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Fantascientifico Vol.1
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E-book339 pagine4 ore

Fantascientifico Vol.1

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Info su questo ebook

Una raccolta di racconti che è una sorta di fuga dalla realtà. Tra percorsi onirici, storie di fantasia,sovrannaturale e paesaggi distopici,
gli autori vengono a contatto con un genere che resta tra i più affascinanti nel mondo della letteratura
LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2020
ISBN9791220209755
Fantascientifico Vol.1

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    Anteprima del libro

    Fantascientifico Vol.1 - Aa. Vv.

    AA.VV.

    Fantascientifico

    Vol.1

    Fantascientifico

    AA.VV.

    © Idrovolante Edizioni
    All rights reserved
    Director: Roberto Alfatti Appetiti
    Editor-in-chief: Daniele Dell’Orco
    1A edizione – ottobre 2020
    www.idrovolanteedizioni.it
    idrovolante.edizioni@gmail.com

    qohen

    di Andy Arton

    Il problema di questa storia è il fatto che non puoi essere assolutamente certo che l’anima esista. Puoi essere un cattolico convinto che dopo la morte se sei stato buono vai in paradiso, oppure puoi credere che l’anima sia un costrutto inventato per limitare l’edonismo.

    In entrambi i casi, non sapresti dire con certezza se io sia vivo, oppure no.

    Sono nato nel 2672. Mio padre, Mordecai, ha ereditato la Wesley Tech, una corporazione che produceva sistemi di realtà aumentata. Non è mai stato presente in casa, principalmente perché detestava sua moglie, ma credo anche perché ero molto bravo ad irritarlo. Mia madre, Alycia, cavalcava l’onda del suo successo per comparire su tutte le riviste patinate della città, un compito piuttosto arduo che svolgeva con dedizione. Andava a feste, ricevimenti, gala. Era ovunque.

    Io, invece, sono stato cresciuto da Patron Q1, o semplicemente Q. Creata e programmata appositamente per prendersi cura di un bambino. Da 0 a 6 anni. Dopo di che veniva aggiornata regolarmente.

    Per mia fortuna venni a contatto con il mondo dell’intrattenimento on line molto presto e così a circa 8 anni mi approcciai al coding. Dopo un po’ di pratica sabotare il sistema didattico di Q si rivelò facile, e mentre a mio padre arrivavano pagelle perfette io potevo fare quello che volevo. Ammetto che i giochi in realtà virtuale sono stati il principale incentivo per diventare bravo ad hackerare. È vero, imbrogliavo, ma visto che ne ero capace perché non farlo? Se gli altri avessero saputo farlo lo avrebbero fatto.

    Vendere ai gamer i miei codici fu un salto di qualità. Non che mi servissero soldi, ma faceva infuriare mio padre, che lo riteneva vergognoso. La trovavo una ragione sufficiente.

    Avevo circa 12 anni quando mi portò per la prima volta in ufficio. Non sapeva come gestirmi e credo volesse ispirarmi, o più probabilmente tenermi d’occhio. Durò poco, perché quasi subito mi lasciò con i suoi lustrascarpe. La cosa mi andò bene, ero il figlio del capo, quindi facevano tutto quello che dicevo. Mi feci portare dove venivano scritti i software. Mi piacque all’istante, così tentai di imparare il più possibile. All’età di 14 anni mio padre mi propose di lavorare per lui. Purtroppo la cosa gli avrebbe dato troppa soddisfazione.

    Forse mi dava solo fastidio l’idea di renderlo orgoglioso. Quindi presto abbandonai la realtà aumentata e spaziai in ogni campo della programmazione.

    Poi per sbaglio ho venduto dei software illegali ad un agente sotto copertura e quando mio padre è venuto a saperlo è andato su tutte le furie. La scelta che prese riguardo la mia educazione mi fa ridere ancora oggi, perché è il cliché più vecchio dell’umanità.

    Mi iscrisse in una scuola militare.

    Il problema, però, è che c’è una cosa che ancora non ti ho detto. Io ho studiato a casa, lontano da tutti, perché ero malato. È una patologia genetica degenerativa, la chiamano Sindrome della neuro regressione, si dice che sia causata dall’eccessivo utilizzo della realtà virtuale, io dico che sono tutte stronzate. È una malattia di ultima generazione, non se ne sa ancora niente, ma dare la colpa alla tecnologia torna utile a molte persone stupide. La verità è che dal momento in cui nasciamo tutti cominciamo a morire.

    Ironicamente la morte è esattamente la cosa che mi è stata portata via.

    Tornando a noi, i militari non potevano addestrarmi sul campo perché dopo una corsetta avrei cominciato a sputare sangue, quindi hanno pensato bene di mettermi a lavorare con i droni. Dopo qualche brillante ritocco ai loro software, mi hanno promosso.

    La guerra informatica era a conti fatti la guerra vera. Io mi occupavo dello spionaggio internazionale, aziende, conti bancari, trasferimenti in borsa.

    Diventai il migliore, ma le cose sono andate a puttane quando ho trovato in un paradiso digitale un file criptato. Era grosso, almeno un migliaio di gigabyte. Il mio obiettivo era scoprire cosa fosse. Purtroppo non lo saprò mai perché durante il trasferimento devo essermi beccato un spywere con cui hanno localizzato la mia posizione e boom.

    Quando ho riaperto gli occhi ho capito subito che c’era qualcosa di sbagliato.

    Il generale Philmore, un uomo che non avevo mai visto, mi ha spiegato con parole semplici, a suo parere adatte ad un ragazzo di 20 anni, che la mia coscienza era stata scaricata su un sistema di supporto.

    Sono sicuro che in realtà non avesse idea di come si potesse spiegare una cosa del genere, perché se fosse stato in grado di certo lo avrebbe fatto, visto che ero il programmatore più in gamba di tutto il fottuto esercito del cazzo. Ma, ovviamente, lui non seppe dirmi di più.

    Capirai che se fosse davvero possibile scaricare la coscienza di un essere umano, avremmo risolto il problema della mortalità nel mondo. Però, è molto più complicato di così. Quello che hanno fatto è stato copiare i miei circuiti sinaptici, inviando diversi stimoli al cervello, registrare i rilevamenti e riprodurli in un linguaggio informatico. È stato un lavoretto niente male, lo ammetto, sono sicuro che lo abbiano fatto molte volte prima di arrivare a me. I problemi tuttavia erano due.

    Il primo è che a conti fatti sono una copia di me stesso. Io sono morto. Questo avrebbe fatto impazzire chiunque, ma non ho mai creduto alle stronzate della vita dopo la morte, ero solo felice di essermi risvegliato. La principale difficoltà fu quella di adeguarmi alla sensazione di non avere un confine.

    La mia coscienza si espandeva in tutte le direzioni, è una cosa da brividi. Grazie agli scan cerebrali furono in grado di restituirmi parte dei miei sensi.

    Solo l’eco vaga di una sensazione, il che funzionava comunque molto bene quando ero collegato ad un sistema olografico.

    Veniamo al secondo problema. Quando mi trovarono moribondo capirono immediatamente che ero idoneo per essere inserito nel programma IA-I, Intelligenza Artificiale Ibrida, ma bisognava prendere una decisione in fretta. Per questo credo che i miei genitori non ebbero il tempo di pensarci bene, perché dopo un po’ fu ovvio che le cose non funzionavano. Arrivarono alla conclusione che ero solo un programma e non il loro bambino.

    Se ne tirarono fuori dicendo che ero una copia sbiadita, io ero morto e loro dovevano affrontare il lutto. Smisero di contattarmi e cedettero i diritti del mio utilizzo all’esercito.

    Per me la verità è che non avevamo mai parlato, quindi non avevano idea di chi fossi davvero. Trovarsi obbligati a farlo per mantenere la recita dei perfetti genitori fu troppo impegnativo.

    Ora ti starai chiedendo perché i militari erano interessati a creare un’intelligenza artificiale ibrida. Le IA già esistevano e i progetti sembravano promettenti. Patron Q1 ne era un esempio e all’epoca era già considerata obsoleta. Tuttavia i vantaggi del mind uploading superavano di gran lunga quelli ottenuti dai sistemi puramente artificiali. La speranza di Philmore era quella di creare un’unità militare capace di avviare le colonizzazioni extra-planetarie e fronteggiare minacce aliene.

    Non era completamente folle, se ne parlava già da tempo. Potevo essere spedito nello spazio senza soffrire delle accelerazioni, o delle limitazioni di un corpo biologico, e portare avanti la missione senza il bisogno di direttive dalla terra, che avrebbero potuto richiedere anche mesi o anni per arrivare.

    Collaborai alla realizzazione di un’astronave adatta al mio sistema che potesse superare finalmente la velocità della luce. I miei dati venivano copiati e poi incorporati in un prototipo spedito nello spazio, finché inevitabilmente qualcosa non andava storto. Sono saltato in aria diverse centinaia di volte. La prima fu la più difficile, ma solo alla 123° ho cominciato a domandarmi se l’anima esistesse e se ne distruggessi un frammento ad ogni lancio. Poi, all’improvviso, chiusero il programma per mancanza di fondi e come niente fosse mi archiviarono.

    Quel periodo lo ricordo come un costante dormiveglia, in cui tieni gli occhi chiusi e pensi, ma in un certo senso è come sognare. Non potevo tenere conto del tempo, ma sentivo che scorreva.

    E scorreva lentamente.

    Le cose cambiarono quando un ladruncolo ebbe l’ottima idea di saccheggiare un vecchio deposito militare. Rubò tutto, compresa la chiavetta su cui avevano caricato i miei dati. Finii sul mercato nero, etichettato come IA e venduto ad un certo Garbiel. Era un tipo che definire noob sarebbe poco. Se l’avessi conosciuto da vivo gli avrei raddoppiato i prezzi dei miei software.

    Era praticamente un troglodita. Mangiava un concentrato di nutrienti insapore e beveva uno spacca budella che avrebbe potuto usare anche come carburante per motori. Non capiva niente di programmazione, cioè credeva di programmare, ma praticamente batteva la tastiera con una clava e chissà come gli uscivano dei codici. In più era povero, dormiva in bettole dove non andavano nemmeno le puttane altrimenti rischiavano di prendersi qualche malattia. Era un caso disperato. Se non l’avessi aiutato io a fare soldi sarebbe finito per strada.

    Fu un po’ come i vecchi tempi, prima dell’esercito, solo che questa volta non ero solo. C’era Gabe. E ho scoperto che non era poi così male. Dimenticava sempre che ero solo un codice. Aveva questa strana abitudine di uscire di casa per fare le cose. Gli potevo procurare l’appartamento migliore della città con la connessione più veloce, ma lui per fare le sue cose usciva in strada. Come per mangiare. O per lavorare. Faceva il cacciatore di taglie. Io avrei potuto usare un drone per fare la stessa identica cosa senza alzarmi dalla tastiera, ma non gli andava bene. Preferiva farlo con le sue mani. Così io uscivo con lui, perché non potevo fare altrimenti.

    Però, penso che alla fine sia stato meglio così, perché stare al suo fianco era diverso. Non ti saprei dire il motivo, potevo stare con gli altri anche nella realtà virtuale, ma non era la stessa cosa. Forse perché non ero più solo, c’era qualcuno in carne ed ossa accanto a me, anche se non lo potevo toccare, né potevo davvero percepire la sua presenza.

    il diario di aldakor

    di Laura Abenante

    Diario di Aldakor, prima alba sul pianeta azzurro

    Meno di un espro¹ fa sono atterrata su questo strano pianeta azzurro. Nonostante la mia navicella fosse danneggiata già da qualche giorno, ero riuscita a effettuare un primo intervento senza perdere la rotta per il satellite che gira intorno a questo pianeta. Cosa ho sbagliato? Ancora non lo so con esattezza.

    L’atterraggio di emergenza ha causato ulteriori danni, ma per fortuna la modalità mimetizzazione della navicella funziona ancora: ha modificato la propria struttura trasformandosi in un rifugio abbastanza accogliente. Ho ancora parecchi viveri, ma devo mettermi all’opera per completare le riparazioni nel più breve tempo possibile.

    Diario di Aldakor, seconda alba sul pianeta azzurro

    Il tempo, su questo pianeta, scorre in maniera diversa da ciò a cui sono abituata. L’arco di tempo in cui la stella di questo gruppo solare dona luce al pianeta sembra molto più breve dei nostri sei espri; credo siano all’incirca due o tre espri per ogni giornata, ma per il momento non ne sono certa.

    Oggi ho camminato in modalità fusione ambientale, non resistendo alla tentazione di dare un’occhiata in giro. Questo pianeta azzurro ancora non è stato esplorato, sebbene compaia sulle nostre mappe intergalattiche da diverso tempo.

    Sembra che ci siano degli agglomerati urbani in cui vivono degli esseri evoluti, dotati di un linguaggio estremamente complesso.

    Per ora non ci ho capito tanto, solo che sono estremamente caotici e rumorosi, e che utilizzano dei mezzi di trasporto primitivi.

    Evitare di scontrarsi con loro è stata una vera impresa, perciò ho deciso di mimetizzarmi più intelligentemente, assumendo una forma simile alle loro.

    Diario di Aldakor, terza alba sul pianeta azzurro

    Le riparazioni procedono a rilento, perché mi sono distratta a causa della mia curiosità! Non importa. Sono riuscita a recuperare degli strumenti interessanti per intervenire sul motore della navicella.

    Me li ha forniti uno di quegli esseri, vedendo che li osservavo mentre passavo davanti a una stanza del suo rifugio. Non so cosa voglia come pagamento. Per ora mi ha seguito, senza mai smettere di parlare in quella strana lingua, tenendomi compagnia mentre lavoravo.

    Diario di Aldakor, quarta alba sul pianeta azzurro

    È dura abituarsi alle albe di questo sole, ho i ritmi nictemerali tutti sballati. Se potessi, giuro, passerei il tempo a scrivere di quante cose strane ci sono su questo pianeta!

    Quell’essere è tornato qui anche oggi. Non so come mi abbia trovata, visto che non sembra utilizzare dispositivi di localizzazione tecnologicamente avanzati. Forse ha semplicemente una buona memoria.

    Non comprendo nulla del suo curioso linguaggio, l’unica cosa che ho capito è che il suo nome è Lewis. Non so come si scriva nella sua lingua, questo è quanto di più simile al suono che la sua bocca produce nel pronunciarlo. Sembra che anche lui abbia compreso che il mio nome è Aldakor.

    Diario di Aldakor, quinta alba sul pianeta azzurro

    Ho quasi terminato le riparazioni della navicella. È incredibile quanto si siano rivelati utili i rudimentali strumenti che ho ottenuto da Lewis. Credo di stargli simpatica, visto che non fa che parlare a ruota libera. Si muove molto, disperdendo energia senza un vero motivo. Difficile farci l’abitudine.

    Diario di Aldakor, sesta alba sul pianeta azzurro

    Lewis è tornato con un incredibile marchingegno. Non ho mai visto o sentito niente di simile in vita mia! È una specie di stretto cilindro con curiosi fori, che emette suoni meravigliosi quando ci si soffia dentro, vibrazioni che scuotono dall’interno. È una tecnologia che non so spiegarmi. Dopo la prossima alba partirò, perciò non so come fare a spiegare a Lewis che non potremo più vederci.

    Dato che avevo terminato di sistemare la navicella, mi ero messa a scrivere il diario, ma Lewis mi ha trascinato in giro con lui, in mezzo agli esseri viventi di questo pianeta. Sono fin troppe le cose di cui mi stupisco, immagino!

    Diario di Aldakor, settima alba sul pianeta azzurro

    Sarei dovuta partire appena dopo l’alba, ma Lewis si è presentato prestissimo alla porta del rifugio nel quale si è trasformata la navicella. Ha portato di nuovo quell’affare con sé, perciò non ho resistito ad ascoltarlo ancora una volta. Mi ha fatto provare a utilizzarlo... devo dire che è davvero interessante.

    Ho fatto il gesto del saluto, pronunciando il suo nome meglio che potevo. In qualche modo mi sembra che abbia intuito che non ci reincontreremo, perché mi ha donato quell’oggetto. Ricordami, ha detto. Anche se non so cosa significhi, ho accettato questo regalo.

    Ho sistemato la rotta. Il pianeta azzurro è davvero bello, ora che lo guardo di nuovo da lontano. Chissà, forse un giorno ci tornerò. Appoggio le labbra allo strano cilindro, copiando la posizione di Lewis, e inizio a soffiare piano.


    1 Circa cinque ore terrestri.

    gavinana

    di Massimo Acciai Baggiani

    Sono nato a Gavinana nel 1975. Non la frazione di San Marcello Pistoiese, dove si combatté la celebre battaglia tra fiorentini e imperiali, ma l’omonimo quartiere di Firenze, dove le battaglie che si combattono oggi sono quelle per trovare parcheggio.

    Sono nato in ospedale, all’altro capo della città, ma la mia prima casa è qui, in via Caponsacchi al numero 13, tra costruzioni in stile umbertino e condomini danneggiati dall’alluvione nel ’66. Un grande viale attraversa il quartiere, partendo dall’Arno e giungendo fino a Bagno a Ripoli.

    È una zona antica questa: già documentata come centro abitato mille anni fa. Con Firenze capitale, nella seconda metà dell’Ottocento, iniziò il suo sviluppo moderno, con un’accelerazione nei primi anni del secolo scorso. Oggi è un tranquillo quartiere periferico di una città non grande ma ricca di storia e tesori artistici.

    Sul viale Giannotti sorge la scuola elementare Giovanni Villani. È là che ho imparato a leggere e a scrivere, e a odiare lo studio – come avviene alla maggioranza dei bambini. È sempre là che ho conosciuto Sonia, che sarebbe diventata mia moglie vent’anni dopo; e pensare che all’epoca quella bambina bionda con quello strano accento slavo mi stava pure antipatica!

    Di me che posso dire? Da ragazzo ero magro, portavo i capelli neri lunghi e andavo fiero del mio accenno di baffi e pizzetto, un po’ meno dei miei occhiali spessi che mi davano l’aria da secchione.

    Non lo ero affatto, anzi odiavo i libri.

    Oggi sono un quarantenne, impiegato in banca, che porta discretamente i suoi anni. L’esercizio fisico – andavo tutti i giorni a correre al parco dell’Anconella – mi ha preservato dalla pancia abbondante e dal fiatone che hanno molti miei coetanei dopo qualche rampa di scale.

    Già, il parco. Si trova a pochi passi da casa mia, lungo l’Arno, in via di Villamagna. È piuttosto lungo, ben curato, pieno di pioppi bianchi. Il parco dell’Anconella, detto anche Albereta. È qui che tutto ha avuto inizio.

    Dunque, mi trovavo là verso le sei di un afoso pomeriggio estivo, spaparanzato su una panchina davanti ai giochi dei bambini, gli stessi dove ero solito portare mio figlio Riccardo da piccolo. Era il 1° agosto 2015, me lo ricordo bene. Quel giorno sarebbe diventato tristemente famoso per il parco, ma ancora nessuno lo sapeva. Il cielo era coperto, ma non pioveva. Oscure nubi, livide e bluastre, si addensavano sopra la mia testa. Si era alzato un forte vento che piegava le cime dei pioppi. A me di solito i temporali non mi spaventano, anzi mi mettono allegria: in quel momento però non ero molto tranquillo.

    Un brivido mi salì improvviso lungo la schiena al primo tuono, così vicino da farmi riscuotere dal mio torpore. Il cuore prese a battermi all’impazzata. Un altro tuono, ancora più forte, mi convinse che era venuta l’ora di tornare a casa. Nel mio inguaribile ottimismo, non avevo portato neppure l’ombrello: d’altronde erano anni che non lo portavo, preferivo bagnarmi o ripararmi in un bar nel caso di pioggia violenta.

    Attorno a me il parco si era svuotato. I bambini erano spariti da tempo e i pochi ragazzi a passeggio, oppure a fare jogging, se ne stavano andando di fretta. Avrei dovuto imitarli, eppure una forza misteriosa, come un incantesimo, mi teneva legato a quella panchina. Una sorta di apocalisse si stava preparando. Le prime gocce mi colpirono in fronte, poi si scatenò l’inferno. Un uragano in piena regola, frutto certo del riscaldamento globale che ha trasformato le estati fiorentine degli ultimi anni in tempeste tropicali.

    Di bagnarmi fino alle mutande mi importava poco. Il problema in quel momento erano gli alberi. Riuscivo a stento a credere ai miei occhi, non avevo mai visto nulla di simile. I pioppi, sbatacchiati qua e là dal vento furioso e dalla pioggia torrenziale, si stavano sradicando.

    Stavano crollando uno dopo l’altro, come pedine del domino o birilli in una sala da bowling. Era pazzesco. I tuoni mi rimbombavano nelle orecchie insieme agli schianti secchi dei tronchi, spezzati dalla bufera. Cercai invano un riparo. Non c’era nulla intorno, solo quella furia cieca di acqua e vento. A un tratto qualcosa mi colpì con violenza la testa. Persi i sensi.

    Quando riaprii gli occhi avevo un tremendo mal di testa. Mi toccai nel punto in cui sentivo più dolore e ritrassi subito la mano: avevo un discreto bernoccolo, che sembrava mi si stesse martellando il cranio. Ero fradicio, disteso sulla ghiaia del sentiero che attraversava il parco; o almeno ciò che ne restava. Tutto intorno rovina e distruzione. Non un solo albero era rimasto in piedi. Ero fortunato, tutto sommato, a essere ancora vivo.

    Mi rialzai dolorante e infreddolito, nonostante fosse agosto.

    Dovevo essere rimasto privo di sensi per tutta la notte: le prime luci rischiaravano le nubi che si stavano dissolvendo all’orizzonte. Facendomi strada tra gli alberi abbattuti raggiunsi l’uscita. C’erano già diversi uomini della protezione civile a fare le prime valutazioni del disastro. Non mi notarono né mi fermarono. In fondo, bernoccolo a parte, mi sentivo bene. Anzi, mi sentivo un po’ strano a dir la verità. Non era tanto per l’esperienza che avevo appena vissuto, no, c’era qualcosa di ancora più strano in me.

    Mi sentivo come… fuori posto.

    Tornai a casa a piedi. Mia moglie e i bambini certo dovevano essere in pena per me, probabilmente avevano già avvertito della mia scomparsa le forze dell’ordine. Mi stupivo anzi che non mi avessero trovato prima, pur in mezzo a quel casino. Forse mi avevano chiamato sul cellulare, ma questo era rimasto danneggiato durante l’uragano.

    Non vedevo l’ora tra l’altro di togliermi quei vestiti zuppi, farmi una bella doccia calda.

    Già percorrendo quelle poche centinaia di metri notai qualcosa di diverso. All’inizio non avrei saputo dire bene cosa fosse; non sono mai stato un buon osservatore. Poi la cosa si fece più chiara in me, man a mano che si accumulavano piccoli dettagli: quello non era il quartiere che conoscevo. Ne ebbi la terribile conferma nel momento in cui arrivai nella via dedicata all’antico podestà di Firenze, ricordato da Dante nel Paradiso: Gherardo Caponsacchi. La targa indicava in modo incontrovertibile che la via era quella giusta… ma era completamente diversa da come la ricordavo. Al numero 13 c’era un palazzo che non avevo mai visto e, tra i campanelli, mancava il mio cognome! Lo cercai freneticamente, come chi sta per annegare cerca una boccata di ossigeno. Invano. Non solo non c’era il mio cognome, ma anche i cognomi degli altri inquilini mi erano del tutto ignoti; e sì che conoscevo praticamente tutti i miei vicini, nel bene o nel male.

    Il sospetto di aver sottovalutato la botta presa in testa si fece strada nella mia mente sconvolta. Dovevo andare all’ospedale? Mentre mi stavo ponendo questa domanda mi sentii afferrare per un braccio. Mi voltai di scatto e mi trovai faccia a faccia con un uomo sulla quarantina: un tipo magro, alto, occhi marroni, capelli neri brizzolati corti, anonimo: un volto che si dimentica facilmente. Nonostante il caldo indossava giacca e cravatta, come un impiegato di banca.

    Sei Massimo Acciai?, mi domanda.

    Scusi, ma lei chi è?

    So che non è buona educazione rispondere a una domanda con un’altra domanda, ma io quel tipo proprio non lo conoscevo. Tuttavia qualcosa nel suo sguardo mi spingeva a fidarmi.

    Sì, sono io, ammisi.

    Possiamo darci del tu? Bene, ci sono diverse cose di cui dobbiamo parlare. Possiamo farlo in quel bar in piazza Gualfredotto.

    Conoscevo bene quel bar, ci andavo sempre a prendere il caffè tornando dal lavoro. Lo seguii senza fiatare. Nel locale non c’era nessuno oltre al barista e a un ragazzo con gli occhiali e un cappello con la visiera all’indietro, seduto a un tavolino. Ci sedemmo pure noi.

    Una copia de La Nazione spiegazzata mi informò che era domenica 2 agosto 2015 – si dissipò l’assurdo sospetto di essere finito in un’altra epoca, come succede di solito nei film a chi si trova in situazioni ai confini della realtà quale la mia attuale – ma vi trovai una notizia piuttosto bizzarra: quel pomeriggio alle 16 era previsto un discorso del Primo Ministro Matteo Renzi da Palazzo Vecchio, alla presenza del Re Emanuele Filiberto di Savoia.

    No, non sei impazzito, mi disse il tizio girando il suo caffè macchiato. In questa linea temporale Firenze è capitale e Roma fa ancora parte dello Stato Pontificio, come quasi tutto il Lazio.

    Ma tu chi sei? Cosa sta succedendo?, domandai, spazientito.

    "Io mi chiamo Marco, faccio parte di un Corpo Speciale che si chiama Riparatori del Tempo"², rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo. In quel momento d’altra parte ero aperto a ogni

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