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Raccontando Santadi
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E-book152 pagine1 ora

Raccontando Santadi

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Racconti come immagini, ricordi come ritratti, storie come schegge di vita di un tempo perduto che rivive nelle testimonianze documentali, ora intense e vibranti, ora flebili e periture, degli abitanti di Santadi, protagonisti di un'antologia di pensieri sulla storia sociale ed economica del paese all'alba del Novecento. Brani vergati di seppia per riecheggiare, sul filo di una memoria divenuta storia, uno spaccato di vita comunitaria, sospesa tra racconto e fantasia, mito e leggenda, all'ombra di un passato che è nostalgia, malinconia, tormento, ma anche inviolabile eredità storica e spirituale, da custodire e tutelare.

In sommario le testimonianze orali di Maria Angioni, Raffaela Arceri, Agnese Basciu, Salvatore Brenau, Genoveffa Cogotti, Giovanna Cordedda, Desdemona Cocco, Maria Dessì, Maria Diana, Maria Farris, Paola Anna Angela Fenu, Isabella Forresu, Raffaele Ghessa, Piergiorgio Lazzaretti, Peppina Littarru, Giovanni Mancosu, Elena Marini, Maria Giovanna Massa, Umberto Mei, Salvatorina Melis, Mario Muscas, Aldina Nonnis, Luigino Pau, Giovanni Pinna, Maria Cristina Piotti, Giuseppe Pirosu, Gesuina Sanna, Giovanna Sanna, Rina Sanna, Gervasio Secchi, Alessandro Serra, Graziella Serra, Rosa Spada, Veneranda Spada.

Il presente e-book ripropone in versione digitale i contenuti del volume "Raccontando Santadi" di Valentina Secchi (Cargeghe, Editoriale Documenta, 2019, Isbn 978-88-6454-416-8), ad esclusione del repertorio fotografico.
LinguaItaliano
Data di uscita30 ago 2021
ISBN9788864544397
Raccontando Santadi

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    Anteprima del libro

    Raccontando Santadi - Valentina Secchi

    Prefazione

    Racconti come immagini, ricordi come ritratti, storie come schegge di vita di un tempo perduto che rivive nelle testimonianze documentali, ora intense e vibranti, ora flebili e periture, degli abitanti di Santadi, protagonisti di un'antologia di pensieri sulla storia sociale ed economica del paese all'alba del Novecento. Brani vergati di seppia per riecheggiare, sul filo di una memoria divenuta storia, uno spaccato di vita comunitaria, sospesa tra racconto e fantasia, mito e leggenda, all'ombra di un passato che è nostalgia, malinconia, tormento, ma anche inviolabile eredità storica e spirituale, da custodire e tutelare.

    Nota editoriale

    Il presente e-book ripropone in versione digitale i contenuti del volume Raccontando Santadi di Valentina Secchi (Cargeghe, Editoriale Documenta, 2019, Isbn 978-88-6454-416-8), ad esclusione del repertorio fotografico.

    Il volume raccoglie una selezione di testimonianze orali di abitanti di Santadi. I testi, trascrizione di interviste realizzate sul campo nell’arco temporale intercorrente tra i mesi di febbraio e settembre 2019, riportano il contenuto dei documenti orali originali con larga fedeltà alle forme sintattiche e semantiche adottate dagli informatori.

    Santadi negli anni Quaranta

    Sono nata in Via Monte Sebera a Santadi, un paese molto bello ma anche molto povero.

    Le strade erano bianche, non avevamo l’acqua nelle case ed eravamo costretti ad andare a prenderla nei rubinetti che c’erano in giro nel paese; erano formati da laccusu, vasche, dove scorreva l’acqua per tutto il giorno. Uno si trovava a Santadi Basso, uno in Via Veneto e un altro in Via Speranza. In questi punti andavano a bere anche gli animali portati da pastori, bovari e caprari a rifocillarsi.

    In giro non c’erano molte case — c’era molta campagna — e quelle che si trovavano erano molto povere.

    La scuola era situata al centro di Santadi, nella sede del Comune. Io abitavo a Santadi Basso e vi andavo tutti i giorni a piedi, che ci fosse caldo o freddo poco importava. Nei periodi in cui faceva freddo, per scaldarci, avevamo un barattolino che portavamo da casa con dentro la brace del fuoco.

    Anche la stazione dei Carabinieri si trovava al centro del paese, nella via che scende da Piazza Marconi.

    La nostra vita da piccoli era molto semplice. Ci riunivamo con le altre bambine e insieme giocavamo a nascondino, a giro giro tondo o a saltare la corda. Quando uscivamo eravamo controllate dai nostri fratelli perché erano molto gelosi di noi. Non potevamo assolutamente giocare con i maschi: guai a noi se l’avessimo fatto! Eravamo tenute sempre sotto controllo!

    La mentalità era molto rigida a quei tempi. Quando ero ragazzina potevo uscire solo la domenica per andare in chiesa ad ascoltare la messa; formavamo un gruppetto di due-tre ragazze e andavamo insieme. A noi non è che interessasse molto la messa, ci piaceva andare per vedere i ragazzi visto che non avevamo altre occasioni per uscire. Con i ragazzi potevamo solo guardarci e salutarci da lontano dicendoci buongiorno e buonasera, niente di più. Come sono cambiati i tempi!

    Rosa Spada

    La casa della mia infanzia

    Sono nata a Is Xianas, dopo Is Pirosus, entrambe frazioni di Santadi, e sono la prima di tre figli. La nostra famiglia era povera; mio papà lavorava nelle terre di altre persone, zappava, tagliava il grano, insomma, faceva quello che gli capitava. Anche mia madre lavorava nei campi.

    Avevamo una casa nostra anche se piccola; i miei genitori erano riusciti ad acquistare due stanze dopo la mia nascita grazie al duro lavoro soprattutto di mamma. La casa aveva una sala, nella quale c’era il lettino in cui dormivo io, la camera dei miei genitori e una cucina. Non avevamo il bagno: all’epoca non esistevano nelle case; al suo posto si utilizzava un terreno che si trovava oltre su furriadroxiu, il villaggio rurale: ogni famiglia aveva il suo pezzo. Noi il nostro lo avevamo recintato e lì era stato scavato un buco.

    Per lavarci utilizzavamo un lavamano e quando dovevamo fare il bagno prendevamo l’acqua dal pozzo comune e riempivamo una bacinella. Andavo io a prendere l’acqua, già dall’età di cinque anni.

    Nella nostra casa avevamo solo il necessario, era spoglia. C’erano solo un lettino, un armadio tottu xiuxiau, tutto rotto, preso di seconda mano non so da chi, nel quale mamma conservava le nostre cose. Il mio lettino era vecchio ma molto carino, era di ferro decorato con fiorellini colorati. A mamma però non piaceva e quando sono cresciuta lo ha buttato via subito.

    Poi avevamo una piccola cucina che era il punto d’incontro dei cacciatori de su furriadroxiu tra i quali c’era mio padre. Venivano tutti al mattino presto, quando ancora era buio, e poi partivano tutti insieme. Il bottino della caccia veniva utilizzato per rivenderlo perché ci servivano soldi.

    Noi mangiavamo solo fave, piselli e ceci anche se c’è da dire che i ceci li mangiavamo solo di tanto in tanto perché rispetto agli altri legumi costavano di più: erano considerati una prelibatezza, quindi si consumavano solo in occasioni speciali!

    Graziella Serra

    Benessere e povertà

    Le famiglie come la nostra, che possedevano terre e bestiame, necessitavano dell’aiuto di alcune persone che ricoprissero diverse mansioni per poter svolgere al meglio il duro lavoro che c’era da sbrigare ogni giorno. Coloro che si occupavano del bestiame erano: il bovaro, che svolgeva il lavoro con i buoi; il pastore, che si prendeva cura delle pecore; il porcaro, che si occupava dei maiali.

    Ricordo, e ci tengo a sottolinearlo perché mi è rimasto impresso il loro duro lavoro, che durante su scassu, scasso delle terre, coloro che si occupavano dei buoi si alzavano alle tre del mattino per dargli da mangiare; li nutrivano con paglia e fave schiacciate per fornirgli un po’ di energia poiché avrebbero dovuto lavorare dall’alba fino alla sera.

    Per il lavoro nei campi, invece, noi avevamo come collaboratori s’òmini e su mes’òmini. S’òmin i veniva retribuito una parte in denaro e una parte con la percentuale del prodotto. Solitamente la paga corrispondeva ad uno starello, antica unità di misura chiamata anche moggio usata a Cagliari prima dell’adozione del sistema metrico decimale, ogni dieci, ovvero il 10% del ricavato. Su mes’òmini veniva pagato in contanti.

    Le famiglie abbienti avevano la domestica ad occuparsi delle faccende di casa. Oltre ad avere chi collaborava con loro, le persone più facoltose si riconoscevano anche dai tessuti dei vestiti, solitamente lana e lino; chi era meno abbiente, invece, utilizzava il fustagno. Molti uomini possedevano un gilet particolare con un disegno e le tasche alla cacciatora.

    Ricordo inoltre i calzoni dei più poveri che spesso si rovinavano sulle ginocchia; per non perderli cambiavano la parte anteriore e si vedeva una parte grigio chiara e una scura.

    Dal punto di vista alimentare ricordo che chi era maggiormente abbiente mangiava più spesso la carne, anche se non sempre. Anche noi che avevamo il bestiame solitamente lo vendevamo! E come condimento utilizzava l'olio; chi era meno abbiente, invece, al posto dell’olio utilizzava lo strutto.

    Salvatore Brenau

    L’infanzia vissuta in povertà

    Mio padre si chiamava Raffaele e faceva il contadino, mia madre Luigia faceva la casalinga. Sono la seconda di dieci figli di una famiglia povera: per questo non potevamo permetterci tanto.

    Iniziai la scuola che avevo sette anni perché prima iniziò mia sorella; non potevamo andare entrambe contemporaneamente perché a casa eravamo in tanti e mia madre aveva bisogno di un aiuto, come andare a lavare la roba al fiume e fare il pane per la famiglia.

    Del periodo della scuola ricordo che quand’ero in prima elementare, ogni tanto davano ai bambini dei regalini, proprio perché eravamo molto poveri. Non ricordo con certezza ma mi pare fosse il Comune a metterli a disposizione. Per riceverli si faceva ad estrazione e quando toccò a me vinsi una camicetta in seta rosa con i fiorellini più chiari: non la dimenticherò mai! Il maestro però decise di scambiare il mio dono con quello di una mia compagna: ricevetti così due saponette!

    Che eravamo davvero poveri si poteva notare anche da come vestivamo. Una volta mamma mi cucì una gonna con il materiale con cui si facevano le tende militari: sicuramente gliel’avevano regalata. Quando la indossai mi provocò numerosi tagli perché raschiava sulla gamba.

    La prima volta che misi le scarpe,

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