Legàmi
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Anteprima del libro
Legàmi - Roberta Mezzabarba
PARTE PRIMA
E poi son solo. Resta
la dolce compagnia
di luminose bugie.
(Sandro Penna)
Uno
Dicembre 1999
L’aria della palestra era un misto di odori, profumi acri di epidermidi sudate e di fatica fisica spinta fino all’estremo.
Guglielmo stava sollevando un bilanciere lucente, le dita strette in una morsa di ferro, i bicipiti attraversati dai muscoli impegnati nello sforzo, la pelle leggermente brunita dal sudore… adorava quei pomeriggi che poteva passare in quell’ambiente, sfogando con lo sforzo fisico la parte peggiore di sé.
Osservava indisturbato corpi fasciati da aderenti tutine dai colori sgargianti.
Avido, perquisiva i corpi e le anime in controluce di quelle ragazze, seguiva i loro movimenti, le espressioni del volto, i capelli svolazzanti nell’aria, le innumerevoli schegge di vita che non avrebbe mai conosciuto.
Nella panca a fianco a lui aveva preso posto uno dei suoi compagni di università che incontrava spesso anche in palestra.
Claudio.
«Cosa fai? Sempre a sbavare dietro al gentil sesso, eh?»
Con quelle parole Claudio aveva agganciato lo sguardo di una flessuosa ragazza che riempiva perfettamente una calzamaglia verde acqua.
«Beh, certo, non posso darti torto. Benché io non creda a Dio, in certi momenti devo ammettere che deve esserci qualcosa di veramente buono e misericordioso per dare vita a creature così belle…» Claudio era un ragazzo molto sensibile al fascino femminile.
Mentre continuava a sollevare il bilanciere sopra la testa, Guglielmo guardava un gruppo di cinque ragazze che parlavano fra loro, gesticolando leggermente.
«Sai, da ragazzino amavo moltissimo rimanere nella stanza dove mia madre riceveva le sue amiche. Mi piaceva il modo in cui loro, dimenticandosi della mia presenza, parlavano liberamente degli uomini, senza pudori, senza veli, parlavano di come fosse facile prevederli e abbindolarli. Ero letteralmente affascinato da quelle conversazioni e ogni volta mi ripromettevo di non divenire, crescendo, un maschio come quelli dei loro discorsi. Mi sembrava doveroso non deludere le donne che avevo imparato a conoscere bene. Ma poi ho capito che a una donna un uomo piace anche per tutte le cose che non riesce a capire, anche per i punti di incomunicabilità, anche perché stiamo qui a guardarle come se fossero dolci nella vetrina di una pasticceria, con l’acquolina che ci solletica il palato».
«Tu Guglielmo, sei così sentimentale e filosofico che mi vorresti far credere che guardi queste sventole solo con occhio clinico, per arricchire il tuo sapere sull’universo femminile?»
Claudio si sforzava di mantenere un’espressione seria: per lui era difficile, se non impossibile, concepire un interesse diverso da quello sessuale per una donna.
Una fragorosa risata chiarì ancora una volta a Guglielmo l’opinione che aveva Claudio sull’argomento.
«Sei sempre il solito, tu daresti l’anima per fare il ginecologo, solo per… hai capito cosa intendo. A me delle donne piace tutto, anche la testa, i loro pensieri e mi piace soprattutto non deluderle, mi piace dare loro ciò che desiderano da me.»
Guglielmo era un giovane di buone speranze: alto, i capelli mori impercettibilmente mossi, la carnagione appena dorata, le gambe affusolate e lunghe sostenevano un fisico asciutto, ma non mingherlino. Aveva dita lunghe e armoniose che terminavano con unghie lisce e grandi come mandorle sbucciate.
Una volta in un mercatino una zingara gli aveva letto la mano ed era rimasta affascinata da questa sua caratteristica, confidandogli che unghie così grandi si sviluppavano in soggetti che avevano dovuto lottare con la vita e contro la morte.
Guglielmo non aveva dato molto peso alle chiacchiere di una donna abituata a inventare storie per vivere. Nella sua memoria non c’era traccia di nessuna lotta per la sopravvivenza. Quella zingara, però, lo aveva salutato con un’affermazione che lui ricordava ancora nitidamente: Nessuno ricorda certe sofferenze, ma esse scorrono silenziosamente nel sangue, altrimenti sareste tutti destinati alla pazzia o alla dannazione.
Due
Angelica era una donna mite.
Questo suo carattere traspariva anche dall’aspetto fisico: esile, quasi gracile nella figura, con le mani delicate, le unghie rosee e perfette come minuscoli petali di rosa, osservava il mondo con gli occhi cerulei e un animo limpido.
Spesso la sua età risultava indecifrabile, un segreto nascosto: per un momento somigliava a una giovane e indifesa cerbiatta che si affacciava per la prima volta alla vita con passo incerto, e un momento dopo appariva come l’alta colonna di un tempio antico e vissuto, imperiosa, stabile, con la memoria millenaria degli eventi ai quali aveva fatto da muta testimone.
Lei e suo marito Filiberto vivevano in una magnifica casa ricca di stucchi, di quadri dai colori cupi, di tende pesanti e drappeggiate, di soprammobili che avrebbero potuto raccontare da soli la storia di quasi tutti gli antenati.
La loro era un’esistenza tranquilla, quasi al di fuori dalla norma.
Angelica amava suo marito, e lui, seppure fosse poco propenso a lasciar trasparire i sentimenti, cercava di assecondarla in tutti i suoi capricci, in tutte le sue voglie.
Filiberto aveva dimostrato l’amore che lo legava a sua moglie in varie occasioni, ma quella che lei aveva apprezzato di più risaliva a venti anni prima.
Era una sera buia, con una luna spaventosamente grande, quando alla loro porta bussò una donna incinta dallo sguardo impaurito. Teneva in mano un fagotto cencioso, dal quale provenivano dei vagiti.
«Prendetevi cura di questo piccolo, sua madre… non può… l’ha abbandonato… è morta, e io non ho più forza per bussare a un’altra porta, fra poco anche io dovrò mettere al mondo il mio bambino… prendetevi cura voi di questo piccolo che non ha colpe se non quella di essere stato messo al mondo… qualcuno sicuramente ve ne sarà riconoscente. Il suo nome è Guglielmo.Vi chiedo solo una cosa, non raccontate mai a nessuno questo episodio… mai.»
Angelica non era mai riuscita a portare a termine una gravidanza: sembrava che il suo fisico si rifiutasse di sopportare il peso di una nuova vita. Quella strana visita di quella sera era stata per lei come un messaggio divino scritto a lettere di fuoco nel cielo.
Con l’arrivo del piccolo Guglielmo, Angelica aveva capito che era giunta l’ora di porre fine alla lunga serie di fallimentari tentativi di generare un bambino. Si sentiva sfibrata nel corpo e nella mente.
Sicuramente, aveva pensato lei, Guglielmo era stato un premio, un boccone dolce, un lenitivo per sopravvivere al dolore che la consapevolezza della sua mancata predisposizione a generare figli le causava.
Angelica prese dalle braccia di quella sconosciuta il piccolo senza pronunciare una parola, senza conoscere nulla di tutto quello che era accaduto prima, né quella notte. La sconosciuta si avviò con un’andatura affaticata dal peso della vita che custodiva, nella notte che quasi l’avvolgeva, furtivamente, con le sue mani guantate, senza fare alcun rumore. Prima di sparire, completamente inghiottita dalle tenebre fu colta da una violenta contrazione che la costrinse ad accasciarsi a terra. Con lo sguardo cercò la porta aperta della casa dalla quale traboccava una luce soffusa, che disegnava la figura della donna dalla lunga vestaglia chiara con il bambino, ancora avvolto dai panni che lo avevano visto nascere,stretto fra le braccia di quell’uomo dai folti e scuri baffi che le stava accanto con lo sguardo diffidente.
Angelica supplicò il marito di soccorrere la donna, accompagnandola all’ospedale. L’uomo la raccolse dalla strada e la condusse all’auto, per poi scaricarla in ospedale. Filiberto aveva avvertito qualcosa di strano in quella donna che si era presentata alla loro porta con quel piccolo, ma sua moglie lo aveva fissato con uno sguardo così supplichevole che non aveva potuto negarle la felicità di allevare un bambino.
Da quella notte non seppero più nulla della donna.
Ubbidendo al suo volere avevano raccontato a tutti dell’adozione del piccolo, avvenuta tramite l’interessamento di amici molto influenti.
Filiberto, alto ufficiale dell’esercito, schivo, ligio alle regole, con due baffi affilati, a separargli le labbra sottili dal naso appuntito, aveva vissuto con il figlio, fin dai primi anni, un rapporto fatto di silenzi.
Lui avrebbe voluto una recluta da addestrare, forse perché non conosceva altro modo di comunicare con i suoi simili, Guglielmo invece con il suo carattere al di fuori della norma, a volte anche un po’ ribelle, non poteva pensare di racchiudere la sua voglia di vivere in una uniforme che lo avrebbe obbligato a una serie infinita di Sissignore.
Non c’era conflitto.
Non c’erano mai stati scontri diretti, ma era chiaro che Guglielmo sentiva poco la presenza del padre. Con la sua avversione alla vita militare, a tutte le formalità che quell’ambiente pretendeva, avrebbe certamente disatteso le aspettative di suo padre, un uomo abituato a non essere contraddetto, mai.
Tre
Fervevano i preparativi per congedare il secondo millennio, in ogni angolo si sentiva parlare di feste, serate, cenoni, grandi mascherate, un Halloween di fine millennio, per scacciare la cattiva sorte e cominciare il Duemila con la convinzione di aver fatto tutto il possibile per scordare i guai del Ventesimo Secolo, iniziando una pagina pulita e un nuovo capitolo, se non con la certezza del miglioramento, almeno con il beneficio del dubbio.
Guglielmo partecipava attivamente all’organizzazione e intramezzava alle ore di frenetici preparativi, momenti di studio. Stava curando una ricerca sulle paure del popolo medioevale nell’Anno Mille. Strano argomento, aveva pensato, quando il professore di Storia gli aveva assegnato