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Nella mia pelle
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E-book161 pagine2 ore

Nella mia pelle

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Info su questo ebook

Nel cielo stellato di montagna, in Kosovo, nascevo io, figlia di un Dio, figlia di più di un Dio, figlia delle stelle, figlia di un uomo e di una giovane donna ma, soprattutto, figlia di mio padre.
Ho viaggiato tanto, ho viaggiato con lui, e ho viaggiato sola, grazie a lui.
Un padre ti mette al mondo, ti salva la vita, e poi te lo strappano via, quando è lontano, troppo lontano e resta indelebile, nella tua pelle. Questa è la sua storia, la mia storia, la nostra. Questa è la storia della mia pelle, di un viaggio che è iniziato lontano, e molto tempo fa. Adesso posso finalmente raccontarlo, adesso posso dire: abbiate coraggio.

Ljuljete Salahi nasce a Krasaliq, in Kosovo, il 28 luglio 1982.
Oggi vive ad Anzola dell’Emilia, in provincia di Bologna, assieme alla sua famiglia. 
Lavora in un maglificio che si occupa di alta moda.
LinguaItaliano
Data di uscita13 set 2022
ISBN9791220133517

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    Anteprima del libro

    Nella mia pelle - Ljuljete Salahi

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    Ljuljete Salahi

    Nella mia pelle

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-2857-5

    I edizione agosto 2022

    Finito di stampare nel mese di gennaio 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Nella mia pelle

    Dedico questo libro a mio padre e al suo amore sconfinato che oggi io provo per i miei quattro figli: dedico il libro anche a voi, anime belle, mie persone preferite.

    Dedico questo libro a un altro amore, quello di mio marito Benoit che da quando mi ha trovata, non mi ha lasciata mai. Neanche durante la scrittura della mia storia.

    Il mio pensiero va a tutte le persone che vivono una situazione difficile, a loro dico: non perdete mai la speranza.

    1) Io prima di me

    Sono Ljuljete, mi chiameranno Giulia, ero un pensiero d’amore, ero lontana.

    Nel cielo stellato di montagna, in Kosovo, nascevo io, figlia di un Dio, figlia di più di un Dio, figlia delle stelle, figlia di un uomo e di una giovane donna ma, soprattutto, figlia di mio padre.

    Era alto, mio padre. Aveva delle braccia possenti, frutto del lavoro, seme della forza che si imponeva di avere per le persone che amava. Era bello, mio padre. Aveva due occhi grandi e scuri, espressivi di ogni emozione, colmi di impegno, vigili e attenti. Aveva un bel viso mio padre, talmente delineati i suoi lineamenti che tutt’ora, senza bisogno di guardarlo in foto, riuscirei a disegnarlo, se sapessi disegnare. E invece, cucio. Ma questa è un’altra storia. Io sono Ljuljete, e questo è un frammento di ciò che c’era prima.

    Mio padre, Islam, proveniva da una famiglia molto umile e povera. La sua famiglia era numerosa, non era mai solo, mio padre. La sua famiglia e lui vivevano in una casa che aveva fatto costruire mio nonno. Pensate a tanto cemento, tante pietre, tanti scalini, un intonaco chiaro e un tetto scuro, fatto di tegole come quelle di una volta, una casa come le prime che disegniamo quando a scuola ci viene chiesto di disegnare una casa. La casa di mio padre era stata costruita su un terreno isolato in mezzo alle montagne. Tra i campi, nella natura. Lontano, molto lontano, da tutti, dalla gente, da me che non ero ancora nemmeno un pensiero. Tra le foglie, gli uccelli, e gli orti. Lontano.

    Anche mio nonno apparteneva a una famiglia umile ma, nonostante ciò, gli era stato affidato il gravoso compito di sorvegliare il vastissimo bosco che sovrasta il villaggio di Krasaliq, situato nel distretto di Mitrovica, nel sud del Kosovo e non troppo lontano dalla Serbia). Krasaliq: il villaggio di origine di mio padre, dei miei zii, dei miei fratelli e dei miei cugini. Lontano. In quella parte del Kosovo sotto il giogo della Serbia.

    Mio nonno andava fiero del suo incarico, sia perché gli permetteva di godere di un certo status sociale, seppur fosse semianalfabeta o, per dirla meglio, privo di qualsiasi forma di cultura (persino il Corano lo leggeva a modo suo), sia perché gli consentiva di sfamare sua moglie e i suoi sei figli e col tempo... anche i nipoti. Ciò che mio nonno conosceva, i suoi credo, i suoi ideali, ruotavano tutti attorno all’Islam, anzi, a ciò che credeva di sapere sull’Islam, ai precetti del Corano e alle tradizioni del Kosovo, molto vicine a quelle albanesi. Era molto credente, mio nonno, seguiva il Ramadan, pregava tutti i venerdì e andava anche in moschea. Quando c’era il mese di Ramadan, gli uomini e le donne mangiavano separatamente: prima gli uomini poi le donne. Sempre poi... le donne.

    Le foglie si scuotevano rapide, col vento gelido, qualcosa di nuovo si stava preannunciando. E, in quella casupola tra le montagne, nell’Islam, nella numerosa famiglia, in questo contesto, il 3 giugno del 1953 nasceva il mio papà.

    Mio nonno ha avuto quattro figli maschi. Mio padre era il terzo. Sono nati bene, direbbe mio nonno, in una società maschilista come lo era quella kosovara, soprattutto in quell’ epoca. Era estremamente importante avere figli maschi e per più d’una ragione. I maschi possono assicurare la discendenza della famiglia, possono lavorare le terre e dare da mangiare al nucleo famigliare intero, nella sua complessità. Mio padre non era solo tra maschi, e mi vien da dire, per fortuna, c’erano donne nella sua vita: le sue due sorelle, una più grande e una più piccola, le mie zie.

    Era un gran lavoratore, il mio papà. Ai suoi tempi la terra si lavorava a mani nude, con la fatica e il sudore della pelle, nudi, puri, sciolti sul volto stanco, appiccicati al sonno a cui difficilmente vi si poteva concedere. Si lavorava con i cavalli oppure, a volte, anche con l’aiuto dei tori e tutto ciò che si raccoglieva era frutto di sacrifici indescrivibili e ore di lavoro fuori da qualsiasi forma di dignità per l’essere umano. Nulla, assolutamente nulla, veniva sprecato. Ci si alzava molto presto la mattina per sfruttare al meglio la luce del giorno. L’alba in montagna ha un suo fascino particolare ma... chi poteva goderselo? Basti pensare che il vero lusso era possedere un aggeggio a quattro ruote. Penserete a una macchina... e invece no. Sto parlando di un trattore. Pochissimi si potevano concedere questo lusso, il lusso di possedere un trattore che, allora, costava tantissimo. La gente di campagna, la poverissima gente di campagna, pensava ai soldi non per il piacere di possedere e accumulare profitti come siamo abituati a fare noi qui, noi oggi, ma come unico mezzo di sostentamento. Bisognava mangiare per vivere, il resto non contava, era un di più, e veniva sempre dopo.

    I campi. Erano colorati quei campi. Erano pieni di gente quei campi. Pieni di generazioni, di sangue gettato e sudore assorbito dal sole. Io lo ricordo ancora. Ricordo donne di ogni età: giovani, vecchie, stanche. Ricordo i bambini, e le bambine che invece che scorrazzare felici e godersi l’infanzia, dovevano lavorare per potersi sfamare e portare a casa un frutto. Ricordo i ragazzi e le ragazze, che non avevano tempo per pensare ai primi baci al gusto di Coca Cola, anche loro, dovevano lavorare.

    Tutti, indistintamente, impiegavano l’intera giornata per seminare vasti campi senza fine con unico fine: mangiare o vendere i prodotti della terra per vivere o più che per vivere per andare avanti, per sopravvivere. Questa idea è oggi impensabile da metabolizzare o applicare in Occidente grazie all’impego delle macchine agricole, l’industrializzazione e la globalizzazione. Ma non bisogna dimenticare che, in alcune realtà, tutto questo è ancora tristemente reale.

    Passava il tempo e mio nonno, grazie al suo ruolo sociale, riuscì a permettersi un lusso a quattro ruote. Riuscì a comprare un rarissimo trattore e quella mossa contribuì a rafforzare la sua posizione di persona rispettabile e soprattutto rispettata da tutti. Oltre a essere un autorevole capo di famiglia, mio nonno era il capo della Natura, era il capo della Montagna e si occupava lui di far rispettare a tutti le regole:

    Regola numero uno – Nessuno può entrare nel bosco, cacciare, o tagliare la legna senza il suo permesso.

    Conseguenza – Multe salate e rischio di essere denunciati alle autorità giudiziarie competenti.

    Il tempo continuava a passare e mio nonno diventava sempre più padrone della Montagna, voleva gestire tutto, svegliarsi con lei, ammirarla e di tutto questo, non poteva che andarne fiero.

    Ma torniamo al mio papà. Lui sin da bambino si mostrava molto sensibile e dotato di grande altruismo. Ha cercato sempre di essere utile ai suoi fratelli e alle sue sorelle, ai suoi genitori, molto indaffarati con le terre da lavorare e tutte le faccende della numerosa famiglia.

    Era intelligente, mio padre. E se ora i ragazzi intelligenti li si stimola a investire nel proprio intelletto in nome di una indipendenza interiore ed economica, nel suo caso, gli è stata negata subito la scolarizzazione perché era mancino. Erano belle le sue mani, a chi importa davvero quale fosse quella che utilizzava per scrivere? Alcuni dicono ci sia del genio nascosto nei mancini, e sicuramente la mano di mio padre, i suoi pugni chiusi e stretti, i segni del suo lavoro, la mano di mio padre e tutto il resto, conteneva un segreto e lo avrebbe spinto lontano da lì. Ma così non è stato, essere mancini in quegli anni non era visto di buon occhio: un po’ per ignoranza, un po’ per cultura.

    Così, il mio papà mancino decide di dedicarsi al lavoro per contribuire al da farsi e aiutare la sua famiglia alla quale è molto legato. Impara prestissimo a lavorare la terra e a conoscere la natura e gli animali, che ama particolarmente. Gli piacciono enormemente i cani e i cavalli, amore che porterà con sé per sempre. I cavalli, quelli scuri, con gli occhi grandi come i suoi e la coda sinuosa e soffice, quelli battaglieri, quelli pieni d’amore per il padrone. Ricordo, come se fosse stampato nella mia memoria, l’importanza che dava nel prendersi cura degli zoccoli del cavallo. Anche noi dovremmo avere degli zoccoli... gli zoccoli hanno una funzione vitale per il cavallo: proteggono l’arto dell’animale come le scarpe proteggono i nostri piedi dall’asfalto cocente. Quindi una buona manutenzione degli zoccoli del cavallo si ripercuote sulla sua salute, il suo benessere. Era bravo mio padre. Mio maestro del prendersi cura. Aveva un rapporto tutto suo con il cavallo. Lo trattava come un essere umano, parlava con lui, gli raccontava le sue preoccupazioni, la sua giornata. Stava persino in silenzio con lui e si lasciava guardare.

    Mi diceva sempre: Ljuljete, con un cavallo non avere mai paura. Loro ti proteggono.

    Si sentiva al sicuro, con i cavalli, il mio papà. Basta guardarli in faccia, diceva. E quando erano agitati, come fossero bambini bisognosi d’affetto e serenità, mio padre glielo leggeva in viso. Li prendeva dal muso e diceva loro di calmarsi. E loro, puntualmente, lo ascoltavano. Ma come dargli torto.

    Tutti noi dovremmo avere degli zoccoli. Quante volte ci capita di sentirci nudi, senza protezione, senza sapere da chi possiamo riceverla. Quante volte sentiamo freddo, e quante altre quel freddo non va via. Gli zoccoli sono un po’ l’amore che ci meritiamo... Ma dov’è questo amore?

    Io in mio padre l’ho visto. E lui l’ha visto in mia madre, e certamente in me. Si sposò molto giovane con una ragazza proveniente da un villaggio limitrofe. Da questa prima unione, è nato il mio primo fratello, Florim, nel 1978. Dopo alcuni mesi dalla nascita di Florim, la relazione tra mio padre e sua moglie non funzionava, andava precipitando e, di comune accordo, hanno deciso di separarsi anche e soprattutto per il bene del loro figlio. In Kosovo, dopo un divorzio, i figli seguono il padre perché più tutelati economicamente, viste le maggiori possibilità di avere offerte di lavoro e anche perché con un figlio a cui badare, la donna rischia di non riuscire a sposarsi nuovamente. A quell’epoca, in quel posto lontano, lontano da tutto, si ragionava così e quello che, al giorno d’oggi, sembra desueto e privo di ragion d’essere, lì era la forma mentis, il modo abituale di vivere e di concepire le cose.

    Dopo alcuni mesi dalla separazione dalla prima moglie mio padre ha conosciuto mia madre, Bahtije, che si pronuncia Bati, così come lo scriverò, dieci anni più giovane di lui. Bati era meravigliosa, intelligente, e di una sensibilità rara, con uno sguardo sul mondo tutto suo, con due occhi grandi che riflessi in quello di mio padre, gli hanno fatto trovare subito speranza, e sconfinato amore.

    Ma come in Romeo e Giulietta, e in tutti gli amori più veri, non possono mancare le difficoltà, non può mancare il dolore. C’era una grande differenza sociale tra le famiglie di provenienza, quella del mio papà e quella della mia mamma. Mio padre proveniva da quella che non era altro che una famiglia contadina molto umile e immersa nei sacrifici di vita. Mia madre, proveniva da una famiglia molto benestante, lei era tanto istruita e, non per ultimo, aveva dei modi piuttosto raffinati. Il desiderio di mio padre di unirsi in matrimonio a lei e consacrare quell’amore fresco e sofferto, viene subito spento dai genitori di Bati. Lui era andato da loro per chiedere la sua mano, era agitato, aveva paura, si levava via i residui di ansia dalla fronte con la sua mano sinistra, quella col segreto, e pensava agli occhioni di Bati e a quel cuore che voleva proteggere, che voleva battesse per lui, così lo ha fatto. Ma oltre all’analfabetismo e alla sua povertà, gli viene contestato di essere divorziato, cosa non da poco per quei tempi, in quel posto lontano, soprattutto vista la giovane età di lei, ancora minorenne. Tuttavia, per il grande sentimento di amore e affetto che Bati provava per il mio papà, la giovane donna, più donna che giovane, che presto sarebbe diventata la mia mamma, decide di rinunciare ai suoi genitori, ai suoi amati cari, al benessere economico e al lusso,

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