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Everlong. 1691
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E-book301 pagine4 ore

Everlong. 1691

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Info su questo ebook

Determinata a salvare il suo amato Thomas dalla terribile maledizione che aleggia sulla sua famiglia, Diana, insieme al ragazzo, torna nel 1691, a Salem, con una missione: impedire che Sarah Osborne, sua nonna e potentissima strega, scagli il fatale anatema contro il reverendo Elijah Derville, cacciatore di streghe e antenato di Thomas.
Ma il reverendo si rivelerà molto presto una persona molto diversa dal sanguinario assassino dei racconti: raffinato, subdolo incantatore e psicolabile multiforme, accoglie i due ragazzi in casa sua, aprendo la porta ad antichi e orrorifici misteri. Tra passioni improvvise, inganni, bugie e oscure dicerie sul passato del reverendo, Diana e Thomas sono costretti a interfacciarsi con una fumosa realtà in cui persone buone commettono azioni atroci. Ma mentre il tempo stringe, Diana, irremovibile nella sua missione, è perseguitata da una visione sul suo futuro…
LinguaItaliano
EditoreBookRoad
Data di uscita8 nov 2023
ISBN9788833226835
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    Anteprima del libro

    Everlong. 1691 - Manuela Scalvini

    frontespizio

    Manuela Scalvini

    Everlong – 1691

    ISBN 978-88-3322-683-5

    © 2023 BookRoad, Milano

    BookRoad è un marchio di proprietà di Leone Editore

    www.bookroad.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Al mio futuro marito Cristian,

    per il sostegno incondizionato

    in questo progetto e nella vita.

    PROLOGO

    Amesbury, Massachusetts, 2003. Tra i banchi di scuola Diana, nonostante un’iniziale antipatia, si innamora del suo compagno di liceo, il ribelle Thomas e tra i due nasce una forte relazione. Dietro quell’amore adolescenziale, però, si nasconde un segreto legato a loro e alle loro famiglie.

    Un’antica maledizione è scritta nel destino di Thomas: la sesta notte di luna piena dopo il compimento dei suoi diciassette anni, il ragazzo, discendente della dinastia dei Derville, è condannato a morire. A ucciderlo dovrà essere proprio Diana, che oltre a essere l’amore della sua vita è anche una potente strega: è proprio questa sua natura magica a legarla alla maledizione.

    Sua nonna è infatti l’ultracentenaria Sarah Osborne. Sembra un’anziana qualsiasi in una casa di riposo, ma in realtà è una strega potentissima e irascibile. Scoprì i suoi poteri nel 1689, ma li usò nel peggior modo possibile, vendendo la sua anima al diavolo.

    Il primo a essere colpito dalla rabbia di Sarah fu Elijah Derville, reverendo e cacciatore di streghe, che venne punito per aver ucciso Victor, il marito della donna. La maledizione imponeva che ogni uomo della famiglia Derville sarebbe morto non appena il primo erede maschio fosse nato. Sarebbe successo così fino alla tredicesima generazione, quando la dinastia dei Derville si sarebbe finalmente estinta. Infatti, l’esponente di quella generazione sarebbe stato ucciso dalla nipote della strega.

    Sarah, all’epoca incinta, si ibernò per poi risvegliarsi alla metà del Novecento, in modo da essere presente quando la stirpe dei Derville si sarebbe finalmente estinta. Suo figlio, cioè il padre di Diana, si ibernò dunque con lei, nascendo negli anni Sessanta e crescendo inconsapevole di tutto.

    Non potendo in alcun modo spezzare quel potente maleficio, Diana, testarda e coraggiosa, ha elaborato un piano complicato e pericoloso per salvare la vita al ragazzo. Con l’astuzia, ruba tutti i poteri magici di Sarah, lasciandola impotente e ormai al termine della sua vita.

    Lei e Thomas decidono di tornare indietro nel tempo, esattamente nel 1691 per cercare di cambiare il corso degli eventi: la loro missione è trovare un modo per impedire che la maledizione venga lanciata.

    Assorbendo la magia di Sarah, Diana non ha acquisito solo degli straordinari poteri, ma anche la capacità di avere delle premonizioni riguardanti il futuro. Uno di questi suoi presagi la mette in guardia: se avesse affrontato quel viaggio nel tempo, Diana non sarebbe mai tornata nel 2003. Pur di salvare la vita al suo amato, la ragazza ignora l’avvertimento, andando incontro al suo nuovo destino.

    HOUSE ON A HILL

    2003 – p.o.v. Thomas

    Diana non lo sapeva, ma io ero terrorizzato: questo viaggio mi paralizzava dalla paura. Davanti a lei cercavo di fare lo spavaldo, e forse per qualche giorno avevo anche creduto di esserlo, ma ora… stavamo per essere teletrasportati magicamente nel 1691, e se per Diana tutto questo era anche solo lontanamente normale, per me non lo era di certo. Dopotutto però, le alternative non erano molte: dovevo scegliere tra l’affrontare un viaggio nel tempo per impedire che una maledizione fosse lanciata, o morire per mano dell’amore della mia vita.

    Avevamo appuntamento alle 21.00 al vecchio pozzo, alla fine del campo dei Buchanan. Arrivai con qualche minuto d’anticipo e mi fermai all’inizio del sentiero sterrato, lei era già lì.

    «Ciao» mi accolse con un sorriso, voltandosi nella mia direzione e aspettando un mio bacio.

    «Ehi» ricambiai, appoggiando le labbra sulle sue, storcendo poi il naso e chiedendole: «Che cos’è questa puzza?».

    «Hai più opzioni: possono essere le ossa del pollo, il sangue dell’agnello o la coda della lucertola» ironizzò, allegra come al solito, mentre continuava a mescolare uno strano intruglio.

    «Non dobbiamo berlo, vero?» mi assicurai, guardando disgustato il contenuto della ciotola.

    «Hai visto troppi film, non funziona così» mi rimproverò bonariamente, senza perdere l’occasione per spiegarmi: «Convoglierò l’energia delle stelle all’interno della ciotola, così i vari ingredienti si attiveranno e daranno vita all’incantesimo».

    «Certo, ovvio, ho capito tutto» borbottai.

    «Tu hai portato quello che ti ho chiesto?» mi domandò, dopo aver sorriso della mia ingenuità, lanciando un’occhiata alla grande borsa che mi portavo appresso.

    «Sissignora, direttamente da una rievocazione storica di Boston della settimana scorsa» le illustrai, facendo un mezzo inchino e aprendo la sacca, da cui estrassi dei vestiti protetti da un copri abiti bianco.

    Mi vestii, adagiandomi sul capo anche un ridicolo cappello a cilindro, lucidandomi le scarpe classiche e voltandomi poi a guardare Diana. Rimasi senza fiato.

    Sembrava una regina, con quel pomposo abito blu e i gioielli brillanti: la presi per la vita e la feci volteggiare, senza staccarle gli occhi di dosso.

    «Sei meravigliosa» commentai infatti, facendola sorridere, in imbarazzo.

    «Anche tu non sei male, sai? Anche se non sono molto convinta che sia il tipico vestito puritano. Io sono sfarzosa e tu elegantissimo» mormorò, sbuffando.

    «Siamo forestieri e ricchi parenti di Elijah Derville. Per me siamo perfetti!» la rassicurai dandole poi un bacio.

    «Sono emozionata» ammise, tormentandomi le dita. «Ripassiamo un attimo le regole.»

    «Vada, maestra» la incitai, calcandomi meglio il cappello in testa.

    «Arriveremo lì nell’autunno del 1691, prima che si scateni la caccia alle streghe e, per prima cosa, osserveremo… Abbiamo del tempo prima che tutto inizi, così valuteremo quando intervenire su Elijah; agire su Sarah sarà la nostra ultima spiaggia, in caso qualcosa vada storto. È troppo potente e pericolosa. Interverremo sul motivo che porterà Elijah a diventare cacciatore, oppure agiremo per evitare la morte di Victor» ricapitolò, camminando avanti e indietro, cercando di perfezionare ogni dettaglio.

    «Tutto chiaro!» esclamai con un finto buon umore, ignorando il mio stomaco intento a contorcersi.

    Ci togliemmo le cose superflue, le mettemmo in una busta e le appoggiammo sopra i nostri vestiti moderni.

    «Cominciamo» bisbigliò, inginocchiandosi davanti alla ciotola e cominciando a recitare: «O stellae, omnia elementa cum virtute vostra miscete».

    Un raggio luminoso andò a colpire gli ingredienti nel recipiente, che vibrarono e si mescolarono tra di loro, dando origine a un fluido verdastro e nauseabondo.

    «Dammi la mano» mi ordinò, riscuotendomi dal torpore: stavo osservando la scena a bocca aperta. «Sanguis» pronunciò, con il mio palmo tra le mani, provocandomi una piccola ferita e aggiungendo qualche goccia del mio sangue nella poltiglia.

    Fece lo stesso con se stessa, innaffiando poi il tutto con dell’acqua e mescolando fino a che assunse un colorito rossastro.

    «Questa parte farà un po’ schifo» mi avvisò, immergendo poi le dita nel composto denso e avvicinandomisi: mi appoggiò l’indice e il medio sulla fronte, tracciando una linea rossa da lì fino al punto in cui si incontrano le clavicole.

    Rabbrividii quando mi spalmò quella sostanza sulle labbra. Dopodiché mi sbottonò un poco la camicia e si imbrattò nuovamente le dita, tornando tra le due clavicole e disegnando una spirale. Puzzava maledettamente.

    Fece lo stesso alla cieca sul suo corpo, con una visibile pelle d’oca, poi raccolse la sostanza in un’ampolla e la infilò in una delle sottogonne, in modo da averla già a disposizione per il ritorno.

    Prese un lungo respiro, poi iniziò: «Domine sanguis meus, corpora et animas nostras reduc ad annum millesimum sexcentesimo nonagesimo primo. O sanguis meus, hauri virtutem corporum caelestium et opera magicas».

    Lo cantilenò più volte, prendendomi per mano e alzando gli occhi al cielo, e nel mentre sentii un bruciore partire dal centro della spirale e diffondersi per tutto il viso, seguendo la linea creata dalla poltiglia.

    Vidi che la sostanza si era dipinta di un rosso incandescente, come se avessimo delle fiamme sotto la pelle. A mano a mano che ripeteva l’incantesimo, sempre a voce più alta, una nebbia densa e scura cominciò ad avvolgere i nostri corpi.

    Serrai gli occhi, spaventato a morte, stringendo forte la mano di Diana. Mi sentivo leggero, come se fossi incorporeo, strizzai ancor di più gli occhi e attesi che la magia avvenisse. Mi abbandonai al mio destino, mentre un crescente vento caldo mi strappava da quella realtà.

    «Ti amo» urlai nell’oscurità, sentendo la flebile risposta di Diana, che ormai non stringeva più le mie dita.

    Vagai nel vuoto per un tempo indefinito, non avrei saputo dire se per secondi o per ore, sbirciando di tanto in tanto e vedendo solo ed esclusivamente il nulla scorrere sotto di me. Ero leggero, incorporeo e fluttuavo come una piuma, con la mente annebbiata e sconnessa dal corpo, come se fossi sotto l’effetto di qualche sedativo. Poi, un tonfo pesante mi fece rinsavire.

    1691 – p.o.v. Thomas

    Una sensazione di freddo e umidità mi pervase, costringendomi ad aprire gli occhi, molto lentamente, quasi impaurito: ero steso scompostamente sul terreno di quella che, a giudicare dall’odore, sembrava una stalla. Da lì riuscivo a vedere dei mucchi di fieno, dei grandi sacchi grigi stracolmi di quello che pareva mais, attrezzi di ferro sparsi a terra senza un ordine logico e le zampe posteriori di circa una decina di cavalli.

    Appena i capogiri si calmarono, mi sollevai indolenzito e mi sedetti sul bordo di una mangiatoia inutilizzata, toccandomi il volto e scoprendo di non essere più incrostato con quella sostanza nauseabonda. Dopodiché, mi guardai attorno, ancora confuso, cercando la mia fidanzata.

    «Diana…» sussurrai, senza ottenere risposta. «Diana!» riprovai più convinto. Niente.

    Mi alzai in piedi recuperando il mio cappello e sgranchendomi le gambe, pulendomi l’abito dal pulviscolo, cercando poi la ragazza con lo sguardo. Nonostante Diana avesse lanciato l’incantesimo di notte, nel 2003, la luce chiara che filtrava dalle polverose e sottili finestre mi fece capire che lì, nel 1691, era ancora pieno giorno.

    Un nitrito infastidito mi fece sobbalzare, mandandomi a sbattere contro la parete, facendo cadere tutti gli attrezzi lì appesi e causando un rumore assordante.

    «Chi c’è?» urlò una burbera voce maschile, spaventandomi.

    Un omone grande, grosso e sudicio sbucò dal fienile in fondo alla stalla, brandendo un rastrello a mo’ di arma e guardandosi attorno con fare cattivo.

    «Perdoni l’intrusione signore, sto cercando mia moglie, non è che per caso ha visto una donna con i capelli rossi e un vestito azzurro, qui nelle vicinanze?» gli domandai, avvicinandomi piano e tenendo le mani in vista, facendogli capire che non avevo nulla da nascondere.

    «Non ho visto nessuna puttana» grugnì infastidito, cercando di mettere a fuoco il mio volto da lontano.

    «Non siete molto gentile» si introdusse un’inconfondibile voce femminile, spuntando alle spalle dell’omone.

    «Da dove sei sbucata, megera!» sbottò l’uomo, girandosi di scatto e fendendo l’aria con il rastrello.

    «Oddio sei qui, Diana!» esclamai, tirando un grande sospiro di sollievo, vedendo la mia fidanzata apparire integra.

    A passo svelto le andai incontro, ma mi bloccai a metà. Ero uscito dalla penombra del fondo della stalla e appena l’omone mi vide da vicino sbiancò. Il rastrello gli scivolò di mano, cadendo per terra. Nell’ambiente risuonò il rumore secco del legno che vibrava.

    «Derville…» balbettò, indietreggiando spaventato.

    «Come scusi?» domandai di scatto, bloccandomi a pochi passi da lui.

    «Voi… dovete essere un Derville, la somiglianza è troppa» ripeté, con il labbro inferiore che tremava.

    «Sì, infatti… sono uno di loro» confermai, capendo di poter trarre la cosa a mio vantaggio.

    «Oh signore, le chiedo perdono, non ne avevo idea! Pensavo che voi e la vostra graziosa signora foste una coppia di ladri, mi sbagliavo, imploro il vostro perdono, vi supplico» prese a scusarsi l’uomo, prostrandosi ai miei piedi, sull’orlo delle lacrime.

    Io e Diana ci guardammo confusi per qualche istante, facendo poi spallucce e sorridendo alla vista di quella scena abbastanza patetica.

    «Alzatevi, non c’è bisogno di tutto questo, avete il nostro perdono» mormorai, porgendogli una mano per rialzarsi.

    Non appena questo si rimise in piedi, raggiunsi finalmente Diana e la abbracciai, contento di vederla tutta intera dopo il rituale.

    «Dici che possiamo sfruttarlo per qualche informazione? Voglio sapere se questo è il posto corretto e che anche l’anno sia quello giusto» mi sussurrò all’orecchio, osservando di sottecchi l’uomo che avevamo di fronte, che ora aveva assunto le sembianze di un cucciolo smarrito.

    «Sì, sembra quasi che abbia paura di me, voglio sapere il perché» concordai con lei.

    Poi mi girai avvicinandomi a lui: «Posso farle un paio di domande, signore?».

    «Assolutamente, sono al vostro più completo servizio!» si rese immediatamente disponibile, drizzando la schiena e restando impettito come un fuso.

    «Io e mia moglie stiamo viaggiando da parecchi giorni, ma nel bosco siamo stati derubati, cavallo compreso e ci siamo persi: può dirci dove siamo e che giorno è oggi, per favore?» cominciai, inventandomi una storia credibile.

    «Oh, mi dispiace così tanto! Qui siamo a Lynn, tra la colonia di Salem e quella di Boston e oggi è il… 20 ottobre» mi informò, facendo un paio di calcoli con le dita.

    «Perfetto» sentii Diana sussurrare, impercettibilmente.

    «E, se posso, come mai sembrate avere tanta paura del reverendo?» azzardai, inclinando la testa e osservando la sua reazione.

    Si irrigidì immediatamente, balbettando poi: «Oh, non vorrei dire cose maligne, siete la sua famiglia…».

    «Non si preoccupi, siamo solo parenti lontani, ma avrei davvero bisogno di una sua risposta» lo spronai, dandogli una vigorosa pacca sulla spalla.

    «Mia sorella Isabelle era sua moglie, e quando è morta… be’, la signora Carter disse che era stato Elijah a ucciderla, nessuno ci credette ma…»

    «Ma lei sì» lo anticipai, percependo il dolore nelle sue parole.

    «Quanto tempo fa è successo?» si intromise Diana, socchiudendo gli occhi come se stesse ragionando su qualcosa.

    «Tre anni fa… lo so, sembra stupido, è passato tanto tempo e io ancora ci soffro» mormorò con un sorriso malinconico, asciugandosi una lacrima prima ancora che gli rigasse la guancia.

    «Non è stupido, era sua sorella, non si smette mai di soffrire per la perdita di chi amiamo» lo rincuorò Diana, accarezzandogli il braccio, compassionevole.

    «Sapete una cosa, vi darò uno dei miei cavalli!» esclamò l’uomo, ritrovando il buon umore.

    «Non abbiamo nulla con cui pagarla, ci hanno preso tutto» gli feci presente, apprezzando di cuore la sua gentilezza.

    «Oh, non importa, ne ho molti, uno in meno non mi cambierà! Insisto, lo faccio con piacere» perseverò, cominciando a sbrigliare uno dei tanti cavalli.

    «Be’… » mormorai, guardando Diana per capire se dovessimo accettare o no.

    «Dista molto da qui la dimora del reverendo?» domandò lei, valutando.

    «Poco più di una mezza dozzina di miglia: dovete per prima cosa arrivare a Salem, attraversare la città e raggiungere i piedi del monte, percorrere una stradina sdrucciolevole e alla fine di quella troverete la sua magione» ci informò, porgendomi la briglia e sellando l’animale.

    «Penso proprio che ci servirà il cavallo, allora» sorrise Diana, accarezzando la folta e lucente criniera color ebano della bestia.

    Ci congedammo circa un quarto d’ora più tardi, dopo mille ringraziamenti e dopo che l’uomo, di nome Eluard, ci mostrò la strada per Salem.

    «L’anno è giusto, siamo nel 1691» confermò Diana appena ci allontanammo dalla stalla.

    «Da cosa l’hai capito?» le chiesi, mentre studiavo un modo per salire a cavallo.

    «Eluard ha detto che Isabelle è morta tre anni fa. Be’, secondo i vecchi registri di mio padre, morì nel 1688, quindi…» mi spiegò, soddisfatta delle sue conoscenze.

    Ci guardammo attorno per qualche istante, contemplando quel luogo: non ci eravamo ancora abituati a dove, o meglio, in che epoca, fossimo.

    «Ce l’abbiamo fatta» mormorai, voltandomi sorridente verso di lei, che vagava con lo sguardo al di là del bosco, immaginandosi cosa ci potesse essere oltre quegli alberi.

    «Avevi dubbi?» ironizzò, dandomi una spinta.

    «Mai… l’unico dubbio che ho ora è: come si cavalca?» riposi, osservando incerto il cavallo, che sbuffava e nitriva, pronto al galoppo.

    «Tu pensa a salirci sopra, io penso al resto» mi impartì, avvicinandosi all’orecchio dell’animale e sussurrandogli qualcosa. Dopo un suo nitrito di consenso, si staccò. «Ci siamo» disse.

    «Cosa gli hai detto?» indagai curioso, fermo con un piede in una staffa.

    «Gli ho solo chiesto di fare il bravo e di portarmi alla magione» commentò, come se fosse la cosa più normale del mondo.

    «Grazie a Dio sei una strega, non so se ce l’avrei fatta altrimenti. Sono abituato a un altro tipo di cavalli sai, quelli che stanno dentro al motore della macchina» risi cinico, issandomi poco elegantemente in groppa.

    «Be’ non è proprio magia questa, è solo la connessione che ho con la natura che mi ha aiutato a farlo» mi spiegò, mentre la facevo salire dietro di me. Non appena strinsi un poco le gambe attorno ai fianchi del cavallo, questo partì al galoppo, diretto alla meta.

    Ci vollero circa due ore per attraversare quel fitto boschetto, che con uno dei suoi rami fortunatamente si prese il mio cappello. Il cielo era ancora chiaro quando finalmente arrivammo a Salem. Si respirava un’aria diversa, libera dal moderno smog, ma impregnata dall’odore di paglia, terra umida e, soprattutto, di letame.

    Ci introducemmo nel piccolo villaggio, imbattendoci in quel che sembrava un mercato cittadino: ai lati del viale c’erano banchetti sgangherati stracolmi di frutta e verdura, ceste di pane scuro e piani di legno coperti da pesce fresco. Le donne vi passeggiavano in mezzo, osservando con occhio critico le vivande, sollevando un poco l’orlo del loro semplice abito, per evitare che si sporcasse con il terriccio freddo e bagnato della strada non asfaltata. Le ragazzine, invece, scorrazzavano urlanti tra le persone, giocando, spingendosi e ridendo, fermandosi solo di tanto in tanto a curiosare tra le bancarelle di gioielli, sperando, in un futuro, di poterseli permettere. Gli uomini presenti o erano venditori che urlavano e invitavano le donne a comprare da loro, o erano mendicanti, riversi sul ciglio della strada, emanando odori sgradevoli e scuotendo un barattolo per farsi lasciare le monete. C’erano anche dei bambini, alcuni giocavano pericolosamente con la coda del nostro cavallo, altri erano impegnati a commettere piccoli furti.

    Poi, in lontananza, dalla folla caotica e chiacchierona, vidi lei. Una ragazza austera e sicura, che camminava facendo ondeggiare i lunghi capelli ramati sulla schiena e osservando le persone con i suoi profondi occhi neri, commentandole poi con le sue due compagne.

    «Quella è…?» bisbigliai, ma Diana mi precedette.

    «Sarah» sussurrò lei, osservando esterrefatta sua nonna.

    Quest’ultima, però, inaspettatamente, si girò di scatto e ci fissò, stupita.

    «Accelera!» mi intimò Diana, stringendosi ancor di più a me e premendo il volto sulla mia schiena.

    «Dici che ti ha sentita?» le chiesi, dopo che ci fummo allontanati dal mercato.

    «Non lo so, sarebbe umanamente impossibile, ma dal momento che lei non è del tutto umana… be’, forse» concluse incerta, con il respiro affannato, pregando silenziosamente.

    Restammo in silenzio per un po’, cullati dallo scalpiccio del trotto del cavallo, osservando la radura nella quale ci stavamo inoltrando, umida e rosseggiante. Cominciò a piovere, dapprima poche gocce, leggere, che poi diventarono sempre più forti, fino a trasformarsi in uno scroscio continuo e opprimente.

    «Dobbiamo fermarci!» urlai, sovrastando il rumore dell’acqua.

    «No, siamo quasi arrivati, guarda!» mi incitò Diana, indicando la figura della grande magione davanti a noi, che distava forse mezzo miglio.

    Seguendo il suo consiglio, aumentai quindi il passo e, nel giro di cinque minuti, fummo davanti al grande e altissimo portone di legno.

    Bussammo con forza un paio di volte e urlammo a squarciagola per farci sentire, fino a quando un’anziana domestica spiò dalle fenditure sovrastanti.

    «Chi siete?» domandò a gran voce, cercando di scrutarci nell’acquazzone.

    «Siamo parenti del reverendo in visita!» urlai per farmi sentire.

    La donna allora si allontanò dalla finestra e, pochi secondi dopo, aprì il pesante portone.

    «Thomas e Diana Derville» mi presentai nuovamente, sputando le gocce di pioggia che mi arrivavano in bocca.

    La vidi far passare gli occhi su di me, dubbiosa. Per un paio di infiniti secondi rimanemmo a guardarci, mentre ci inzuppavamo sempre di più, messi a disagio dal suo sguardo.

    «Sì, assomigliate molto al padrone: entrate, manderò uno stalliere a prendere il vostro

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