Ifigenìa in Àulide
Di Euripide
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Euripide (Atene, 485 a.C. – Pella, 407-406 a.C.) è stato un drammaturgo greco antico.
Traduzione a cura di Ettore Romagnoli.
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Ifigenìa in Àulide - Euripide
Personaggi
Personaggi
Agamènnone
VECCHIO SERVO
Menelào
Clitemnèstra
Ifigenía
ACHILLE
ARALDO
CORO
La scena rappresenta il campo degli Achei in àulide.
(Agamènnone esce dalla tenda, e chiama un vecchio servo)
Agamènnone:
O vecchio, vien qui, presso questo
padiglione.
VECCHIO:
Son qui. Che novelli
pensieri, Agamènnone, volgi?
Agamènnone:
T'affretti?
VECCHIO:
M'affretto. è la mia
tarda età molto insonne, e ben lieve
sui cigli mi pesa.
Agamènnone:
Che stella
è quella che in cielo veleggia?
VECCHIO:
è Sirio, che, presso alla Plèiade
settemplice, in mezzo alla volta
del cielo, s'affretta.
Agamènnone:
Non s'ode né voce d'uccello
né d'onde sciacquío. Su l'Eurípo
i venti son muti.
VECCHIO:
Agamènnone re, perché mai
venuto sei fuor della tenda?
In àulide tutto è tranquillo:
immote son tutte le scolte.
Rientriamo.
Agamènnone:
Felice ti reputo,
o vecchio, ed invidio quell'uomo
che senza pericoli, ignoto,
senza fama, trascorre la vita.
Men felice mi sembra chi vive
tra gli onori.
VECCHIO:
Ma pur, negli onori,
della vita consiste il decoro.
Agamènnone:
è fallace decoro; e il potere,
sebben dolce, ad averlo t'accora.
Uno sbaglio talor verso i Numi
la tua vita sconvolge; talora
la cruccian gli umori
degli uomini, tristi e discordi.
VECCHIO:
Non son queste le cose, Agamènnone,
che ai príncipi invidio; ed Atrèo
non ti diede la vita perché
tu soltanto godessi; ma devi
provare piaceri e dolori,
ché tu sei mortale;
e, voglia o non voglia, dei Numi
è tale il volere.
(Agamènnone accende una lampada e si mette a scrivere
su una tavoletta)
Che fai?
Accendi la lampada, e in quella
tavoletta che teco hai recata,
tu scrivi, e lo scritto
cancelli e sigilli, e di nuovo
riapri, ed a terra lo gitti,
e quante stranezze commettono
i folli, commetti.
Che pena t'angustia, che nuova
sciagura, Signore? Su, via,
partecipe fammene, parla.
Onesto, a te fido sono io:
ché Tindaro un giorno mi diede,
fra i doni di nozze, alla tua
consorte, compagno
fedele alla sposa.
Agamènnone:
Leda, figlia di Testio, ebbe tre figlie:
Clitemnèstra, mia sposa, Febe, ed Elena.
A richieder costei, si presentarono
quanti contava piú prestanti giovani
l'Ellade tutta; e qui minacce sursero
fra lor di morte, ché nessun voleva
privo restar della fanciulla. E Tíndaro
in imbarazzo grande era, se cederla
convenisse, oppur no, per conseguirne
maggior vantaggio; e questa idea gli venne:
che tutti quanti i giovani prestassero,
stringendosi le mani, e confermassero
con libagioni e imprecazioni, un giuro
che tutti l'uomo a cui movesse sposa
di Tíndaro la figlia, aiuterebbero,
se mai qualcun glie la rapisse, e in bando
lui mandasse dal letto; e moverebbero
a campo, e la città distruggerebbero,
con l'armi, ellèna fosse, o fosse barbara.
E poi ch'ebber giurato, e il vecchio Tíndaro
accortamente con la fine astuzia
li ebbe ingannati, disse alla sua figlia
che fra i rivali ella scegliesse quello
a cui piú d'Afrodite la spingessero
l'aure dilette. Ed ella scelse, oh, fatto
mai non l'avesse! Menelào: ché poi,
dalla terra dei Frigi a Lacedèmone
quell'uomo giunse che alle Dee fu giudice,
come n'è fama tra gli Argivi; e un fiore
parea nelle sue vesti, e d'oro fulgido
con barbarica pompa, e innamorato
rapí l'innamorata Elena, e ai campi
d'Ida l'addusse. E Menelào non c'era.
Ma come ritornò, furente corse
l'Ellade tutta, e i giuramenti a Tíndaro
un giorno fatti ricordò: che aiuto
convien prestare a chi patí sopruso.
E alla guerra correndo, allora gli Elleni
impugnarono l'armi, e in questo d'àulide
angusto passo vennero, di navi,
di scudi armati, di cavalli e cocchi.
E duce me, perché di Menelào
ero fratello, elessero. Deh, fosse
toccato ad altri un tanto onor! Ché tutte
son raccolte le genti, e noi qui stiamo,