alloggio di una parte del personale al servizio della famiglia Valdesi, deposito di carrozze, deposito di utensili ed altri usi. Tutte queste costruzioni sono circondate da mura spesse e alte oltre una decina di metri.

    A fianco della roccaforte, si trovano le scuderie e il maneggio, in cui sono allevati e addestrati i cavalli da destinare alla cavalleria militare. Vicino alle scuderie si trova un’altra costruzione per uso alloggio degli allevatori e dell’altro personale armato, incaricato di vigilare e proteggere la fattoria, oltre a provvedere al controllo dei territori circostanti di proprietà dei Valdesi.

    Oggi è una bella giornata di primavera, non solo per il bel sole che risplende, della natura che si risveglia, dei caroselli delle rondini in cielo e dei primi fiori che colorano i pascoli, ma è una bella giornata soprattutto perché rientra a casa, in licenza, dopo quasi un anno, Michele, primogenito della famiglia Valdesi. Mamma Maria Luisa è molto in ansia, non vede l’ora di riabbracciare il figlio. Guarda di continuo dalla finestra se si apre il grande portone. 

    «No, così non va bene …, non riesco a vedere nulla», pensa. 

    Esce da casa e si dirige verso il muro di cinta. Sale la scala e arriva fin sopra la muraglia. Da lì può vedere tutta la strada che porta verso Firenze. 

    «E’ da quella parte che deve venire Michele», pensa. 

    Ancora non si vede nessuno. Va avanti e indietro lanciando sguardi fissi su quella strada. Poco dopo la raggiunge Valentina, secondogenita e sorella di Michele. Ragazza diciottenne, molto bella, alta quasi quanto la madre, bionda, capelli pieni di boccoli, bella presenza, studia letteratura e canto, come ha fatto la mamma da giovane.

    Valentina alla madre: «Non si vede nessuno?»

    «Nessuno …», risponde mamma Maria Luisa, agitata.

    Valentina: «Forse non arriva oggi … Non siate agitata, madre, se Michele non arriva oggi, arriverà domani, forse avrà avuto qualche contrattempo».

    E’ quasi mezzogiorno. In casa c’è il papà Luigi Ferdinando in attesa che arrivasse il figlio.       

    Intanto, sullo spalto della muraglia, Maria Luisa e Valentina, si scambiano pareri e ipotesi in riferimento al ritardo di Michele. Poco dopo, mamma Maria Luisa, un po’ infreddolita dal venticello che spira su quell’alto muro, dice alla figlia: «Io rientro, incomincio a sentire un po’ di freddo». 

    Dà un’ultima occhiata a quella strada e si avvia alla scalinata per scendere. All’improvviso, Valentina: «Madre, aspettate, vedo qualcosa muoversi in lontananza!»

    Maria Luisa ritorna indietro e si affaccia al parapetto dello spalto.

    Maria Luisa: «Vedo un cavaliere molto lontano che galoppa verso di noi!»

    Quella figura si avvicina sempre di più. All’improvviso si sente una voce dalla muraglia verso l’interno della roccaforte, è la vedetta di guardia che preavvisa l’avvicinarsi di un cavaliere. Sale sulla muraglia il caposquadra per vedere di chi si tratta. Poco dopo, ordina alle guardie a terra: «Aprite il portone!»

    Maria Luisa e Valentina: «E’ lui! … E’ lui! … E’ Michele!», e iniziano ad agitare, con le braccia alzate i loro fazzolettini: «Michele!... Michele!...», gridano entrambe.

    Michele, sul suo destriero bianco, un puro sangue di razza ‘turcomanno’, con finimento ben lustrato, chiamato: Fulmine, regalatogli al suo penultimo compleanno da suo padre, si avvicina sempre più alla roccaforte. Con un’elegante vestitura di color topazio, con aria da cavaliere spadaccino, con mantello e cappello ornato di piume e con tanto di spada e pugnale pendenti alla cintura, appena giunto davanti al portone, Michele alza lo sguardo verso l’alto e vede la madre e la sorella che, dalla muraglia, lo chiamano e lo salutano.

    Michele alza il braccio destro e con la mano, coperta dal guanto, saluta gridando di gioia: «Madre!... Valentina!...»

    Michele, entra nel portone, mentre la madre e la sorella scendono di fretta le scale della muraglia, tenendo sollevata la parte anteriore dei loro vestiti lunghi per non inciampare. Mentre Michele smonta da cavallo, la madre e la sorella arrivano correndo a braccia aperte vicino a lui e si abbracciano lungamente …

    Maria Luisa, a Michele lo abbraccia, lo stringe e lo bacia: «Figlio mio, come ti sei fatto bello, sei diventato uomo …, fatti vedere …»

    Altrettanto fa Valentina, abbraccia il fratello: «Quante donne hai conquistato? Com’è bello vederti da cavaliere …, come sei elegante …»

    Michele, abbracciato alla madre e alla sorella.

    «Sono felice di essere a casa e di trovarvi bene in salute. Ho cavalcato per quasi quattro giorni, sono proprio stanco, ho tanta fame e desidero un lungo riposo».

    Maria Luisa, sempre abbracciata al figlio.

    «Vieni, saliamo su in casa, tuo padre ti aspetta».

    Michele, dopo aver salutato tutte le guardie che erano dietro il portone, saluta lo stalliere, al quale gli affida il cavallo, mette sottobraccio a destra la madre e a sinistra la sorella, si avviano verso le scale esterne del palazzo, per salire in casa.

    Michele, allievo ufficiale presso l’accademia militare dei corazzieri a cavallo nella Provenza, in Francia, e, nel tempo libero, allievo spadaccino presso un famoso maestro francese, è un ragazzo ventottenne, alto, quasi biondo, come la madre, occhi celesti, pettinatura giovanile per via dei capelli a taglio corto, per obbligo di caserma, robusto quanto basta per difendersi da ogni aggressione. Ragazzo dal cuore tenero, dotato di nobili principi, molto religioso, cristiano cattolico, come tutta la famiglia, molto educato, rispettoso, molto buono e generoso, umile, a differenza del padre, non sa porre distanze tra differenti classi sociali, lui tratta tutti alla stessa maniera. Per lui non ci sono differenze tra i poveri e i ricchi, tutte le persone hanno pari diritti, soprattutto a riguardo del rispetto.

    «Siamo tutti figli di Dio, per cui, vanno tutti rispettati», ripete, osservando tutti i canoni religiosi, come un predicatore. 

    «Nessuno deve sentirsi schiavo dell’altro e nessuno ha il diritto di sentirsi superiore all’altro. Bisogna amarsi l’uno con l’altro». 

    Insomma, come si usa dire, è il classico ‘ragazzo d’oro’ che ogni donna ambirebbe avere al proprio fianco.

    Intanto, Maria Luisa, Valentina e Michele, terminano di salire la lunga scalinata esterna, entrano in casa, attraversano il lungo corridoio, passando dal grande salone delle feste, arrivano allo studio di papà Luigi Ferdinando. 

    Questi appena vede il figlio, si alza dalla scrivania, gli va incontro e sempre con quell’aria altezzosa e con voce baritonale: «Oh, eccoti qua …, giovanotto, spero tu stia bene e abbia fatto buon viaggio». 

    Michele si avvicina al padre, lo abbraccia e gli parla: «Sto bene, padre, spero che anche voi godiate di buona salute! Il viaggio è stato lungo e faticoso, ma, grazie a Dio, è andato tutto bene; ho viaggiato insieme al mio amico Marco di Lucca, anche lui in licenza». 

    Il padre: «Mi ha fatto piacere, un mese fa, la notizia della tua promozione a tenente e gli splendidi risultati che stai ottenendo con il corso di scherma, mi complimento con te, il messaggero m’informò che ti classificasti al primo posto al torneo di sciabola, organizzato dall’accademia, è stato un grande onore, non solo per te ma anche per il nome che porti. Alla tua età avevo il grado di capitano, mi fu affidato il comando di un battaglione, avevo già ricevuto tre onorificenze e gli elogi del generale, ma, non te la prendere, figliolo, quelli erano altri tempi, sei ancora giovane e hai un’intera vita davanti a te per realizzare una splendida carriera, una carriera piena di onorificenze come me e i nostri antenati, e tu hai le qualità per farla … Penso che tu sia stanco e affamato, non voglio trattenerti a lungo, avremo tempo per parlarne, vai a rifocillarti e riposarti, io ho un bel po’ di cose da sbrigare». 

    Michele: «Grazie per i complimenti, padre, ciò che ho conquistato io sin’ora è niente rispetto a quanto meritaste e otteneste voi nel vostro passato; cerco di fare del mio meglio … e vi prego di perdonarmi, se non sono stato molto bravo nell’avanzamento di grado … e nel meritarmi un comando e onorificenze … come voi, ai vostri tempi».

    Sempre con la sua solita aria baldanzosa, il Conte riprende: «Ripeto, figliolo, non te la prendere …, vai …, ci vediamo questa sera a cena».

    Maria Luisa e Valentina sono lì che ascoltano il breve dialogo tra padre e figlio. 

    Finita la conversazione, basata essenzialmente sulla messa in risalto della bravura del padre, superiore a quella del figlio, mamma Maria Luisa interviene prendendo sottobraccio Michele.

    «Andiamo, campione, il tuo pasto ti aspetta, come pure il tuo letto morbido», e si avviano verso la camera di Michele, affinché questi potesse cambiarsi e lavarsi, prima di andare a pranzo.

    Maria Luisa si accorge che Michele è un po’ rattristato dell’incontro avuto con il padre, e gli sussurra: «Non essere amareggiato, non farci caso …, sai bene come è fatto tuo padre, lui è fatto così …», e con tono scherzoso e, imitando la voce del marito: «Lui è l’insuperabile …, era capitano e aveva avuto tre onorificenze, lo volete capire?…»,  e scoppiano a ridere tutti e tre.

    Michele: «Speravo di trovarlo un po’ cambiato …, in meglio …, ma, a quanto pare, non cambierà mai …, per lui non è mai abbastanza quello che fanno gli altri».

    Maria Luisa non riesce a distaccarsi dal figlio, come pure Valentina dal fratello, decidono così di fargli compagnia mentre pranza. Michele, intanto, pranza e racconta alcuni avvenimenti della sua vita militare, episodi allegri e comici per divertire madre e sorella, omettendo vicende tristi vissute, specialmente dovute alla lontananza da casa.

    Valentina: «Madre, che ne dite se organizziamo un ricevimento con banchetto e danze, per il ritorno di Michele?» 

    Valentina a Michele: «Ti va …, Michele?»

    Michele: «Non so …, non saprei proprio ... Bisogna sentire cosa ne pensa il … ‘gran capo’…», alludendo al padre.

    Maria Luisa: «Sarebbe una buona idea …, anche perché è da molto tempo che non facciamo una festa. A vostro padre ne parlo io …»

    Maria Luisa, prima di cena, incontra il marito.

    «I ragazzi vorrebbero organizzare un ricevimento per il ritorno di Michele, vorrei sentire il tuo parere».

    Il marito: «Sai bene che io ho molto da fare …, se volete il ricevimento, incaricatevene voi a organizzarlo e invitare gli amici che volete, evitando, però, che capiti in un giorno infrasettimanale, sarebbe un problema per me a causa dei miei impegni. Chissà, forse è l’occasione che il nostro giovanotto possa conoscere qualche madamigella e incominciare a progettare una futura sistemazione …, ha l’età giusta per pensare a queste cose …, non ti pare? Non sarebbe male, se un giorno Michele sposasse la figlia di uno dei nostri vecchi amici, come per esempio, una delle figlie del Marchese Ferranti, del Barone Vitali, del Marchese Cialdini Chianti, del principe Bonari Visconti e altri lustri personaggi molto celebri e famosi tra i nobili».

    Maria Luisa: «Michele e abbastanza grande e maturo e deciderà lui in merito alla sua sistemazione futura …, non tocca a noi decidere e combinare chi sposare, ciò che conta per noi è che sia felice. Per il ricevimento, ce la vediamo noi …, vado a informare i ragazzi».

    Maria Luisa va da Valentina e Michele portandogli la lieta notizia.

    «Hurrà!...», esclama Valentina, e aggiunge: «Da domani inizieremo i preparativi …, sceglieremo gli invitati, prepareremo gli inviti e vedremo di chiamare ad allietare la serata dei bravi suonatori, un menestrello e qualche giocoliere. Che bello!..., sono proprio felice, voglio prepararmi bene per le danze, Michele, vuoi prepararmi tu? …» 

    Michele, sorridendo, annuisce. 

    Il giorno dopo, Michele per passare il tempo, si reca al maneggio per assistere all’addestramento dei cavalli. Saluta tutto il personale addetto, e gironzola per le tante stalle. Guarda qua e la, monta su alcuni cavalli di varie razze: da sella e da corsa  per vedere come quei quadrupedi addestrati seguono i comandi di chi li monta. Nel pomeriggio si allena con la scherma, grazie alla collaborazione del capo delle guardie che, a dir poco, è uno dei più bravi spadaccini dell’intero corpo di protezione di cui dispone suo padre. Trattasi del capitano Osvaldo Bellavista, grande esperto d’armi, che per molto tempo ha militato nel corpo dei combattenti mercenari, e nel quale Michele vede un degno avversario quando si esercita nei combattimenti con la spada.

    Michele e il capitano si trovano in un grande salone, un luogo dove, periodicamente, tutti i militi del corpo di guardia, a turno, fanno esercitazioni di difesa personale. E’ un’immensa sala addobbata da tante pitture raffiguranti battaglie, ritratti di personaggi di guerre passate, e, infine, tanti attrezzi da palestra, sparsi qua e la, e vari tipi di armi, lance, spade e scudi appesi ai muri dei quattro lati.

    Entrambi indossano pantaloni aderenti, a calzamaglia, e camicie bianche con polsini merlettati.

    Da quasi un’ora duellano con la spada, con tanto accanimento. Michele sfodera tutti i più importanti trucchi che gli hanno permesso di vincere i vari trofei, mettendo, senza tanta fatica, in seria difficoltà il capitano.

     Mentre si scambiano freneticamente le stoccate, Michele, senza volerlo, colpisce di striscio il petto del capitano, senza ferirlo, ma graffiando un medaglione che porta appeso al collo, con una spessa catenina.

    Michele: «Oh, perdonate, vi ho fatto male?!»

    «No, non è niente», afferma il capitano, prendendo il medaglione tra le mani per constatare il danno. 

    Trattasi di una medaglia a forma di rombo, raffigurante la testa di un drago, e il capitano osserva.

    «Si è graffiato, è un taglio perfetto, da lato a lato, passando per il centro, all’altezza del collo del drago, come se lo decapitasse».

    Michele, dispiaciuto, esprime tutto il suo rincrescimento.

    «Sono mortificato, non volevo danneggiare il vostro medaglione».

    Il capitano: «Ah, non preoccupatevi, questo graffio mi ricorderà di voi, senza dubbio, sarà un bel ricordo; ma ditemi, chi vi ha insegnato a usare la spada in quel modo, vorrei tanto conoscere il suo nome, mi piacerebbe prendere qualche lezione di scherma da lui».  

    Michele, scherzando e sorridendo, risponde: «Ah, no, non ve lo dico, potreste diventare bravo quanto me».

    «Ah, non me lo volete dire?» 

    Osserva, stupito, il capitano.

    «Allora vi faccio vedere io chi è il più bravo», e all’improvviso, affonda una stoccata con la sua spada, mentre Michele, con infaticabile prontezza e destrezza, para.

    Il giorno dopo è una bella giornata di sole e Michele muore dalla voglia di uscire a fare una lunga cavalcata tra i vasti territori di loro proprietà. Avvisa la madre che sarebbe andato al villaggio dei coloni, a trovare le tante persone a lui amiche e tanto care.

    «Non aspettatemi per l’ora di pranzo e non preoccupatevi se farò tardi», dice scendendo in fretta le scale del palazzo e dirigendosi verso l’uscita.

    La madre gli grida: «Michele, sai come la pensa tuo padre …, non tardare tanto!»

    Michele, sceso giù, chiama lo stalliere: «Ubaldo, cortesemente, se mi sellate il mio Fulmine».

    Ubaldo: «Certamente …, Signorino, provvedo subito …»

    Lo stalliere Ubaldo, uomo anziano, ormai ultra settantenne, ha trascorso la sua vita con la sua famiglia in casa Valdesi, sempre lavorando nelle loro stalle, prendendosi cura dei loro cavalli e quelli delle guardie del corpo. A Michele l’ha visto nascere, crescere, e, appena diventato un po’ grandicello, lo faceva divertire mettendolo seduto sulla sella di un cavallo. Sa che Michele è un gran bravo ragazzo e gli vuole un mondo di bene.

    Appena questi finisce di vestire Fulmine di tutti i suoi finimenti, Michele, ringrazia Ubaldo, lo saluta e sale in groppa, esce dalla fortezza e si dirige a galoppo verso le vaste praterie che precedono il villaggio senza nome. Lungo il percorso, attraverso un sentiero tortuoso che s’insinuava in un mare verde e, a zona, anche variopinto per i primi fiori di primavera.

    Michele pensa: «E’ da molto tempo che non sentivo questo delizioso profumo della natura e non respiravo la freschezza di quest’aria delicata di prima mattina, ci voleva proprio questa cavalcata», poi parla al cavallo, che galoppa con stile signorile.

    «Ti piace Fulmine..., sei contento anche tu di questa passeggiata?»

    Intanto, continua il percorso, attraversando anche qualche boschetto e poi ancora una pianura, giungendo, dopo circa un’ora, sulla cima di una collina. Da lì, Michele vedeva in lontananza un pugno di case situate al centro di un vastissimo campo di mais, scarsamente visibili a causa dei raggi del sole appena alto e che aveva di fronte. Dopo qualche minuto, arriva al villaggio. Cavalcando a passo lento, si dirige verso il centro del villaggio. Qualche abitante, fissa incredulo e stupito di veder passare un cavaliere con elegante vestitura, e così, in segno di rispetto, si china e si toglie il cappello. Nessuno ha riconosciuto Michele. Intanto, arrivato al centro del villaggio, Michele scende da cavallo e, con le redini in pugno, si avvicina a una vasca colma d’acqua che serve per abbeverare i cavalli. Mentre Fulmine si disseta, dopo una lunga cavalcata, una Signora anziana fissa lo sguardo su Michele e si avvicina, lo guarda attentamente in viso e negli occhi, poi esulta con gioia: «Michele ..., Signorino Michele ..., oh, figliolo, come siete cresciuto …», lo abbraccia calorosamente. 

    «E’ da tanto tempo che non vi vedevo, che bella sorpresa …»

    Altrettanto fa Michele, ricambia l’abbraccio sorridendo di piacere.

    «Donna Maddalena, vi ho riconosciuta subito, sono contento di vedervi …, sono venuto proprio per salutare tutti voi …»

    La Signora Maddalena chiama tutti gli altri del posto e, dopo pochi attimi, tutti si accorgono chi è il visitatore, e Michele si trova di colpo circondato da tutti gli abitanti del villaggio, che lo salutano con affetto. Michele abbraccia tutti gli anziani, che l’hanno visto nascere e crescere e che gli vogliono un gran bene e lo

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