Odissea
Di Homer
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Homer
Although recognized as one of the greatest ancient Greek poets, the life and figure of Homer remains shrouded in mystery. Credited with the authorship of the epic poems Iliad and Odyssey, Homer, if he existed, is believed to have lived during the ninth century BC, and has been identified variously as a Babylonian, an Ithacan, or an Ionian. Regardless of his citizenship, Homer’s poems and speeches played a key role in shaping Greek culture, and Homeric studies remains one of the oldest continuous areas of scholarship, reaching from antiquity through to modern times.
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Anteprima del libro
Odissea - Homer
Odissea
Niccolò Delvinotti
Odýsseia
The characters and use of language in the work do not express the views of the publisher. The work is published as a historical document that describes its contemporary human perception.
Copyright © 0, 2020 Omero and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788726569223
1. e-book edition, 2020
Format: EPUB 3.0
All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
SAGA Egmont www.saga-books.com – a part of Egmont, www.egmont.com
Libro I
Adunanza dei Numi Esortazione di Minerva a Telèmaco
Dimmi l’accorto eroe, Musa, che tanto
Errò, poiché le sacre a terra sparse
Ilìache mura, che di molte genti
Visitò le città, l’indol conobbe;
Che sul pelago ancor patì nell’alma
Immensi affanni, onde raddurre in salvo,
Sé medesmo esponendo, i suoi compagni.
Ma i compagni bramò raddurre invano,
Ché di lor nequitose opre perîro.
Stolti! che i sacri al Sol Iperione
Buoi divorâro, ed ei del redir loro
Il dì rapiva. O Dea, prole di Giove,
Parte a noi pure di siffatti eventi,
Donde ti è in grado più, ridir ti piaccia.
Già i guerrier tutti, che sfuggîr la fiera
Strage, ne’ loro alberghi rientrati,
Dall’armi e ’l mar posti erano in sicuro.
Un solo del ritorno e di sua donna
Bramoso, rattenéasi in cave grotte
Calipso, orrevol Ninfa, desiando
Pur ch’ei l’impalmi. Alfin, volvendo gli anni,
Allor che il tempo dagli Dèi prefisso
Pel suo ritorno in Ìtaca giungea,
Là ’ve l’eroe, da’ suoi fidi giovato,
Cansar già non dovea nuovi conflitti,
Tutti gli Eterni di pietà fûr tócchi,
Salvo Nettun che acceso in foco d’ira,
Il divo Ulisse perseguì pur sempre,
Finché ei presse del piè le patrie sponde.
Ma lunge ito era, appo gli Etìopi, il Nume,
Di remote contrade abitatori,
Gli Etìopi che del mondo ai confin posti,
Divìdonsi in due genti: è volta l’una
’Ve cade, l’altra ove risurge il Sole.
Di pingui tori e d’agni a un’ecatombe
A desco assiso, ivi gioìa Nettuno.
Ma gli altri Eterni dell’Olìmpio Giove
Nella reggia raccolti erano. Intanto
Membrò il padre degli uomini e de’ Numi,
Che dall’Agamennònio inclito Oreste
Morto fu il bello Egisto; e a dir si prese:
«Accagiona il mortal sempre gli Eterni!
Originar da noi tutte sventure
Dice, mentr’egli del destino in onta,
Colpa di sue follie, soffre aspre doglie.
Or, Egisto così del grande Atride,
Malgrado al fato, disposò la donna
Ed uccise l’eroe reverso d’Ìlio,
Benché conscio di sua terribil morte
Predéttagli da noi che gl’inviammo
L’Argicìda Mercurio ad assennarlo:
"Non immolar l’Atride e non ambire
Di sua sposa la man, ché a vendicarlo
Oreste surgerà nell’età prima,
Come il punga desìo del suo retaggio."
Tal Mercurio gli aperse ottimo avviso,
Né ’l cor gli persuase. Or, di sue colpe
Accumulate e’ pagò un tratto il fio.»
E Minerva: «O Satùrnio, o padre mio,
Re supremo dei Re, meritamente
Giacque colui trafitto; e così vada
Qual osa di sì atroci atti bruttarsi.
Ma di cordoglio pel valente Ulisse
Il core mi si strugge. Ahi! lasso, ei lunge
Da’ suoi, gran tempo, in isola remota
Che siede in mezzo al mar, pate aspre doglie;
Selvosa isola ov’abita una Diva
Figlia d’Atlante, cui sta a cuore il Tutto,
Cui son noti del pelago gli abissi
E che regge le altissime colonne,
Su cui la Terra e ’l Ciel vasto si folce.
La costui figlia misero e gemente
Il si rattiene, e con sorrise e dolci
Parolette ingannevoli s’adopra
Mòlcerlo, acciò ponga Ìtaca in obblìo.
Ma Ulisse brama pur scorgere il fumo
Sbalzar dalla natìa terra e morire.
Né ’l cuor, Olìmpio re, ti si commuove?
Presso l’Achèo navil, ne’ campi d’Ìlio,
Grate d’Ulisse non ti riuscîro
L’ostie votive? Ah! contra eroe sì pio,
Perché sei tanto corrucciato, o Giove?»
«Qual detto ti sfuggì, figlia, dal labbro?
– L’adunator de’ nembi le rispose –.
Come porrò in obblìo l’inclito Ulisse,
Che tutti in senno soverchiò i mortali,
E gl’immortali abitator del Cielo
Sempre onorò di sagrifici opìmi?
Ma Nettun freme d’implacabil ira
Contra l’eroe, che l’occhio unico estinse
Al divo Polifemo, il più gagliardo
D’infra i Ciclopi tutti. Al Dio la Ninfa
Toósa il partorì, figlia di Forco,
Re dello steril mar, ché lei Nettuno
Comprimea ne’ segreti antri marini.
Da indi in qua, non ei percosse a morte
Il divo Ulisse, ma dal patrio lido
Errar lungi lo sforza. Or via, noi tutti
Consultiamo del modo ond’ei ritorni.
L’ira Nettuno deporrà, ché a fronte
Star non potrà di tutti i Numi ei solo.»
«Padre mio, Re dei Re – Palla soggiunse –,
Se d’Ulisse il ritorno a’ Numi è caro,
Mercurio messagger per noi d’Ogìge
All’isola or s’invii, perché alla bella
Ninfa il voler de’ Sempiterni intìmi,
Che rieda Ulisse alla natìa contrada.
A vie più il figlio avvalorargli, io stessa
In Ìtaca discendo, e forza in cuore
Gli spirerò ed ardir, sì che i chiomati
Argivi convocando a parlamento,
Interdica l’entrata a’ Proci tutti
Nel suo palagio, ove per loro il sangue
De’ greggi scorre e de’ sgozzati armenti
Di negri tauri dal flessibil piede.
Appresso, a Sparta il manderò ed a Pilo,
Acciò che del redir del caro padre
Forse vèngagli fatto udir novella,
E gran rinomo appo gli umani acquisti.»
Detto, i vaghi talar d’auro, immortali
Sotto le piante adatta. Ali son queste
Con che l’immensa terra e ’l mar trascorre,
Ratta volando col soffiar del vento.
La lunga indi pesante e poderosa
Lancia acuta impugnò, che le falangi
Rovescia degli eroi, sempre che a questa
Figlia d’un forte Iddio vengano in ira.
Da’ vertici d’Olimpo impetuosa
In Ìtaca discese; all’atrio innanzi
Del palagio d’Ulisse, in sulla soglia
Del cortil si piantò; le forme assunte
Di Mente, lo stranier duce de’ Tafi,
L’asta in mano tenea. Colà rinvenne
Gli oltracotati Proci; anzi alle porte
A gettar dadi si prendean diletto,
De’ buoi seggendo sui nudati velli,
Che e’ medesmi sgozzâr; gli araldi e’ lesti
Valletti in questa, a’ loro uffici intenti,
Chi di Bacco spumante e di fresca onda
Ricolma l’urne, chi di perforate
Spugne le mense asterge e pónle innanzi,
E chi comparte le trinciate carni.
Bello come un bel Dio, di tutti il primo
Avvisolla Telèmaco: mentr’egli
Sedea tra i Proci e ’l cor geméagli in petto,
Sorse in sua vision lo strenuo padre,
Qual, s’ei fatto da un canto impeto, in fuga
Tutti in sua reggia travolgesse i prenci,
E sì l’onor ne racquistasse e ’l regno.
Questo pensando, in mezzo a’ Proci scorse
Telèmaco la Dea. S’avviò diritto
Al portico, non senza ira, che tanto
Lasciato fosse l’ospite alla porta.
Le si accostando, présele la destra,
Ricevette la lancia e sì le disse:
«Oh! salve, ospite nostro: appo noi liete
Accoglienze t’avrai; poscia, di cibo
Confortato, sporrai tutto che brami.»
Ito innanzi, il seguìa Pàllade. Entrati
Nell’aula, l’asta ad un’alta colonna
Telèmaco appoggiò, là ’ve altre molte
Stavan del prode Ulisse in fila poste,
Entro nitida astiera; indi Minerva
A posarsi guidò sopra un bel seggio,
Che d’un trapunto vel coprì: sotteso
Stava ai piè della Diva uno sgabello.
Scanno elegante a sé, presso a lei pose,
In disparte de’ Proci, onde al frastuono
Di que’ protervi, ove tra lor si stesse,
Non fastidisse l’ospite la mensa;
E desiava ancor del padre assente
Interrogarlo. Ma già presta ancella
Da un vaso d’oro, nel bacil d’argento
L’acqua alle man versava, indi a lor stese
Un liscio desco. Candido v’impose
La veneranda dispensiera il pane
Con varie e pronte dapi, e quelle ancora
Che tenea in serbo aggiùnsevi. Lo scalco
Carni di tutte sorti in sui taglieri
Recava ed aurei nappi, in che spumante
Bacco l’intento banditor mescea.
Baldi i Proci v’entrâr, sui seggi e’ troni
Per ordine adagiârsi. Acqua gli araldi
Diêro alle mani, e di Cèrere l’almo
Don ne’ canestri accumulâr le ancelle.
Coronâro di vin l’urne i donzelli,
E in colme tazze ministrârlo in giro.
Steser la man sull’imbandita mensa
I Proci, e poi che d’esca e di bevande
Estinsero il desìo, non altro in mente
Volgean che canti e danze, adornamenti
D’ogni convito. Pose allor l’araldo
Superba tra le man cétera a Fèmio,
Che per forza tra lor scioglieva il canto.
Tosto le corde ei ricercò e preluse
A dolce melodia. Piegato il capo
Vèr la diva il garzon, ch’altri non l’oda,
Queste le bisbigliò note all’orecchio:
«Conciteratti a sdegno, ospite mio,
Ciò che or dirò! Costoro agevolmente
Prendono in cura sol cétera e canto,
Ché impuni a divorar fànsi il retaggio
Di lui, le cui bianche ossa in sulla terra
Putrefànsi alla pioggia, o l’onda in fondo
Volve del mar. Se in Ìtaca reverso,
Vedèsserlo costoro, oh! come tutti
Ben più vorrìeno il piè veloce al corso,
Che d’oro ir carchi e di superbe vesti!
Ma di morte crudel certo ei perìo;
Né speme fia più in me, se ancor qualcuno
Prometterammi il suo redir sicuro,
Ché del ritorno il dì tòlsergli i Numi.
Or via, ciò dimmi e dìllomi sincero:
Chi? Di qual gente e qual città? Quai fûro
I maggior tuoi? Su qual nave e con quali
Nocchieri? e per qual modo or qua se’ giunto?
Certo che a piedi in Ìtaca non viensi.
Di’ quel ch’io chiedo a Te, perché il ben sappia;
Rispondi il vér. Qua per la prima volta
T’adducesti o paterno ospite sei?
Schiudea la reggia agli ospiti, e benigno
Vèr gli umani era sempre il padre mio!»
«Tutto chiarirti or vo’ – Palla rispose –,
A parte a parte. Io Mente esser mi vanto,
Figlio del prode Anchìalo; ai Tafi impero,
Rèmigi esperti. Il bruno mar solcando
Verso una gente di favella estrana,
Qua con la nave ed i compagni or giunsi.
A Tèmesa me n’ vo recando quivi
Ferro brunito a permutar con rame.
Dalla città rimota assai, nel porto
Di Retro, sotto il Nèo selvoso, a proda
Sta la mia nave. Da gran tempo i nostri
Padri l’un l’altro si accoglieano insieme
Ospitalmente; e tu il saprai se il vecchio
Eroe Laerte a interrogar ti adduci.
È fama che a Città non più se n’ viene,
Ma che oppresso di guai, viva ne’ campi
Con attempata fante, che il conforta
Di cibo e di bevande, allor ch’ei riede
Dal fertile vigneto, ove le membra
Affaticate a gran stento si tragge.
Qua venni, perocché tra il popol suo
Udìa che il genitor fece ritorno,
Da cui lontano ancor tèngonlo i Numi.
Ma non isparve già, no, dalla Terra
L’inclito Ulisse. È vivo; e sul mar vasto
È rattenuto in isola remota.
Gente crudel, gente selvaggia e fiera
A forza il si rattien forse captivo.
Or tu il presagio che nel petto i Numi
Spìranmi, ascolta; né fallace il credo,
Benché né vate o dotto àugure io sia.
No, gran tempo esular non dovrà Ulisse,
Fosse ei di ceppi avvinto: acuto ingegno,
Troverà il modo del redir. Ma schietto
Dimmi; se’ tu figlio di Ulisse? Certo
Nel capo e nel fulgor de’ tuoi begli occhi
L’assembri al tutto. Convenimmo spesso
Con lui, come or con Te, pria che con gli altri
Prodi figli di Grecia ei navigasse
Alla volta di Troia. Or sin d’allora
Ned egli vide me, ned io più il vidi.»
Ed il garzon: «Ospite, il vér sincero
Risponderò; ch’io sia figlio di lui
Dice la madre: altro non so, né alcuno
Per sé medesmo il genitor conobbe.
Deh! foss’io nato d’uom che la vecchiezza
Colto nel mezzo a sue dovizie avesse!
Ma, poiché tu ’l mi chiedi, è comun grido
Che il mortal più infelice ingenerommi.»
«No, voler degli Dèi non fu, che oscuro,
– La Dea rispose dall’azzurro sguardo –,
Îsse all’Età più tarde il tuo legnaggio,
Perocché qual se’ tu, dièdeti al mondo
Penèlope. Orsù, il vér piàcciati espormi:
Che banchetto? che turba è questa? E quale
Uopo n’hai tu? Forse di festa o nozze?
Non è certo, non è mensa cotesta,
Che a carco sia di ognun de’ convitati.
Pàrmi che in tua magion per insultarti
Pasteggino i superbi; uom saggio, tante
Non senza fier disdegno onte vedrìa.»
Telèmaco soggiunse: «Ospite mio,
Poiché il mi chiedi e di ciò pur ti cale,
Abbi che un tempo fu questa magione
Ricca ed in pregio, finché ei qui si tenne.
Ma fermâr altro i Numi, il condannando
Sparir nel mezzo de’ mortali ignoto;
Né tanto ’l piangerei, se co’ suoi prodi
Perìa sott’Ìlio o de’ suoi fidi in braccio,
Tosto ch’ei pose termine alla guerra.
Certo alzato gli arìeno i Dànai tutti
Un monumento da cui grande al figlio
Verrìa ne’ tardi secoli la gloria.
Or, non senza ignominia, il si ghermîro
Le Arpie; non visto e inonorato, sparve;
Ned altro mi lasciò che affanni e pianto.
Né di lui solo il duol m’ange, ben altri
Infortuni da’ Numi mi si ordîro.
Tutti i Proci che imperano Dulìchio,
Same e Zacinto, d’alti boschi verde,
Que’ che usurpâr dell’aspra Ìtaca il regno
Anelano a impalmar la madre, ed ella
Né rifiutar, né a fin trar può le nozze
Detestate; ed ei intanto il mio retaggio
Divorano, disèrtanmi la casa.
Né guari andrà che perderan me stesso.»
«Ahi! – replicò la diva in gran disdegno –,
Ben t’è mestier del troppo a lungo assente
Tuo genitor, d’Ulisse, che le invitte
Man sovra i Proci oltracotati avventi!
Se ne’ portici là del suo palagio,
D’improvviso giungendo, or si affacciasse
Con elmo e scudo e con due lance, tale
Qual io da prima alla mia mensa il vidi
Vivandar lieto, d’Efìra tornato,
Dove albergò presso il Mermerid’Ilo…
Andò a chiedergli ei là velen mortale
Per imbever le frecce, e non l’ottenne
D’Ilo, ché tema degli Eterni il prese;
Ben lo gli diede il padre mio: cotanto
Dismisurato affetto gli portava!
Oh! se tal qui irrompesse! Avrìan costoro
Ratto la morte e ’l maritaggio amaro.
Ma se venir de’ Proci a vendicarsi
Debba in sua reggia o no, sulle ginocchia
Sta degli Eterni. Ad avvertir t’assenno,
Come tu quinci discacciar li possa.
Orsù, al mio dir porgi l’orecchio ed opra:
Convoca i prodi Achivi a parlamento
Dimani, e ’l tuo sermon converso a tutti,
Chiama gli Eterni in testimoni, e a’ Proci
Spèrgersi ed ir a’ tetti loro ingiungi.
Se di nozze il desìo punge la madre,
Ritorni a’ tetti del possente Icàrio;
Quivi i parenti fermeran le nozze
Con ricchi doni, quanti mai s’addice
Ch’abbiano a seguitar figlia sì cara.
Piàcemi un saggio ancor pòrgerti avviso,
E tu ’l ricetta in cor. La miglior nave
Di vénti eletti remator guernita,
Del padre va’, da sì lunghi anni assente,
Novelle a procacciar; sia che un mortale
Le ti narri, sia che la voce ascolti
Dall’Olìmpio inviata, arcana voce
Che tutti ascosi eventi apre e disvela.
Va’ prima a interrogar Nèstore a Pilo.
Indi appo il biondo Menelao in Isparta,
Che di tutti gli Achivi ultimo giunse.
Se udrai che vive e che ritorna Ulisse,
Sostien, benché dolente, un anno intero.
Ma s’odi ch’ei perì, ritorna e gli ergi
Un sepolcro e magnifici i funèbri
Onor per Te, come è ben degno, ei s’abbia.
Indi eleggi alla madre un altro sposo.
Adempiuti che avrai cotesti uffici,
Nell’imo del tuo cor tieni consiglio
Con te medesmo e ferma: o con inganno
Porre od a viva forza i Proci a morte:
Ché de’ giuochi l’età passò, né lice
Pargoleggiar a Te che adulto sei.
Non odi tu qual gloria appo i mortali
Oreste si acquistò, tosto ch’ei spense
Egisto traditore e parricida,
Che il gran padre gli uccise? Oh! mio diletto!
Bello e grande ti veggio, al par sii forte,
Acciò lodato nell’Età future
Il tuo nome risuoni. Ecco al mio legno
Riedo ed a’ miei compagni, a cui ’l mio indugio
Torna omai grave. Or di Te stesso a Te
Caglia e del mio parlar t’assenna ed opra.»
Ed il garzon prudente: «Affettuose,
Ospite mio, son le tue voci, un padre
Parla al figlio così, né fia giammai
Ch’io le ponga in obblìo. Ma or ti sofferma,
Benché vòlto al partir, tanto che un bagno
Grato ti porga all’anima conforto.
Indi lieto addurrai sul tuo naviglio,
Eletto e prezioso un mio presente,
Ricordo del mio amore e quale a’ cari
Ospiti suole un ospite offerirlo.»
«Non mi tardar la desiata via
– Palla rispose –. Accetterò il bel dono,
Che a darmi il cuor t’invoglia, al mio ritorno,
Ed a’ miei tetti il porterò; tu allora
Da me un altro otterrai, non di Te indegno.»
Detto, la Dea si dileguò e veloce,
Via volando com’aquila, disparve.
Spirò all’eroe forza ed ardir; più viva
Destògli in cor l’immagine paterna.
Riscorso il tutto, di stupor fu oppresso,
Ché del Dio si avvisò. Ratto l’eroe
Vèr la schiera de’ Proci il piè rivolse.
Un vate insigne gìa tra lor cantando,
E tutti assisi gli porgeano orecchio,
Taciti, attenti; ridicea il funesto
Ritorno degli Achei dall’Ìlie piaggie,
Che, irata a loro, destinò Minerva.
Nelle stanze superne, in petto accolse
Penèlope il divin canto e per l’alte
Del palagio regal scale discese;
Sola non gìa, ché la seguìan due ancelle.
Giunta presso i chiedenti, in sulla soglia
Della solida porta il piè ritenne
Quella gran donna di beltà; un bel velo,
Che giù del capo le scendea ondeggiando,
Le adombrava le gote, e tra le ancelle,
Conversa al vate, sì dicea piangendo:
«Fèmio, altre molte sai gioconde istorie,
Vaghezza de’ mortali; inclite gesta
De’ Numi e degli eroi, tema de’ vati,
Canta di quelle alcuna, or che beendo
Stanno in silenzio ad ascoltarti i Proci.
Ma cessa omai questa canzon lugùbre
Che mi trafigge il cor, sempre ch’io l’oda.
Però che me, vie più che ogni altra, opprime
Disperato dolor. Quanto desìo
M’arde di riveder capo sì caro!
Dolce nella memoria èmmi pur sempre
Quel prode la cui gloria alto si spande
Nella Tessàlica Èllade ed in Argo!»
«O madre mia! – Telèmaco rispose –,
A vate sì gentil perché contendi,
Ch’ei pur ne alletti come il cor gli spira?
Cagion de’ nostri guai non son già i vati,
Ma Giove, che i suoi doni agl’ingegnosi
Mortali, come a grado gli è, comparte.
Dunque a carco di Fèmio appor non vuòlsi,
Se il triste fato degli Argivi or canta.
Quanto recente è più, tanto riesce
Agli ascoltanti la canzon più grata.
Ringagliardisci il cuore; òdila, o Madre,
Ché al solo Ulisse non frodò il ritorno
Troia, ma al par di lui molti perîro.
Risali ad alto, a’ tuoi lavori intendi:
Alla spola, al pennecchio, e dell’ancelle
Sull’usate opre vigilar ti piaccia;
La cura di parlar nelle adunanze
Lascia agli uomini tutti e, più che ad altri,
A me, cui l’imperar qui dentro spetta!»
Ammirata, Penèlope rivolse
Vèr le superne stanze il piè, guardando
Del figlio in cuore gli assennati accenti.
Indi, salita con le ancelle ad alto,
Ulisse, il caro suo sposo, piangea,
Finché di un dolce sonno le palpèbre
Soavemente le gravò Minerva.
Romoreggiar in questa, udìansi i Proci
Per la sala oscurata, accesi tutti
Dal desiderio di giacerle accanto.
Telèmaco allor sorse e a dir si prese:
«O della madre mia vagheggiatori,
Audaci e fieri, orsù, prendiam conforto
Dall’apprestata mensa e ’l rumor cessi.
Bello fia ’l vate udir che gl’Immortali,
Cantando, adegua. Ma dimani all’alba
Tutti al foro trarremo; ivi seggendo
Con secura mi udrete alma intimarvi,
Che di qua disgombriate. Ad altre mense
Volgétevi; ciascun nel proprio albergo,
Con alterni conviti il suo consumi.
Che se il retaggio piàcevi d’un solo
Impunemente disertar, seguite:
Gli Eterni invocherò, perché l’Olìmpio
Vi dia dell’opre guiderdon condegno,
Tal che qui scorra il vostro sangue inulto!»
Tutti, a quel franco dir, morser le labbra,
Meravigliando; e l’Eupìtide: «Ah! certo
Tanta alterezza e ’l ragionar sì ardito
Lo ti spirâr nell’animo gli Eterni.
Regnar non mai concèdati l’Olìmpio
Ìtaca a cui ’l natal sòlo ti chiama.»
«Antìnoo, concitar ti potrà a sdegno
Ciò ch’io dirò? – Telèmaco riprese –.
Se Giove il mi concede, io di buon grado
Lo scettro accetterò. Presso a’ mortali
Il credi tu don sì funesto? Certo
Regnar non è sventura: ampia dovizia
Nella magion di un Re tosto risplende,
Più che mai lo si onora. Ìtaca molti
Prenci di fresca e di matura etade
Recepe in sé; potrìa di lor qualcuno,
Poiché di vita il padre uscìo, regnarla.
Ma de’ miei tetti Re sarò, e de’ servi
Che per me conquistò l’inclito Ulisse.»
E ’l Polibide: «Qual de’ Greci fia
D’Ìtaca il Re nol so: posa l’evento
Sul ginocchio de’ Numi. I tuoi tesori
Possiedi e regna sulla tua magione,
Ned uom (finché abitata Ìtaca fia)
A malgrado di te, né mai per forza,
Rapìrteli ardirà. Ma da Te bramo
Saper, che buono sei, chi è lo straniere?
Donde ei partì? Onde l’origin ebbe?
Di qual sangue? qual terra? Ad annunziarti
Il ritorno del padre o qua se n’ venne
A chieder ciò che gli si dee? Repente,
Senza patir che altri ’l ravvisi, sparve!
Né già vile a’ sembianti, uom si parea.»
E ’l garzon saggio: «Morta in me ogni speme,
Disperato è il redir del padre mio,
Eurìmaco! Se alcun fia che il mi annunzi,
Nol crederò; né fé presto, né calmi
De’ vaticini che la madre chiede
All’indovin, quando in sue stanze il chiama.
Ospite mio paterno è lo straniere;
Di Tafo, Mente, che del prode Anchiàlo
Vàntasi figlio: a’ Tafi e’ signoreggia.»
Tal diè risposta, ma nel suo concetto,
Della diva immortal fécesi accorto.
Ne’ diletti del canto e della danza
A trastullarsi seguitâro i Proci,
Finché sorvenne l’imbrunir del giorno.
A guida della notte Èspero giunto,
Star in feste li vide. Allor ciascuno,
Ito a’ suoi tetti, diede gli occhi al sonno,
E Telèmaco ancor, là, ’ve construtta
Nel bel recinto del cortil superbo
Cospicua e vasta gli sorgea la stanza,
Cercò il riposo. E gìa con l’alma intanto
Agitando qua e là molti disegni.
Al suo fianco portava accese faci
La prudente Euriclea, figliuola d’Opi
Pisenòride, che già un dì col prezzo
Di vénti tori comperò Laerte,
Quando la fresca età più la abbellìa.
Al pari la onorò nel suo palagio
D’una casta consorte; né giammai,
L’ira temendo coniugal, toccolla.
Ella il cammin schiarando al giovinetto,
Èragli al fianco; più che ogni altra serva
L’amò, ché l’allevò sin da bambino.
Costei la porta dell’adorna stanza
Aperse ed egli sovra il letto assiso,
Svestì la molle tunica e alla saggia
Donna la pose in man, che ripiegolla
Con arte, la sospese alla caviglia
Del traforato letto e di là uscìo.
Trasse la porta per l’anel d’argento
A sé di retro, indi tirò la soga
E la stanga abbassò. Là, sotto il molle
Fior di lana, il garzon l’intera notte,
In se medesmo, tacito, volgea
Fornir la via che gl’indicò Minerva.
Libro II
Parlamento degli Itacesi Dipartenza di Telèmaco
Come apparve nel Ciel, rosea le dita,
La figlia del mattin, surse di letto
D’Ulisse il figlio caro, e de’ suoi panni
Si rivestì; sospese ad armacollo
L’acuto brando, sotto i piè adattossi
I leggiadri calzari e dalla stanza
Ratto si dipartì, sembiante a un Dio.
Tosto agli araldi di sonora voce
Impose, i ben chiomati a parlamento
Argivi convocar, che frettolosi
Accorsero. Poiché si ragunâro,
Sorvenne ei pur, tra man tenendo un’asta
Di terso rame; due veloci cani
Gli osservavano i passi, a lui d’intorno
Spargea celestial grazia Minerva.
Mentre egli procedea, le genti tutte,
Prese da meraviglia e da diletto,
Stavano a contemplarlo; ei sul paterno
Seggio che i vecchi cèssergli, si assise.
Primo, Egizio parlò; curvato il dorso
Gli ebbe l’etade e cose molte ei seppe.
Vèr Ìlio navigò col divo Ulisse
Il diletto suo figlio, il prode Antìfo
Che il Ciclope crudel nell’antro uccise
E di lui s’imbandì l’ultima cena.
Tre figli ancor avea: lo stuol de’ Proci
Eurìnomo accresceva, alla coltura
Diêr opra gli altri de’ paterni campi.
Non mai pose in obblìo l’assente figlio
Quel doloroso; d’alta angoscia oppresso,
Con sospiri e con lagrime il richiama;
Né senza pianto allor, così a dir tolse:
«Udite tutto che spìrami il cuore,
Itacesi! Non mai per noi si tenne
Concilio né assemblea dal dì che Ulisse
Veleggiava. Chi dunque or qui ci aduna?
Qual cura a’ garzon nostri ovvero a quelli
Di più matura età, l’animo or preme?
Dell’armata qualcun seppe il ritorno
E ciò che prima udì, ridir desìa?
Od altro ci esporrà che alla salute
Pubblica giovi? Ottimo il credo e spero
Che da questa adunanza ei si avvantaggi;
Deh! quanto volge in cor, Giove gli adempia!»
Del presagio il garzon gioì, né stette
Assiso più, ché d’arringare ardea.
Trasse nel mezzo e preso in man lo scettro
Che il saggio araldo Pisenòr gli porse:
«Veglio – disse –, non è quinci lontano
(Via via ’l ravviserai) l’uom che quest’oggi
Il popolo adunò. Son io, cui grava
Immenso affanno il cor. Non del ritorno
Dell’armata, né d’altro che al comune
Util confaccia, favellarvi or deggio;
Ma toccherò un mio guaio ed una doppia
Sventura che piombò sul tetto mio:
Il buon padre perdei che tra voi stessi,
Qual padre affettuoso, un dì regnava;
Or ecco altra più grave che dall’imo
Sovvertirà tutti i miei stati e intero
Il mio retaggio struggeranne. I Proci,
Figli di lor che qua possenti or sono,
Irrompendo, impalmar la renitente
Genitrice vorrìan, pur temon tutti
D’ir ad Icàrio, acciò la figlia ei doti,
Per disposarla a quei che Ella desìa;
Ma vengono al mio albergo e stànvi ognora
Ad isgozzarmi i tori e le mie agnelle
E le capre più pingui; a ricca mensa
Allégransi e tracannano a lor voglia
Impunemente il brun Lièo, struggendo
Tutto quanto il mio aver. Ned havvi eroe
Pari ad Ulisse che da’ tetti nostri
Tanto e sì fier disastro alfin respinga.
Debile e ignaro nel mestier dell’arme,
Non basto a m’aitar; ben la costoro
Baldanza conterrei; ben forse un giorno
Terribil diverrònne a costor tutti,
Se la forza in me par cresce all’ardire!
Oh! Intollerandi eccessi! In men che onesta
Guisa la magion mia già già ruina.
O cittadini d’Ìtaca! vi prenda
Di voi stessi vergogna, ah! sì, fuggite
Le rampogne de’ popoli che intorno
Abitan questi liti; paventate
L’ira de’ Numi: non su voi la pena
Di misfatti sì orribili ricaggia!
L’Olìmpio e Temi implorerò, che aduna
Le assemblee de’ mortali e le disperde;
Reprimeteli, amici, e abbandonate
Me solo in preda al duol che mi trafigge,
Ove l’ottimo Ulisse, il padre mio,
Avverso a’ prodi Achei, con danni ed onte
Oppressi gli abbia; e voi pur anco avversi
Con danni ed onte a opprìmermi accorrete
Eccitando costor. Certo mi fôra
Utile più, che voi gli arredi miei,
Voi consumaste i miei proventi e ’l gregge,
Ché otterrei presto il debito ristoro.
Ridomandar per la città a ciascuno
Con gran ressa verrei le mie sostanze,
Finché rese da voi fóssermi tutte.
Ora, senza compenso e senza speme,
Mi avventate nel cor fieri tormenti.»
Irato, disse; e via gittò lo scettro,
Mescendo al sospirar dirotto il pianto.
A quella vista, di pietà fu tócco
Il popol tutto ed i medesmi Proci,
Taciti, immoti stavano, né alcuno
Con detti acerbi saettarlo ardìa.
Antìnoo solo si levò e rispose:
«Audace arringator, giovine imbelle,
Telèmaco, perché ci oltraggi e un marchio
D’infamia tenti imprìmerci nel vólto?
Carco a’ Proci non dar, ma sì alla cara
Madre d’ogni sottile arte maestra.
Già scorso il terzo, or vòlgesi il quart’anno,
Che nel petto agli Achei l’animo elude.
Tutti pasce di speme, a tutti invia
Messi d’amor con tenere impromesse;
Ma in mente altro rivolge. Ed anche questo
Inganno immaginò. Tela sottile,
Dismisurata, oprando, a noi sì disse:
"Giovani che impalmar me desiate,
Poiché Ulisse perì, deh! le mie nozze
Dall’affrettar restàtevi, sin tanto
Ch’io fornir possa per l’eroe Laerte
Quest’ammanto funèbre, (e sì non vada
Perduto il lavorìo delle mie fila),
Quando a patir di morte i lunghi sonni,
A sé il trarrà la dispietata Parca;
Non forse presso il popolo qualcuna
Meco si adiri delle Achee, se privo
Giaccia sin d’un lenzuol colui che tante
Ricchezze possedea". Subitamente
Questi detti trovâr fede appo i nostri
Animi generosi. Ordìa di giorno
La gran tela e, di faci allo splendore,
Di notte la stessea. Sino al terz’anno
Stette così, mercé sue fraudi, occulta,
Eludendo gli Achei. Ma come l’Ore
Il quarto rimenâr, ne fece accorti
Della frode un’ancella; e quindi colta
Nell’atto fu Penèlope da noi,
Che distessea la sua splendida tela.
Cómpierla allor dovette a suo malgrado,
Necessità stringèndola. Ecco quanto
Ti dichiarano i Proci, onde tu ’l sappia,
Ned alcun altro degli Achei lo ignori:
Via rimanda la madre e le prescrivi
Quei disposar, che le disegna il padre
O chi tra gli altri, ella terrà più caro.
Ma se gran tempo ancor di Grecia i figli
Affannerà pur di que’ pregi usando,
Di che le fu sì liberal Minerva
Che la instruìa ne’ bei lavori e dielle
Acuto ingegno e scaltri accorgimenti,
Quai non udimmo noi da’ maggior nostri,
Delle antiche di Grecia inclite donne,
Di ricche trecce e di beltà perfetta:
Tiro, Alcmena, Micene a cui sì adorni
Pensier non mai si aperser nella mente,
Come son quei di che Ella ognor s’infiora…
Ma se, dissi, persiste a usarci inganni,
Non le succederan come si avvisa.
Da’ Proci tutti divorato e sperso
Ti fia il retaggio e le ricchezze e il vitto,
Finch’Ella in petto ratterrà il consiglio
Che le posero i Numi. A sé gran fama
Procaccerà, ma te farà dolente
Del van desìo del ben perduto. Or noi
Né porrem cura ad altro, ned il piede
Rimoverem da queste soglie, se Ella
Pria non disposa quel che più le aggrada.»
«No – replicò Telèmaco –, non mai
Da queste soglie mie caccerò in bando
Chi partorìmmi e del suo sen mi crebbe;
O lontan viva il padre o non più spiri,
Certo duro mi fia tornare a Icàrio
Sì ricca dote che tornar pur deggio,
Ov’io la madre al dipartir costringa.
Di gravi mali il padre e di più gravi
M’opprimerebbe un Dio, da che scendendo
Da quest’albergo, invocherà la Madre
Le ultrici Erinni ed io alle genti tutte
Verrei in orror. Ah! no, sì ria parola
Non