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Ifigenìa in Àulide
Ifigenìa in Àulide
Ifigenìa in Àulide
E-book83 pagine43 minuti

Ifigenìa in Àulide

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Info su questo ebook

"Ifigenìa in Àulide" è una tragedia di Euripide, scritta tra il 407 ed il 406 a.C., nel periodo che l'autore passò alla corte di Archelao, re di Macedonia, dove morì. 

Euripide (Atene, 485 a.C. – Pella, 407-406 a.C.) è stato un drammaturgo greco antico.

Traduzione a cura di Ettore Romagnoli.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita18 set 2017
ISBN9788893452984
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    Ifigenìa in Àulide - Euripide

    Personaggi

    Personaggi

    Agamènnone

    VECCHIO SERVO

    Menelào

    Clitemnèstra

    Ifigenía

    ACHILLE

    ARALDO

    CORO

    La scena rappresenta il campo degli Achei in àulide.

    (Agamènnone esce dalla tenda, e chiama un vecchio servo)

    Agamènnone:

    O vecchio, vien qui, presso questo

    padiglione.

    VECCHIO:

    Son qui. Che novelli

    pensieri, Agamènnone, volgi?

    Agamènnone:

    T'affretti?

    VECCHIO:

    M'affretto. è la mia

    tarda età molto insonne, e ben lieve

    sui cigli mi pesa.

    Agamènnone:

    Che stella

    è quella che in cielo veleggia?

    VECCHIO:

    è Sirio, che, presso alla Plèiade

    settemplice, in mezzo alla volta

    del cielo, s'affretta.

    Agamènnone:

    Non s'ode né voce d'uccello

    né d'onde sciacquío. Su l'Eurípo

    i venti son muti.

    VECCHIO:

    Agamènnone re, perché mai

    venuto sei fuor della tenda?

    In àulide tutto è tranquillo:

    immote son tutte le scolte.

    Rientriamo.

    Agamènnone:

    Felice ti reputo,

    o vecchio, ed invidio quell'uomo

    che senza pericoli, ignoto,

    senza fama, trascorre la vita.

    Men felice mi sembra chi vive

    tra gli onori.

    VECCHIO:

    Ma pur, negli onori,

    della vita consiste il decoro.

    Agamènnone:

    è fallace decoro; e il potere,

    sebben dolce, ad averlo t'accora.

    Uno sbaglio talor verso i Numi

    la tua vita sconvolge; talora

    la cruccian gli umori

    degli uomini, tristi e discordi.

    VECCHIO:

    Non son queste le cose, Agamènnone,

    che ai príncipi invidio; ed Atrèo

    non ti diede la vita perché

    tu soltanto godessi; ma devi

    provare piaceri e dolori,

    ché tu sei mortale;

    e, voglia o non voglia, dei Numi

    è tale il volere.

    (Agamènnone accende una lampada e si mette a scrivere

    su una tavoletta)

    Che fai?

    Accendi la lampada, e in quella

    tavoletta che teco hai recata,

    tu scrivi, e lo scritto

    cancelli e sigilli, e di nuovo

    riapri, ed a terra lo gitti,

    e quante stranezze commettono

    i folli, commetti.

    Che pena t'angustia, che nuova

    sciagura, Signore? Su, via,

    partecipe fammene, parla.

    Onesto, a te fido sono io:

    ché Tindaro un giorno mi diede,

    fra i doni di nozze, alla tua

    consorte, compagno

    fedele alla sposa.

    Agamènnone:

    Leda, figlia di Testio, ebbe tre figlie:

    Clitemnèstra, mia sposa, Febe, ed Elena.

    A richieder costei, si presentarono

    quanti contava piú prestanti giovani

    l'Ellade tutta; e qui minacce sursero

    fra lor di morte, ché nessun voleva

    privo restar della fanciulla. E Tíndaro

    in imbarazzo grande era, se cederla

    convenisse, oppur no, per conseguirne

    maggior vantaggio; e questa idea gli venne:

    che tutti quanti i giovani prestassero,

    stringendosi le mani, e confermassero

    con libagioni e imprecazioni, un giuro

    che tutti l'uomo a cui movesse sposa

    di Tíndaro la figlia, aiuterebbero,

    se mai qualcun glie la rapisse, e in bando

    lui mandasse dal letto; e moverebbero

    a campo, e la città distruggerebbero,

    con l'armi, ellèna fosse, o fosse barbara.

    E poi ch'ebber giurato, e il vecchio Tíndaro

    accortamente con la fine astuzia

    li ebbe ingannati, disse alla sua figlia

    che fra i rivali ella scegliesse quello

    a cui piú d'Afrodite la spingessero

    l'aure dilette. Ed ella scelse, oh, fatto

    mai non l'avesse! Menelào: ché poi,

    dalla terra dei Frigi a Lacedèmone

    quell'uomo giunse che alle Dee fu giudice,

    come n'è fama tra gli Argivi; e un fiore

    parea nelle sue vesti, e d'oro fulgido

    con barbarica pompa, e innamorato

    rapí l'innamorata Elena, e ai campi

    d'Ida l'addusse. E Menelào non c'era.

    Ma come ritornò, furente corse

    l'Ellade tutta, e i giuramenti a Tíndaro

    un giorno fatti ricordò: che aiuto

    convien prestare a chi patí sopruso.

    E alla guerra correndo, allora gli Elleni

    impugnarono l'armi, e in questo d'àulide

    angusto passo vennero, di navi,

    di scudi armati, di cavalli e cocchi.

    E duce me, perché di Menelào

    ero fratello, elessero. Deh, fosse

    toccato ad altri un tanto onor! Ché tutte

    son raccolte le genti, e noi qui stiamo,

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