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LA TERZA STORIA - Il mondo dopo il contagio
LA TERZA STORIA - Il mondo dopo il contagio
LA TERZA STORIA - Il mondo dopo il contagio
E-book254 pagine3 ore

LA TERZA STORIA - Il mondo dopo il contagio

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Info su questo ebook

Miriam è un avvocato di successo, una “tosta”, felice di vivere nella città più dinamica del mondo, felice del suo matrimonio con un uomo che la ama e la fa sentire al sicuro. La sua vita sembra perfetta. Unico neo, alcuni sogni con presagi, a volte, drammatici. Proprio uno di questi, anticipa la telefonata che manderà in frantumi le sue certezze e sconvolgerà la sua vita: suo marito è in coma, colpito da un virus sconosciuto, mentre si trovava a Cuba, quando lei, invece, lo credeva a Miami. Nel percorso che la porterà a scoprire cosa nasconde questa bugia e a salvare suo marito, in realtà Miriam, rivivrà tutta la sua vita; capirà quanto effimera sia la sua sicurezza; sperimenterà la solitudine profonda, che caratterizza una società che pare, invece, vivere di comunicazione.Tuttavia, proprio nel momento in cui si sentirà più fragile e sola, in cui capirà che non può fare a meno di avere paura e che dovrà decidere di fidarsi di persone a lei apparentemente sconosciute, poserà la prima pietra della sua rinascita e salverà tutta l’umanità da una tragedia immane.
LinguaItaliano
Data di uscita21 set 2020
ISBN9788831688291
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    Anteprima del libro

    LA TERZA STORIA - Il mondo dopo il contagio - Miriam

    info@youcanprint.it

    1

    Onde immense si infrangevano sulla spiaggia, mentre la città, al suo limitare, veniva divorata da fiamme altissime.

    Con il cuore in gola, Miriam cercava di scappare, correndo sempre più veloce. Sempre di più! Ma l’incalzare di quell’apocalisse, dietro di lei, non le dava scampo. Sentiva la terra mancarle da sotto i piedi.

    Ne era certa, ormai, era la fine.

    Chiuse gli occhi e accettò di lasciarsi andare, di sprofondare in un turbinio incontrollabile di emozioni: il tutto e il nulla, il buio e la luce… E poi, dopo un attimo, o forse un secolo, si sentì riemergere, come sospinta da una forza sovrumana che la riportava alla vita.

    «Signora Henderson, si risvegli! Miriam, si svegli».

    Miriam aprì gli occhi.

    Il cuore le batteva ancora molto forte. Le ci volle più di un minuto per mettere a fuoco la realtà e capire che tutto ciò che credeva le fosse successo sino a poco prima era soltanto un sogno.

    Già, un sogno.

    Il solito, terribile sogno che tornava a tormentarla ogni volta, come una premonizione, l’avviso che stava per succederle qualcosa di grave.

    La razionale Miriam, la penalista seria e di successo, la terribile Miriam, che non perdeva una causa da dieci anni, che non mollava mai, che riusciva a smontare le accuse più crude rivolte ai suoi clienti, che figura avrebbe fatto con i suoi detrattori, ma anche con i suoi sostenitori, se avessero saputo che si lasciava condizionare e spaventare da uno stupido sogno?

    Non sarebbe di certo sfuggita al ridicolo.

    Tutto era iniziato qualche anno prima, con un incubo molto particolare: si trovava nella sua prima casa; nella piccola cucina che era stata il regno della nonna. La stanza, però, nel sogno, era molto scura, in deciso disordine. La nonna le girava la schiena e sembrava intenta a lavare i piatti. Ad un certo punto si voltava, mostrando un viso un po’ strano, emaciato, e le rivolgeva uno sguardo molto triste. Il sogno continuava, ma all’improvviso non era più in cucina: se ne stava alla finestra, in soggiorno, ed era come se sentisse addosso la tristezza della nonna.

    Da quel punto di osservazione vedeva arrivare un pullman che, giunto di fronte alla casa prospiciente, sbandava e si rovesciava. Un forte sentimento di angoscia la pervadeva: anche se sul mezzo non c’erano persone, sapeva che qualcuno era morto.

    E con tale sentimento si era svegliata.

    Ma come accade sempre con i sogni, dopo un po’ non ci aveva più pensato. Eppure, due giorni dopo, il parente che abitava nella casa di fronte, tornando dal lavoro alla guida della sua gru, aveva avuto un infarto ed era morto.

    Il legame con l’incubo era fin troppo evidente.

    Quella vicenda l’aveva tormentata per più giorni, anche se poi la vita quotidiana, con i problemi concreti, a poco a poco, le aveva fatto scordare quegli strani pensieri.

    Da allora quei sogni particolari (non osava chiamarli premonitori) erano tornati, anche se non sempre così espliciti. E molto spesso avevano a che fare con il mare, con l’acqua. A volte era un mare torbido e grigio dal quale, dopo una calma apparente, si levavano onde gigantesche.

    Lei era sempre lì, spettatrice di un evento che la sfiorava soltanto o, come in quella notte, travolta dal cataclisma.

    In rarissime occasioni si era trovata di fronte ad un mare limpidissimo: di un turchese inverosimile. In quei casi si sentiva pervasa da una grande gioia e tale era la serenità che le pareva di volare. Anche se non sempre quell’acqua meravigliosa era raggiungibile: spesso la vedeva solo da lontano, ma il sogno terminava prima che lei vi si potesse immergere.

    Soltanto in tre occasioni, in quegli anni, aveva potuto farlo, nuotando a lungo, senza mai sentire il bisogno di tirar fuori la testa per respirare.

    La sensazione che aveva provato era stata incantevole: una serenità profonda aveva percorso il suo corpo, regalandole la certezza di essere nel posto giusto: a volte era sola, mentre altre con qualcuno della famiglia e tutti le sorridevano, come per comunicarle che la sua gioia era anche la loro.

    Da sveglia, mai aveva provato una sensazione simile.

    Con il passare del tempo aveva dovuto prendere atto che quei sogni preludevano, in proporzione alla loro intensità, a episodi, più o meno importanti della vita reale, che sarebbero accaduti di lì a poco: quelli tragici annunciavano fatti dolorosi, quelli pieni di felicità anticipavano gioia e serenità.

    Ormai li riconosceva.

    Tutto passava attraverso alcuni elementi fissi: la vecchia casa dove aveva abitato, l’acqua, le persone morte a cui in qualche modo era legata e che tentavano di inviarle messaggi che lei, però, non riusciva mai a decifrare con chiarezza.

    La cosa certa era che Miriam aveva cominciato a temere quei sogni e in particolare quelli che portavano presagi infausti.

    Infatti, purtroppo, la maggior parte delle volte ne capiva il significato soltanto dopo che l’avvenimento reale, collegato al presagio, si concretizzava.

    Da tempo, ormai, si chiedeva il perché di quelle premonizioni.

    «A che cosa serviva fare quei sogni? Era possibile che qualcuno, da chissà quale mondo, volesse comunicarle qualcosa? Erano forme di aiuto?»

    Così, anche quel mattino, al risveglio, sapeva che le onde altissime e le fiamme ancora più alte, impresse nella mente, comunicavano al suo cuore che la tragedia era imminente.

    E la stessa non tardò ad annunciarsi.

    A svegliarla, in realtà, era stata Rosita, la domestica, mettendole tra le mani una fumante tazza di caffè e dicendole: «Stia tranquilla, non si agiti».

    Miriam si era guardata intorno, un po’ stordita, non riuscendo a mettere a fuoco la situazione

    Rosita, allora, aveva continuato, informandola che avevano appena telefonato dal Mount Sinai Medical Center, dove suo marito era stato ricoverato alcune ore prima, nel reparto di rianimazione e i dottori l’attendevano con urgenza.

    2

    L’ospedale era uno dei migliori della città e tutto, dentro e fuori la struttura, confermava quel primato.

    Miriam era seduta da più di un’ora su una delle poltroncine, predisposte per i parenti, nella sala di attesa del reparto.

    Uno schermo segnalava da che dottore era seguito ciascun paziente e i tempi entro i quali ogni parente sarebbe stato contattato per un colloquio.

    All’accoglienza, un’impeccabile assistente l’aveva fatta accomodare lì, dove tutto era luminoso, nei colori del mare e del cielo; dove tutto sembrava predisporre alla calma, alla serenità.

    In realtà, a lei, in quell’angosciante attesa, tutto pareva drammaticamente asettico e nulla poteva riscaldare il suo cuore in pena, torturato dai mille aghi dell’ansia: un cuore che aspettava notizie e che non si dava pace; un cuore che si domandava di continuo come fosse possibile che la persona che amava fosse ricoverata da ventiquattrore in rianimazione, in condizioni molto critiche.

    «Signora Henderson» la chiamò l’assistente, «prego, si accomodi nello studio, il dottor Robinson sta arrivando».

    E con un gesto gentile, accompagnato da uno sguardo dolce, le indicò la prima porta alla sua sinistra.

    Il medico in questione era il primario del reparto.

    Miriam si ricordò di averlo visto, solo un mese prima, su una rivista, intervistato da una celebre giornalista scientifica. L’articolo riguardava un vaccino, scoperto da poco, per combattere un virus raro che aveva fatto diverse vittime in una parte dell’Africa.

    Il famoso dottor Robinson, specializzato in immunologia, era spesso all’estero, diceva l’articolo, dove contribuiva alla scoperta di nuove cure per malattie rare.

    Miriam non poté far a meno di notare quanto l’uomo, nonostante si avvicinasse alla sessantina e sebbene mostrasse l’evidente stanchezza di un turno di notte, apparisse affascinante, lasciando trapelare, in ogni suo gesto, la coscienza di essere una persona molto carismatica.

    Ma, al tempo stesso, colse la profonda tristezza che quei magnifici occhi turchesi, nella loro intensità e forse loro malgrado, trasmettevano, come se non riuscissero a nascondere tutto il dolore a cui, in quegli anni, avevano assistito.

    Nonostante il suo modo di fare rassicurante, Miriam capì che il dottore, dopo anni di professione, ancora non riusciva ad accettare le molte sconfitte che, in un reparto di rianimazione, nonostante la sua bravura, aveva dovuto subire.

    L’ufficio era molto accogliente, più simile al salotto di una elegante casa di campagna che allo studio di un primario.

    Forse l’obiettivo era quello di mettere a proprio agio, chi, di lì a poco, avrebbe dovuto sentire notizie per la maggior parte delle volte poco rassicuranti.

    I toni dell’azzurro riprendevano quelli dei corridoi esterni, ma si aggiungeva un effetto ovattato, grazie alle luci scelte con maestria.

    Chiusa la porta dello studio, i tipici rumori di un ospedale erano spariti.

    In quella delicata penombra, a Miriam sembrò di trovarsi tra le nuvole o, meglio ancora, in una morbida e accogliente culla.

    I movimenti di quell’uomo, il suo sorriso, la pacatezza, sia nei gesti, sia nel modo di parlare, trasmettevano serenità.

    Ma lei non staccava i suoi occhi dallo sguardo magnetico che invece, nonostante il tentativo di nasconderla, lasciava trapelare, come una stilettata, una profonda tristezza.

    Il dottore la invitò a sedere in una confortevole poltrona, di fronte alla scrivania.

    Soltanto allora lei si accorse di quanto le sue gambe tremassero e di come il cuore fosse a mille, nell’attesa di sapere come stava suo marito.

    Sentì che quella pacatezza, quel tentativo di comunicare che tutto andava bene, anche se non era così, cominciava a divenirle insopportabile.

    L’uomo capì e senza reagire si sedette a sua volta.

    A quel punto fissò dritto negli occhi Miriam con uno sguardo che era tutto un discorso.

    Qualsiasi cosa le avesse detto, da quel momento in poi, qualsiasi cosa le avesse spiegato, i suoi occhi lanciavano un messaggio inequivocabile: Frank era in condizioni disperate e difficilmente si sarebbe salvato.

    «Signora Henderson, suo marito ha un’infezione causata da un virus che non conosciamo. Stiamo facendo tutto il possibile, ma al momento non abbiamo ottenuto miglioramenti. In ogni caso, ci siamo messi in contatto con tutti i principali centri di ricerca a livello internazionale e abbiamo dato loro tutte le informazioni, nella speranza che qualcuno, anche solo in fase sperimentale, possa proporre una cura. Ciò non vuol dire che Frank riesca, con il suo sistema immunitario, a uscirne. Infatti, in questo momento, la nostra terapia è mirata proprio a supportarlo in tal senso. Purtroppo non posso nascondere la mia preoccupazione, nella consapevolezza di quanto la situazione sia grave. In ogni caso non disperiamo. Non lasceremo intentata nessuna strada e speriamo di essere fortunati».

    Miriam era senza parole, presa alla sprovvista dal verificarsi di un evento per lei inimmaginabile sino a pochi minuti prima. Venendo in ospedale aveva pensato a incidenti, infarti, ictus e simili, ma non aveva certo messo in conto che suo marito fosse in quell’ospedale per un virus raro.

    Con un filo di voce riuscì solo a dire: «Dottore, sta spiegandomi che mio marito potrebbe non farcela? Sta dicendo che uno stupido virus potrebbe, nel 2018, portarselo via?»

    Il dottor Robinson, capendo che Miriam poteva cadere in una crisi emotiva, la fissò con uno sguardo che non ammetteva di essere contraddetto e le disse: «Stia calma, signora. Sto dicendo che Frank ha contratto un virus a noi sconosciuto, ma ho anche detto che stiamo cercando la cura. La maggior parte di questi virus è stata sconfitta proprio come in questo caso, tentando di salvare persone colpite, nella massima emergenza. E poi sappiamo benissimo, sia io che lei, quanto sia forte e caparbio Frank. Sappiamo che non si arrenderà facilmente e neppure io sono uno che si arrende facilmente. Abbia fede! Intanto lei potrebbe esserci molto utile aiutandoci a capire come e dove può aver contratto questo virus. Probabilmente gli è successo negli ultimi quindici giorni. Sarebbe importantissimo capire dov’è stato, cosa ha fatto, cosa ha mangiato, chi ha incontrato».

    «Perché quindici giorni?»

    «Perché, per esperienza, su basi statistiche, questo è il tempo necessario al virus per installarsi nel corpo del suo ospite e manifestarsi in modo importante. Da quanto tempo Frank era a Cuba?»

    Miriam sgranò gli occhi e guardò esterrefatta il primario che, solo allora, se ne accorgeva, stava parlando di Frank come di una persona che conosceva bene. Ma ciò che la mandò completamente in confusione fu la parola Cuba.

    A lei risultava che suo marito fosse a Miami.

    Il dottor Robinson, anche se non le stava leggendo certo nel pensiero, capì che per quel giorno Mary aveva avuto la sua buona dose di notizie sconvolgenti e che nel suo cervello stavano vagando, in modo assai confuso, troppe domande senza risposte.

    Allora, con lo stesso sguardo con il quale prima le aveva imposto di star calma, il medico la congedò, dandole appuntamento, sempre nel suo studio, il mattino seguente, a mente più serena.

    3

    Miriam aprì la porta di casa.

    Tutto taceva; tutto sembrava irreale.

    Ogni gesto pareva rimbombarle, come un’eco, nella testa.

    Si accorse che se non avesse reagito in qualche modo, e subito, sarebbe stata colpita da una di quelle crisi di panico di cui tanto aveva sentito parlare, ma che sino a quel momento aveva ritenuto impossibile immaginare su di sé.

    Quel silenzio!

    Quel buio!

    Una morsa mortale le stava stritolando il cuore.

    Il dolore, inutile dirlo, era insopportabile.

    Frank rientrava, quasi sempre, prima di lei.

    Negli anni si era abituata ad associare il suo ritorno a casa a una musica soave di sottofondo; a una accogliente luce soffusa; a deliziosi profumi di spezie orientali, poiché lui, quando era di buon umore, adorava cucinare.

    Frank era un marito molto attento ed estremamente geloso dei loro momenti di intimità, anche se questa caratteristica avrebbe potuto sembrare in contrasto con la sua immagine pubblica di avvocato. Chi lo conosceva soltanto come professionista, infatti, non avrebbe certo mai immaginato che, sotto la scorza dell’avvocato duro e combattivo, si celasse un uomo così attento e romantico.

    D’altronde, il nomignolo di Frank lo squartatore che circolava nel suo studio (e non solo), se lo era guadagnato non certo in virtù di atteggiamenti teneri e pacati.

    Frank si occupava di aziende, acquisizioni, fusioni, scorpori, scalate, e di tutto ciò che vi era connesso. E di sicuro non si poteva essere né teneri né comprensivi, in certi ambiti. Quando un’azienda si rivolgeva a lui per un accordo, un incarico o altro, sapeva di essersi rivolta al migliore sulla piazza.

    Tuttavia, nonostante la sua fama, la qualità che tutti gli riconoscevano, senza ombra di dubbio, era una indiscutibile correttezza.

    Per Miriam, invece, Frank era l’uomo che, quasi tutte le sere, l’accoglieva a casa con un abbraccio, un bicchiere di vino e un sorriso. Che riusciva a far sparire immediatamente qualsiasi brutto pensiero lei avesse avuto sino ad un attimo prima. A tal punto che la stessa parola ‘casa’ perdeva di significato se Frank non c’era.

    Quella sera, il dolore che l’aveva accolta in casa nasceva proprio dal contrasto tra il ricordo di quel tutto e il nulla che la stava circondando, tanto da farle mancare il respiro.

    Per fortuna, in quel momento, il campanello squillò, evitandole di crollare.

    Si chiese chi fosse, a quell’ora.

    Il cuore ricominciò a battere all’impazzata, nel timore di altre brutte notizie.

    Le pareva di non essere più in grado di muovere un solo centimetro del suo corpo.

    Poi, un minuscolo barlume di coscienza la fece tornare alla realtà: se fossero state brutte notizie le sarebbero arrivate dal dottore che, di sicuro, non sarebbe venuto a casa sua per comunicargliele, visto che era in ospedale.

    Si avvicinò al citofono e quando dall’altra parte vide il volto preoccupato di Rosita, la sua governante, non seppe se ridere o piangere. E sebbene non sapesse perché Rosita fosse lì, ne fu contenta: almeno avrebbe potuto scambiare due parole con una persona che, ne era certa, le voleva bene.

    «Avvocato, la prego di scusarmi, ma l’ho cercata tutto il giorno, allo studio, senza successo. Ero molto preoccupata per lei. E anche per mio figlio».

    «Per suo figlio?»

    «Si, per mio figlio. Dopodomani c’è l’udienza per il suo processo, ricorda? Lei mi aveva promesso di seguirlo personalmente. E mi aveva detto che prima dell’udienza doveva assolutamente parlare con il mio Johnny e poi, con me».

    Di colpo, Miriam ritornò sulla terra.

    Si rese conto soltanto allora di quanto, in quelle ore, tutta la sua vita fosse stata stravolta, facendole dimenticare anche gli impegni più importanti.

    «Salga, Rosita».

    Rosita Mendez era una delle tante messicane, sole, che cercavano di portare avanti una famiglia a New York: abbandonate da mariti molto più avvezzi all’alcool che alle responsabilità. Faceva due lavori per mantenere sé stessa e i due figli.

    Miriam non aveva mai visto in Rosita un attimo di debolezza. Stanca, sì, spesso, ma sempre fiera e dignitosa.

    Per un secondo si paragonò a lei e si chiese se, al posto suo, sarebbe mai stata così forte.

    Che strano, in tanti anni di lavoro, durante i quali aveva incontrato decine di donne, messicane, portoghesi, africane, ma anche americane, spesso abbandonate dai mariti o, peggio ancora, maltrattate, picchiate e sfruttate dagli stessi, non le era mai capitato di farsi questa domanda.

    Forse, per la prima volta nella sua esistenza, si rendeva conto di cosa potesse voler dire trovarsi da sola ad affrontare la vita.

    Mentre andava lentamente verso la porta, mentre l’apriva, mentre faceva accomodare Rosita sul divano, era come se vedesse e sentisse due Miriam: una era calma, elegante, affascinante, secondo qualcuno, e sicura di sé, l’altra le camminava a fianco, in perfetta sincronia, ma fragile, confusa, vicina alla disperazione.

    «Le preparo un caffè, Rosita? Questa volta faccio io».

    Dalla cucina, senza che la governante la notasse, mentre il caffè, preparato con la moka all’italiana era quasi pronto e gorgogliava allegramente, Miriam si voltò e osservò nuovamente la donna sul divano: in fondo, era pur sempre quasi un’estranea la cui esistenza si era incrociata con la sua. E ora era lì, in quel momento disperato e triste, dove la bussola della vita pareva smarrita.

    Non vista, come il più astuto dei ladri, fu certa di cogliere proprio quel pensiero, nello sguardo perso nel vuoto di Rosita e per un attimo, brevissimo, ebbe la tentazione

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