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Lazarus: Hack The System
Lazarus: Hack The System
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E-book301 pagine4 ore

Lazarus: Hack The System

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Info su questo ebook

Peter Rossi Hughes, un giovane italo-inglese di 22 anni conosciuto con lo pseudonimo di LAZARUS, è uno dei migliori hacker al Mondo. Vive e lavora in un piccolo appartamento nel centro di Roma insieme alla fidanzata Irene Marzi, campionessa di mountain bike. I due condividono il poco spazio disponibile di quello che definiscono “il Laboratorio” con il diciottenne Lorenzo Piccoli, un ragazzo dalla famiglia disagiata che
Peter ha accolto e adottato come un fratello minore.

Le giornate passano spensierate per questi ragazzi che testano con disinvoltura le loro capacità informatiche intraprendendo tutta una serie di attività non proprio lecite, e quando Peter riceve l’invito da parte di un collega inglese a partecipare a un gioco on-line segreto e destinato solo ai più grandi hacker del panorama internazionale, non ci pensa due volte ad accettare la sfida.

Lazarus inizia così ad affrontare una serie di prove virtuali sempre più complicate ed accattivanti, superate le quali potrà avere accesso al gioco vero e proprio.

Dalla sua sala blindata, circondato da agenti ed esperti d’informatica, un baffuto scozzese segue la vicenda con attenzione. Un uomo freddo, distaccato, che svolge il suo compito come da un piedistallo, convinto che gli altri siano tutti esseri inferiori.

LAMBERTO STEFANELLI
È autore per il teatro di numerosi spettacoli portati sulle scene di tutta Italia da più compagnie. Ha scritto romanzi, racconti brevi, soggetti e sceneggiature cinematografiche. Tratti da alcuni suoi racconti, sono stati realizzati cortometraggi e videoclip vincitori di premi e concorsi. Autore anche in campo musicale, ha composto brani pop per artisti di chiara fama, colonne sonore per documentari e film, e alcuni musical, tra cui ricordiamo “Sess’A Pil” per la regia di Massimo Cinque e “Cleopatra – Il Musical” diretto da Claudio Insegno. Attivo a 360° nel mondo dello spettacolo, è fondatore e titolare di una stimata società di produzione e servizi per lo spettacolo che opera in campo nazionale ed internazionale.
LinguaItaliano
Data di uscita9 dic 2020
ISBN9791220234795
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    Anteprima del libro

    Lazarus - Lamberto Stefanelli

    futuro.

    ROMA

    Peter si precipitò istintivamente in bagno, gettò lo zainetto fuori dalla finestra e si arrampicò per uscire da quella trappola per topi. Altre raffiche raggiunsero il portone, che pareva reggere. Quando fu completamente fuori dalla finestra, sentì un tonfo sordo provenire dal portoncino, una strana puzza di bruciato come dei petardi di capodanno, e voci che gridavano all’impazzata. Appena in piedi nel cortile prese a correre dietro a Irene e Lorenzo.

    I tre correvano come matti cercando di mettere più distanza possibile tra loro e gli inseguitori. Appena usciti dal cortile, che per loro fortuna dava sul lato opposto al portoncino d’ingresso del Laboratorio, avevano imboccato una stretta viuzza a senso unico, consapevoli che presto si sarebbero trovati addosso agenti armati fino ai denti. Una signora anziana stava caricando nel bagagliaio posteriore di una piccola Renault Twingo la spesa appena fatta. Peter non ci pensò due volte. Si avvicinò alla signora, che da principio pensò all’aiuto galante di un giovanotto beneducato, scese le borse della spesa sul marciapiede, si fece consegnare le chiavi e si mise al posto di guida.

    1

    ROMA

    18 settembre, alcuni giorni prima

    La ragazza scese le scale a rotta di collo, saltando gli scalini due a due, tranne un balzo per gli ultimi tre. La coda dei dreadlock gli ballonzolava a destra e sinistra schiaffeggiandole le spalle, ma era quasi un massaggio cui era abituata. Si stuzzicava con i denti e la lingua il piercing sul lato sinistro del labbro inferiore, chiedendosi come sempre cosa sarebbe successo se fosse caduta una volta inforcata la bici. Si sarebbe strappata le labbra? Avrebbe perso il piercing? No. Semplicemente non sarebbe caduta. Era una campionessa di mountain bike, categoria Cross Country, e non sarebbe caduta quel giorno come non era caduta negli ultimi cinquemila chilometri percorsi tra allenamenti e gare. Arrivata al piano terra, salì al volo sulla bicicletta, una mountain bike Cannondale molto simile a quella con cui gareggiava, se non fosse per gli accessori, i pedali normali e il gruppo cambio meno professionale, e si gettò nel traffico di Roma. Era da poco passato mezzogiorno e nonostante fosse metà settembre la città eterna era come sempre congestionata dal traffico e soprattutto calda, tremendamente calda. Percorse il lungotevere Flaminio e raggiunse un incrocio appoggiandosi con la spalla destra a un furgone fermo al semaforo, senza togliere i piedi dai pedali. L’autista del vecchio e provato Ford Transit color celeste e ruggine si affacciò lanciandole un’occhiata di traverso, ma il bianchissimo e radioso sorriso, e soprattutto gli occhioni blu della bella ventenne, lo fecero sciogliere in un altrettanto sfavillante sorriso, solo di qualche sfumatura di beige molto più vicina al marrone che al bianco. L’idraulico alla guida usò accortezza: al verde fece prima sganciare la ragazza per poi partire con delicatezza per non farla cadere. In pochi secondi la ciclista era al centro dell’incrocio, il Transit tossiva spasmi di fumo azzurrognolo nel vano tentativo di prendere giri, mentre il suo autista era convinto di essersi meritato la vista di quel culo ben fatto di una ragazza sui pedali. Le belle gambe tornite e lucide di Irene Marzi ruotavano rapidamente nel frusciare dei pantaloncini color kaki più adatti ad una passeggiata in montagna che a un giro in bicicletta. Alle caviglie erano scese fino ad appoggiarsi alle scarpe da trekking delle ginocchiere imbottite nere, che Irene usava in gara per evitare danni alle rotule e che ormai, insieme ad una camiciola a fiori e ai già citati pantaloncini kaki, facevano parte del suo abbigliamento quotidiano. Era perennemente vestita uguale, tanto che gli amici pensavano che avesse solo un cambio di abiti. In realtà aveva più paia di pantaloncini uguali ed altrettante camicie: non era un vezzo, solo che quando trovava qualcosa che le andava bene ne comprava a profusione, non era certo una di quelle ragazze capricciose che passano pomeriggi a provare abiti. Raggiunse l’angolo con via Giulio Romano, svoltò a destra sorpassando la sede dell’Inps e in pochi minuti arrivò a casa di Peter.

    Ad essere onesti, il seminterrato di Peter Rossi Hughes si poteva definire in tanti modi, ma non era una vera e propria casa, o meglio, non lo era più. Quel bilocale di 40 metri quadri era uno degli immobili che l’italo inglese aveva ereditato dal padre, un funzionario del Consolato britannico a Roma che nella città dei Cesari aveva conosciuto la madre di Peter ventidue anni prima. Da quella strana unione tra un funzionario amministrativo e una ragazzotta di Porta Portese era nato Peter, un bel giovane dai lineamenti inglesi, pelle chiara, barbetta rada e bionda come i capelli, lunghi e sempre arruffati. Peter aveva concluso con molta difficoltà gli studi liceali, non perché non fosse portato allo studio, ma in quanto giovane estroverso e incline a farsi una propria istruzione sul campo. Già a tredici anni era un mago dei computer che montava, smontava, assemblava e aggiornava per gli amici di scuola. A 19 anni, concluso il liceo, si era praticamente chiuso in quel bilocale per dedicarsi alla sua passione lasciando fuori da quelle mura, come diceva lui, il mondo irreale per immergersi in quello sempre da lui definito reale, quello dei social, delle chat, delle room e dei blog per nerd e geni dell’informatica. I suoi amici di infanzia erano pronti a giurare che nel corso della sua vita Peter non avesse mai aperto il libretto di istruzioni di un qualsiasi apparecchio elettrico o elettronico, né seguito corsi di informatica o altro. Era un genio puro, e lui sosteneva di riconoscere in ogni software uno schema ben preciso, semplice, individuabile. Sin dall’interfaccia grafica Peter sapeva distinguere la funzionalità di un programma, i suoi eventuali difetti o bug, e qualora qualcosa non gli fosse stata chiara nelle prime una, due ore di utilizzo, era sicuro che quel particolare programma non avrebbe avuto vita facile sul mercato. Molti dei suoi amici gli chiedevano spesso di apportare migliorie e modifiche ai software originali in loro possesso, modifiche che le case madri avrebbero magari fatto, ma solo nei mesi o negli anni successivi, e probabilmente al costo di un aggiornamento da scaricare. Era un ragazzo che viveva la sua vita senza sfumature, per lui tutto e tutti si dividevano in bianco e nero, buoni e cattivi, un codice binario come l’uno e lo zero. Peter Rossi Hughes era un fenomeno per cui le multinazionali di informatica si sarebbero battute con contratti da nababbo. Ma lui era un uomo della controcultura: aveva deciso di schierarsi dall’altra parte, e come spesso accade, se quelli bravi non sono tuoi amici, corri il rischio che diventino i tuoi più acerrimi nemici. Per loro fortuna, delle aziende di informatica intendiamo, Peter era attratto dal mondo sommerso degli hacker, del free–sharing e non aveva niente a che fare con i cracker i pirati informatici che hanno spesso come obiettivo la violazione e il danneggiamento di sistemi.

    Irene appoggiò la bicicletta alla ringhiera del palazzo, passò la pesante catena rivestita in gomma verde tra il telaio e la ruota anteriore e la legò all’inferriata. Scese i tre gradini che portavano al portoncino rivestito in legno dell’appartamento–studio del fidanzato, e senza bussare si gettò al suo interno usando la chiave che teneva attaccata con un moschettone a un passante della cintura dei pantaloncini.

    – Ciao Pit, Ciao Spy! – disse togliendosi dalle spalle un piccolo zainetto in tela dello stesso colore dei pantaloncini.

    Pit stava naturalmente per Peter, mentre Spy era il diminutivo del soprannome con cui veniva chiamato Lorenzo Piccoli, ovvero Speedy. Lorenzo era un ragazzino minuto e silenzioso che passava buona parte delle sue giornate da diciottenne nel Laboratorio di Peter. Ah già, il Laboratorio… così chiamavano quello strano piccolo appartamento. Il bilocale di Peter era un vero disastro, disseminato dovunque di pezzi e scheletri di computer, pile di CD–rom e dvd, almeno mezza dozzina di monitor e computer accesi. Ogni piccolo spazio era occupato da qualcosa, ogni ripiano era stracolmo di materiale da non dover gettare perché prima o poi utile, e anche il davanzale della piccola finestra del bagno che dava su un cortile privato custodiva cavi, cavetti e pen–drive Usb. Le sei pareti del parallelepipedo che rappresentavano la stanza principale erano tutte ingombre di materiale e, per mancanza di spazio, non sapendo dove appendere i manifesti di film che gli metteva da parte l’amico gestore di un multisala, Peter e Lorenzo li avevano incollati sul soffitto basso, cosa che contribuiva a rendere l’ambiente ancor più claustrofobico. Ecco che sopra il divano Hulk e una moltitudine di supereroi Marvel sembravano sbirciare chiunque vi si sedesse a leggere. Una presenza a dir poco inquietante. Speedy condivideva con una pila di riviste di computer ed elettronica il poco spazio rimasto libero sul divano in stoffa beige che adornava la stanzetta più grande del bilocale, e che era letteralmente intriso di odore di fumo, macchie di Coca Cola e salse varie, provenienti da Mac–panini addentati quotidianamente dai frequentatori di quel Laboratorio clandestino. Sì, perché si trattava di un vero e proprio Laboratorio clandestino. Peter aveva iniziato un paio di anni prima a sfruttare le sue capacità e presto si era fatto un nome nel mondo degli hacker, e non solo romani. Si rivolgevano a lui per assemblare computer nuovi, per installare programmi crackati, per formattare la memoria di Pc rubati, o sbloccare iPhone e Mac provenienti da… meglio non sapere dove.

    – Ciao Ire – disse Speedy alzando la mano destra, mentre con la sinistra si aggiustava prima gli occhiali sul naso, occhiali spessi e pesantissimi per un ragazzo così giovane, indice di profonde complicazioni con la vista, per poi passare la mano sulla frangetta nero corvina che gli ricopriva quasi completamente la faccia, una faccia che sembrava uno dei cartoon dei gruppo musicale Gorillaz. Un vero e proprio emo fuori moda. Lorenzo Piccoli proveniva da una famiglia disagiata. Il padre entrava e usciva di galera per piccoli furti o reati minori, la madre lavorava saltuariamente presso varie imprese di pulizie per mantenersi l’eroina, e gli assistenti sociali avevano tenuto d’occhio quella complicata famiglia e il piccolo Lorenzo fino al maggio precedente, quando con la maggiore età non avevano più giurisdizione ad operare con quello che la società ormai considerava un adulto. Speedy era un ragazzo solare, nonostante un atteggiamento cupo e taciturno. Passava molte ore al giorno in quel tugurio, e molto spesso ci dormiva anche, sempre sul famoso divano, quando la madre rientrava a casa con un occasionale con il quale non avrebbe usato particolari attenzioni nelle effusioni notturne. Peter teneva con sé Lorenzo per piccole commissioni, tipo andare al Mac per un panino, o fare un salto in ferramenta per prendere un po’ di stagno per saldare. E poi adoperava la sua carta Postamat per gli ordini di pezzi di ricambio su Amazon: da buon hacker paranoico Peter sapeva che era meglio usare le credenziali di altri.

    Irene aveva appoggiato lo zainetto sulla pila di riviste sedute accanto a Speedy, e ne stava estraendo tre Big Mac, due lattine di Coca Cola e un paio di bottigliette da mezzo litro di Seven Up, la bibita preferita da Peter.

    – Ciao amò – disse schioccando un bacio sulla guancia lanuginosa di Peter.

    – Ciao amò – replicò lo stesso con quello che sembrava un saluto rituale. Il ragazzo era affossato su un Pc al quale stava dando il comando duplica che sarebbe arrivato in un paio di millisecondi ad una colonna di cinque masterizzatori. Avrebbe così realizzato 5 copie di DVD contenenti programmi di editing audio, video e relativi plug–ins che sul mercato degli originali avrebbero avuto un valore di alcune migliaia di euro. Qui potevi comprarti il DVD con il suo contenuto arricchito dai relativi crack per dieci euro. Peter non li avrebbe venduti direttamente, ma dati a un paio di pusher in zona Stazione Termini per otto euro al pezzo, e la consegna l’avrebbe fatta Speedy quel pomeriggio stesso di metà settembre.

    – Ho portato i Big e le bibite – continuò la bella Irene. La ragazza aveva dei lineamenti veramente gentili e un corpo statuario con spalle ossute ma robuste. Un bel telaio, uno di quei fisici sui quali dreadlock e tatuaggi aggiungono bellezza anziché toglierla, e poco importa se invece di Love e di immancabili farfalline, i tatuaggi sugli stinchi della ragazza citavano Shimano o riproducevano la corona dentata di una mountain bike.

    Peter premette invio, si accertò che i led delle cinque macchine impilate iniziassero a lampeggiare, e finalmente si voltò per contraccambiare il bacio alla fidanzata.

    – Vieni qua! – le disse avvinghiandole la vita in un abbraccio caloroso, pur rimanendo rannicchiato su di un piccolo sgabello basso.

    La ragazza ricambiò l’abbraccio, mentre l’indifferenza di Speedy dimostrava che doveva essere abituato a quel tipo di effusioni.

    – Oggi dovrebbe venire Omar per quelle Play. – disse ancora Irene, iniziando ad attorcigliare i capelli del fidanzato intorno all’indice. Lo disse quasi in apnea, come se il bacio le avesse tolto il respiro. O come se quello che aveva appena detto, le fosse costato più fatica del necessario.

    Sul volto di Peter apparve un’espressione contrariata.

    – Amore, lo sai che non lo faccio volentieri, non mi piace quel ragazzo.

    – Lo so, ma sono le ultime. Gli ho detto che da fine mese non le farai più perché è difficile trovare i chip e non vuoi perderci tempo.

    In effetti era vero. Un apposito chip saldato sulla scheda madre delle Playstation permetteva alle stesse di leggere DVD copiati, alimentando a loro volta il mercato dei giochi non originali. Un gioco originale Sony poteva costare dai cinquanta ai cento euro e oltre. Con quella piccola modifica la macchina riusciva a leggere anche DVD copiati, che realizzava naturalmente lo stesso Peter per dieci euro o poco più a pezzo a seconda del gioco. Ma Omar non era un cliente affidabile. Aveva chiesto più volte a Peter di crackargli dei telecomandi per auto, o ideare uno strumento ad infrarossi per poter disinnescare antifurti casalinghi. Peter si era sempre rifiutato, e temeva che le attività illecite di Omar avrebbero prima o poi condotto la pula fino a lui. Non che le sue attività fossero lecite, ma di sicuro meno gravi di rapine e furti, e ne faceva una questione di etica. Gli hacker danno dei limiti ben definiti alle proprie attività che ritengono etiche da quelle che secondo loro non lo sono. No, non avrebbe fatto altro per quel marocchino. Come Omar, decine di altri clienti più o meno in contatto con l’illegalità adulavano Peter Rossi Hughes per le sue capacità con i computer e con tutto quello che era elettronico. Solo il mese prima Pit aveva rimappato la centralina della Porsche Cayman di un ragazzotto della Roma bene, dandole una quantità di cavalli in più sufficienti a fargli fare bella figura ai semafori contro i bolidi di altrettanto annoiati ragazzotti figli di papà. Aveva poi ideato e realizzato un lettore di card con il quale clonava tessere di Sky, e un programma che lanciato dal proprio Pc dava l’accesso a tutti i contenuti di Netflix, ovviamente senza pagare nulla. Li vendeva a cinquanta euro: una pennetta USB che conteneva un programma e una cartella con il crack che si chiamava LAZARUS, il suo alter ego nel mondo degli hacker. Questo nomignolo gli era stato affibbiato circa sei anni prima, a causa di uno spaventoso incidente occorsogli in Francia. Spinto dalla passione del padre per le moto, il ragazzo era diventato una giovane promessa del motocross e quell’anno correva per il campionato europeo in sella ad una Honda Crf 250. Durante il secondo giro sulla pista di Saint Jean d'Angely, nella Francia dell’Ovest, Peter stava già combattendo per il terzo posto in una gara valida per il campionato, quando un doppio salto preso male lo fece atterrare in pieno su di un dosso. Il contraccolpo fu tale da provocargli un trauma toracico, il suo cuore aveva smesso di battere per quasi un minuto prima di venire rianimato sul posto da una squadra di emergenza. Nei giorni successivi il piccolo campione si era ripreso rapidamente, tanto che i medici francesi avevano esclamato Lazare s’est levé et a marché! il giorno che era riuscito a rimettersi in piedi. Lazzaro si alzò e camminò! come dicevano i Vangeli. In effetti per tutti era stato un miracolo, l’incidente era stato ripreso dalle telecamere e messo in onda in tutto il mondo e nessuno avrebbe scommesso su una ripresa tanto rapida del giovane. Dopo quei primi passi in realtà la riabilitazione fu lunga e Peter perse le gare successive e i contatti con la classifica. Aveva appena 16 anni e tutto il tempo per recuperare, ma nel padre il meccanismo della passione si era rotto in favore dello spirito di conservazione, e così come aveva spinto Peter ad iniziare il motocross due anni prima, Leroy Hughes lo aveva indotto a smettere. Peccato. Nei mesi di convalescenza trascorsi tra il letto e il divano di casa Pit decise di approfondire le sue conoscenze nel mondo dell’informatica e da quel giorno adottò il nickname di Lazarus.

    Irene aveva fatto il giro della stanza scavalcando pile di computer e parti di questi, e allungò un Big Mac a Speedy, il quale ringraziò alzando di poco il muso da sotto la frangia nera. Finalmente Peter si alzò dalla sua postazione, che altro non era che uno sgabello Eifred dell’Ikea, uno di quelli senza schienale ma con il supporto per le ginocchia. In piedi Pit dimostrava qualcosa di più dei suoi 180 cm di altezza, impressione data dal soffitto molto basso del Laboratorio. Era un ragazzo piuttosto magro con muscoli non enormi ma ben definiti, di quelli cui è facile ipotizzare un bel pacco di addominali scolpiti. I capelli castani ondulati e lunghi che tanto lo facevano assomigliare ad una star del glam rock anni ’80, incorniciavano un bel viso su cui due guizzanti occhi azzurri spiccavano per bellezza e luminosità attirando l’attenzione di chiunque incrociasse il suo sguardo. Alzandosi dallo sgabello mise in mostra una t-shirt bianca sulla quale era disegnato un omino nell’intento di abbassare una leva elettrica di una sorta di computer primordiale. La scritta sotto al disegno Homebrew Computer Club indicava quel club di hobbisti del computer dell’area della Silicon Valley in California del quale avevano fatto parte anche Steve Jobs e Steve Wozniak nel 1975. Era un cimelio: più volte Peter aveva detto agli amici che si trattava di una t-shirt originale donatagli da Pedroz, un collega hacker di Barcellona con il quale spesso si scambiava programmi, crack e stringhe di programmazione. Pedroz, di cui né Peter né altri conoscevano il vero nome, gli aveva fatto recapitare la maglia presso il bar dell’angolo, semplicemente indicando sulla busta Lazarus, come riconoscenza per un codice grazie al quale era stato capace di liberare un pacchetto di plug di un software per fotografi, cosa che gli avrebbe fatto guadagnare migliaia di euro. Lo stesso Pedroz ignorava l’identità di Lazarus, quello degli hacker è un mondo di nomignoli e pseudonimi i cui migliori al mondo si contano sulle dita di due mani.

    E Pit era uno di quelli.

    – Vieni qua campionessa! – disse a Irene tirandola a sé nel tentativo di abbracciarla. Sovrastava la ragazza di pochi centimetri, Irene passava agilmente il metro e settanta. Fu un bacio appassionato, di quelli che ti aspetti da due innamorati che non si vedono da mesi. Ma doveva essere autentico e soprattutto usuale, dal momento che i due si erano separati non più di mezz’ora prima e che Speedy di nuovo non aveva mosso un muscolo.

    – Sono passata da casa dei miei. – disse lei – Ti ho preso un tubetto di dentifricio e i cotton fiock. Però lo sai…

    Il ragazzo si scostò dalla fidanzata con un’aria annoiata. Stava per udire la solita solfa e naturalmente la cosa non gli sarebbe piaciuta.

    – Dovresti uscire da questo buco, Pit. È quasi una settimana che non esci a fare due passi.

    – Devo finire delle cose, lo sai.

    – Sì, ma non appena avrai finito queste cose ce ne saranno altre da fare. Non dico tanto, ma almeno due passi facciamoceli, una mezz’ora.

    – Ok, ok – disse lui abbassando le mani in segno di resa – Domani usciremo a fare un giro.

    – Ma perché domani, usciamo stasera, no?

    – Devo finire quella stringa entro stanotte, lo sai. Domani mi libero e ce ne andiamo a prendere un gelato.

    Che per la routine di Peter, era come prendersi tre settimane di ferie per andare in Patagonia a inseguire pinguini a piedi.

    – Va bene, la prendo per buona – disse la ragazza – E non ti scordare che i primi di ottobre ho quella gara a Belluno, e che vorrei tu venissi con me.

    – Pit posso stasera? – disse all’improvviso e senza alcun titolo in quella conversazione Lorenzo, sventolando in aria il suo cellulare.

    – Mia madre mi ha mandato un messaggio, dice che stasera sta da amiche…

    – Certo che puoi – disse con

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