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Il nostro piccolo pazzo condominio
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E-book298 pagine4 ore

Il nostro piccolo pazzo condominio

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Info su questo ebook

La nuova sorprendente voce della narrativa inglese

Questa non è la Parigi che tutti conoscono…

Edward arriva a Parigi in una caldissima giornata di giugno, ancora sconvolto per la morte di sua sorella. Per ritrovare un po’ di serenità, sta per trasferirsi nell’appartamento vuoto di un’amica, al numero 37 di una strada anonima. La Parigi in cui si trova immerso non è quella che credeva di conoscere: niente boulevard e luci romantiche, ma il palazzo dove arriva pulsa dei segreti dei suoi inquilini. Tra le sue mura, c’è chi parla, chi si bacia, chi ride e chi piange; alcuni sono contenti di starsene da soli, mentre altri vorrebbero una compagnia. La donna dai capelli color argento gestisce una bizzarra libreria al piano terra, un vecchietto, tutti i giorni, dà da mangiare ai passeri sul davanzale della finestra, mentre una giovane madre è sull’orlo di un crollo nervoso. Anche se le pareti dei loro appartamenti si toccano, gli inquilini stanno ben attenti a rimanere dei perfetti estranei. Ben prima che se ne accorga, Edward si trova impigliato in questa rete di straordinaria umanità che sempre più lo avvinghia a sé, facendogli risvegliare sensazioni che pensava sopite…

Un romanzo irresistibile

Dietro ogni porta c’è una storia da scoprire

«Fran Cooper è abile nel descrivere i numerosi e bizzarri personaggi le cui storie sono intrecciate con grande maestria.»
Fanny Blake, Daily Mail

«Ti apre il cuore e la mente. Certamente l’ha fatto con me.»
The Pool

«I personaggi rendono indimenticabile questo romanzo.»
The Herald
Fran Cooper
È cresciuta a Londra, ha studiato Inglese a Cambridge e Storia dell’Arte al Courtauld Institute of Art. Ha trascorso tre anni a Parigi per scrivere la sua tesi di dottorato sugli artisti del XVIII secolo, e attualmente lavora in un museo di Londra. Il nostro piccolo pazzo condominio è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita18 gen 2018
ISBN9788822718433
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    Anteprima del libro

    Il nostro piccolo pazzo condominio - Fran Cooper

    1819

    Titolo originale: These Dividing Walls

    Copyright © Fran Cooper, 2017

    The right of Fran Cooper to be identified as the Author of the Work

    has been asserted by her in accordance with the Copyright,

    Design and Patent Act 1988.

    All rights reserved

    First published in Great Britain in 2017 by Hodder & Stoughton

    An Hachette UK Company

    Traduzione dall’inglese di Mara Gini

    Prima edizione ebook: febbraio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1843-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Cooper Fran

    Il nostro piccolo

    pazzo condominio

    Per Anne, una cara amica.

    E per Alex, sempre.

    Indice

    Prologo. L’edificio

    1

    2

    3

    4

    5

    6

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    39

    40

    41

    42

    43

    Epilogo. L’edificio

    Ringraziamenti

    Prologo

    L’edificio

    In fondo alla Rive Gauche si trova un quartiere segreto. Al di là dei declivi illuminati al neon di Montparnasse, i sinuosi acciottolati del quinto arrondissement, si estende un dedalo di strade tranquille in mezzo ai boulevard. Qui il traffico è limitato.

    Il numero 37 si trova all’incrocio di due strade in quest’angolo remoto della città. Somiglia molto agli edifici circostanti – tardo Diciannovesimo secolo, pietra chiara. Se non fosse per il portone turchese all’ingresso, potrebbe tranquillamente passare inosservato.

    Nelle notti estive i suoi residenti tornano a casa al calar del sole. Le luci si accendono, le porte si aprono; si prepara la cena e si mettono a letto i neonati. L’odore di aglio messo a soffriggere in padella invade il cortile, insieme ai pianti dei bambini e a frammenti di conversazioni trasportate dalla brezza.

    Dietro queste mura le persone si baciano, parlano, ridono; qualcuno forse piange. Alcuni sono contenti di starsene da soli. Altri, invece, vorrebbero non esserlo.

    Quando cala l’oscurità, le luci si spengono gradualmente. In notti calde e senza vento come queste, i residenti del numero 37 giacciono nei loro letti, ascoltando il respiro del proprio vicino. La vita scorre tra il raschiare del piatto di un estraneo, lo squillo di un telefono, i grugniti durante il sesso (e altre funzioni corporee), finché non cala nuovamente il silenzio.

    L’edificio al numero 37 ha le sue storie; in questo senso è come tutti gli altri, perché quale edificio non cela dei segreti? Chi sa davvero cosa accade dietro la porta del proprio vicino?

    1

    Edward si sveglia urlando, con i polmoni paralizzati dal panico, sbattendo i palmi delle mani contro la parete e tirando a sé i piedi sul materasso. Dove sono? Il cuore gli rimbomba nella bocca spalancata e non capisce se sta ancora gridando. Agita le braccia davanti a sé nel buio – Una luce, dev’esserci una luce da qualche parte – ma trova solo un bicchiere d’acqua, che urta con il gomito. Per un istante il bicchiere resta sospeso per aria, prima che si sentano il tonfo e il rumore del vetro in frantumi e del contenuto rovesciato, e quando alla fine le sue dita addormentate dal sonno riescono a localizzare l’interruttore, il tappeto è costellato di schegge dal bagliore minaccioso.

    Gli oggetti acquistano lentamente una forma, una pozza di luce arancione inghiotte le ombre. Si trova a letto, in una stanza, nella soffitta di un edificio. Al di sotto del profilo obliquo del tetto riesce a distinguere una scrivania, la sagoma del suo zaino, uno specchio che riflette una macchia confusa di luce. La finestra è aperta – sbatte contro il muro – e le tende chiare vengono risucchiate dentro e fuori dal vento, protendendosi nella stanza come lunghe dita spettrali.

    Evitando il vetro, Edward si fa strada in quell’ambiente sulle gambe malferme. Ha le mani sudate e lotta con la corda sgangherata che è stata usata, probabilmente da anni, per tenere aperta la finestra. Si è slegata mentre dormiva. Questi piccoli inconvenienti portano con sé un senso di calma, di concentrazione. L’aria che fischia tra i tetti è fresca, il nodo allo stomaco si sta sciogliendo e mentre finisce di sistemare la finestra si ricorda che è stato un incubo a terrorizzarlo e che si trova a Parigi, nell’appartamento di Emilie.

    Appartamento. Si guarda intorno; la stanza è più piccola di quanto gli avesse dato a intendere l’amica. Un letto singolo in un angolo, la cucina in un altro, con il fornello elettrico a soli sei passi in diagonale dal cuscino con disegnato sopra un pagliaccio. Le labbra di Edward guizzano in riposta allo sguardo lascivo del viso sul tessuto. Tipico di Emilie, quel caos di lenzuola infantili e cartacce sparpagliate in giro. La parete accanto al letto si agita, mossa dalla brezza notturna: motivi, cartoline, disegni pinzati insieme come ali di farfalla.

    Edward torna verso il letto e raduna i pezzi di vetro in un posacenere. Il vento si è placato leggermente, è più un refolo che un ululato e scompiglia la parete di carta, bisbiglia sopra le lenzuola. Ha ancora il fiato corto. Manca poco alle quattro, secondo l’orologio, ma ha troppa adrenalina in circolo per pensare di riaddormentarsi. È preda degli spasmi che seguono la paura – l’improvvisa consapevolezza di ogni cellula, dello scorrere microscopico del sangue in ogni capillare.

    Il terrore notturno è appollaiato sulla sua spalla, appena oltre il suo campo visivo: un uccello nero che gli zampetta sulle clavicole. L’immagine è sempre la stessa: il viso sorridente di sua sorella, l’istante prima dell’impatto dell’auto, che si dilata in eterno, mentre lui è paralizzato, non riesce a muoversi, non riesce a parlare, non riesce a dirle di fermarsi…

    Il vetro tentenna tra le sue dita, mentre le mani gli riprendono a tremare. Tende l’orecchio, ma non gli giunge alcun suono dai vicini. Detesta il pensiero che qualcuno possa averlo sentito urlare.

    Aprendo il cestino in cucina viene assalito dai caldi effluvi della decomposizione: frutta marcia, sigarette, il nauseabondo odore di stantio della birra che ha trascorso calde giornate in fondo a vecchie bottiglie. Anche questo è tipico di Emilie. Appena arrivato, aveva rimosso le pile di biancheria sporca dalla sua mente – ficcandole nell’armadio; aveva cercato di non pensare alle mutandine di pizzo appallottolate accanto al letto o a quanto fossero ruvide sotto i piedi. Ma non aveva controllato la pattumiera e nelle tenebre che precedono l’alba il puzzo dolciastro di putrefazione gli fa torcere lo stomaco.

    Si infila jeans, scarpe da ginnastica, la maglietta del giorno prima. Lo avvolgono otto ore di viaggio in autobus e il sudore accumulato sul ponte durante la traversata della Manica, ma è sempre meglio del cestino del pattume, che chiude e porta fuori dalla stanza tenendolo a un braccio di distanza.

    Sono le quattro del mattino e Edward sta in piedi di fronte al suo nuovo edificio, in una nuova città, respirando l’umidità estiva a pieni polmoni. Non sa ancora dove si trovino i cassonetti, così ha lasciato il sacchetto dell’immondizia sulla strada deserta. In giro non c’è nessuno, solo file di edifici fiancheggiati dalle auto parcheggiate.

    Ripensa alla conversazione con Emilie, mentre stava a piedi nudi nell’erba folta, con il profumo di fieno nelle narici e il polline che danzava nell’aria dorata.

    «Devo andarmene, Em».

    «Edward!». Il tono di quando è esasperata, in genere accompagnato dallo scatto di un polso pieno di braccialetti. Si era immaginato il tintinnio al telefono, metallo su metallo via metallo, il ricevitore di lei vicino al suo, guancia a guancia attraverso migliaia di chilometri di etere. «Usa l’appartamento. Ti prego. Non ci baderà nessuno, probabilmente mia zia nemmeno c’è, dirò alla gardienne di lasciarti entrare, o dovrebbe esserci qualche vecchio voisin con una chiave…».

    Edward non aveva idea di che cosa volessero dire quelle parole, ma alla luce del sole la sua voce squillante, la sua risata e la sicurezza con cui aveva descritto il tutto l’avevano stregato. Si era lasciato trascinare. E aveva accettato, e aveva comprato un biglietto; erano passati meno di tre giorni ed eccolo qui, in una strada di Parigi alle prime ore di un venerdì mattina.

    E non si tratta neppure della Parigi che lui conosceva. Non è un boulevard – non ci sono monumenti in zona. La sera prima, l’autobus l’aveva scaricato sul retro di un parcheggio dietro un centro commerciale. Adolescenti urlanti con gli zaini, una coppia di ebrei ortodossi e il loro bambino incredibilmente piccolo, un vecchio curvo con un bastone che aveva immediatamente preso la direzione opposta a tutti gli altri. Edward aveva seguito la folla farsi strada tra porte e corridoi anonimi fino alla metropolitana, dove aveva saltato il tornello come tutti quelli davanti a lui, proprio davanti alla guardia, che aveva gli occhi annebbiati e assenti, e poi era salito su un treno che aveva oltrepassato stazioni i cui nomi gli ricordavano qualcosa (Champs Elysés, Musée du Louvre), e poi altre i cui nomi non gli dicevano niente. Era uscito dalla metro su una strada invasa dalla folla di fine giornata, le indicazioni che si era segnato ormai sbavate sul suo palmo umidiccio, destreggiandosi tra anziane con i trolley per la spesa, ragazzini che sfrecciavano in scooter, fruttivendoli che gli agitavano in faccia sacchetti di ciliegie mature, con il succo color sangue che gocciolava per terra, mentre due uomini fuori da una macelleria lanciavano per strada il grasso del girarrosto, trasformando il terreno in un fiume di olio e schiuma. Tra donne procaci vestite da capo a piedi in tinte sgargianti, un adolescente in motocicletta sul marciapiede, con un amico in piedi sul sellino dietro di lui; ecco Edward, il ragazzo di campagna, sbigottito.

    Adesso, invece, le strade sono tranquille. Azzarda qualche passo, ma la luce del mattino se la prende comoda e l’inquietudine attanaglia il suo stomaco ancora provato.

    Sta voltando le spalle all’edificio, alla grande porta turchese che conduce al cortile, quando lo sente, è certo di sentirlo.

    «Edward!».

    Il suo nome, sussurrato in fretta, con urgenza, trasportato dall’aria lungo una strada deserta. Guarda ma non vede niente, sente solo il sangue che gli va al cervello. Sbatte la porta, attraversa il cortile e corre a perdifiato su per le cinque rampe di scale.

    Se l’adrenalina, che gli scorreva nelle vene per la seconda volta quella notte, gli avesse dilatato le pupille, permettendo ai suoi occhi di soffermarsi un po’ più a lungo su ciò che aveva attorno, forse avrebbe potuto scorgere la figura di un uomo addormentato davanti al portone dall’altro lato della strada. O sveglio, in effetti, visto che l’uomo stava fissando Edward con interesse. Questa strada di notte diventa il suo regno. Dal suo giaciglio si arrotola una vecchia sigaretta tra il pollice e l’indice, con gli occhi socchiusi alla luce del fiammifero, fissi sul punto in cui si era trovato il giovane.

    E se Edward potesse vedere all’interno degli appartamenti che oltrepassa salendo per le scale, saprebbe che non tutti i suoi vicini sono addormentati, nonostante l’ora tarda. Al primo piano, una donna di mezza età si fa aria con un ventaglio, movimenti svogliati che non tengono certo a bada il calore stantio della camera da letto. Il marito di Chantal non dormirà mai con le finestre aperte, così lei passa i lunghi minuti della notte al caldo, le gocce di sudore che le scivolano tra i seni, tirando occasionalmente dei calci al fagotto informe accanto a lei. «César, stai russando!».

    Al secondo piano i bambini stanno sognando. Allattato, appagato, un neonato si agita nella culla e nella sua cuccia si agita anche il cane, inseguendo gli scenari bizzarri ed elusivi del sonno. La madre dei bambini, Anaïs, è in piedi accanto alla finestra. Non riesce a dormire, le dita afferrano il davanzale con la vernice scrostata, mentre cerca di far scurire di nuovo il cielo e rimandare l’arrivo del mattino con la sola forza di volontà.

    Affannato, ansimante, Edward si arrampica su per le scale, superando il terzo piano, dove una mano addormentata scaccia una zanzara; e il quarto, dove vede la luce azzurrognola di un computer a una finestra aperta dall’altro lato del cortile. Una figura china in avanti sta battendo furiosamente sui tasti e, fermandosi per prendere fiato, Edward riesce quasi a sentire la percussione selvaggia delle dita sulla tastiera.

    Finalmente il quinto piano e Edward entra in camera, la schiena appoggiata alla porta. Fuori il cielo inchiostro sta assumendo sfumature blu e sopra i tetti più lontani stanno iniziando ad apparire macchie marroni. Chiude a chiave la porta, sforzandosi di non aprirla e richiuderla in modo compulsivo (bizzarra eredità materna da cui oggi non vuole lasciarsi dominare). Ritorna a letto, sotto le coperte con i pagliacci che, ora che ci pensa, hanno il profumo di Emilie. Si gira, seppellisce la testa nel cuscino con insolita forza, cercando di dormire, cercando di non pensare alla sua amica e alla notte che hanno passato insieme, la notte in cui le uniche parti che si urtavano erano quelle inutili – una lunga percussione di nasi e denti.

    Le guance di Edward bruciano come il sole, che ora sta sorgendo in tutta la sua gloria, colorando il mondo di rosso. Quando alla fine scivola nel sonno, si lascia cullare dal suono delle persiane che si aprono al piano di sotto, delle auto che si mettono in moto e dell’edificio che si sveglia per iniziare una nuova giornata.

    2

    Frédérique si sveglia con il sole. Penitenza, pensa, mentre attende davanti al fornello che si accenda la fiamma. Tutte quelle mattine in gioventù passate a dormire, tutta quella luce del sole sprecata.

    Alza la tapparella dell’appartamento mentre il caffè bolle, con la caffettiera che borbotta. Il salon, con i suoi tessuti pesanti e i mobili ingombranti, non le è mai piaciuto. Preferisce bere il caffè a un piccolo tavolino chiazzato in cucina, tamburellando i piedi scalzi sul pavimento piastrellato a tempo con la radio.

    Anche Mischa, la gatta, sta ballando, strofinandosi contro le sue caviglie e le gambe delle sedie. Le sue fusa non sono particolarmente intonate o a ritmo, però, e ben presto la sua padrona si alza per prendere la panna dal frigo. E anche se Frédérique beve il caffè nero, certe mattine (come questa) si concede una spruzzata di panna avanzata, ruotando il liquido denso nella tazza mentre la gatta lappa felice in un angolo.

    In queste mattine di mezza estate si tempra scivolando sotto il getto gelido della doccia, stringendo i denti per il dolore e il piacere. Sulla porta, la gatta si lecca con attenzione le zampe, tenendosi a debita distanza dalle goccioline che volano per la stanza. Frédérique lascia sciolti i lunghi capelli, più argentei che dorati ormai, e copre le rughe intorno agli occhi azzurri con il fondotinta, con rassegnata familiarità.

    Si veste. L’atto di aprire l’armadio in legno di quercia, ogni mattina, la riporta dritta all’infanzia: naftalina, polvere, il rumore delle grucce appese alla barra metallica, anche se le sue camicie bianche larghe non reggono il confronto con i vestiti della madre; lo stillicidio dei ricami, l’untuosità delle pellicce.

    Non correndo il rischio di bagnarsi, la gatta riprende a strusciarsi contro le gambe di Frédérique, girandosi sulla schiena per mostrarle la pancia nel modo più invitante.

    Allacciandosi una collana d’ambra al collo, Frédérique mormora: «Non ora, Misch».

    C’è ancora così tanto da fare e sta già iniziando a fare caldo.

    Uscendo dalla porta turchese che dà sulla strada, Frédérique tende il collo per scrutare il cielo. È splendido, sconfinato e azzurro. Il sole non ha ancora raggiunto l’asfalto, ma la città sta già pulsando per il suo effetto. Un’altra giornata afosa.

    Dall’altro lato della strada, l’uomo che aveva osservato Edward siede davanti al portone e fischietta. Ha ripiegato il suo giaciglio, riponendolo accuratamente nel trolley su cui ha impilato i suoi averi. Indossa un paio di calzoncini e una camicia pulita. Si sta legando i lacci delle scarpe, canticchiando tra sé e sé una melodia che non riesce a ricordare interamente.

    Alza la mano. «Frédérique».

    Lei ricambia il gesto. «Josef».

    È il loro rituale mattutino.

    Si incammina lungo la strada, i sandali che tamburellano a tempo con la melodia fischiettata dall’uomo. Josef la guarda con i suoi occhi un po’ strabici. Si volta a riporre il kit per la rasatura; un graffio sulla guancia tradisce il recente passaggio della lama.

    Frédérique prosegue fino alla tabaccheria, dove si unisce alla coda per comprare le sigarette. Nicotina: la grande livella. Persino a quest’ora (non sono nemmeno le sette del mattino), vi sono donne in completo, uomini con tute macchiate di vernice, esili adolescenti vestiti tutti di nero, una signora anziana con i bigodini. File di gratta e vinci brillano alla luce del mattino e la tv sta già trasmettendo le notizie del giorno e le corse dei cavalli pomeridiane. Con pazienza la coda avanza di pochi centimetri verso il bancone. Frédérique osserva goccioline di sudore formarsi sul collo taurino di fronte a lei.

    Fuori, sulla strada, si lascia inebriare dai primi profumi della giornata. Oggi, come in tanti altri giorni, scende lungo la via fino al bar del quartiere, dove Claude dai denti d’oro le ha già preparato un croissant e il giornale. In genere si siede al bancone e inizia la giornata con la fresca carezza dello zinco sulle braccia, ma stamattina nel locale non tira un filo d’aria; è pervaso dal puzzo stantio di birra e sudore, così si porta il giornale fuori e rivolge il viso al sole.

    Claude le porta la colazione, le braccia coperte da una costellazione di vecchi tatuaggi.

    «Terribile, vero?». Si raschia la gola e sputa nel canale di scolo.

    «Che cosa?».

    Claude fa un cenno al giornale. «Un’altra aggressione. A Bobigny».

    «Gesù».

    «Un ragazzino ebreo di tredici anni».

    Claude scrolla la testa e rientra. Non è un uomo di molte parole. Frédérique rivolge la sua attenzione al giornale. La prima pagina si occupa dell’ondata di caldo, con un titolo a caratteri cubitali sopra a una cartina della Francia color rosso acceso. Si parla come al solito di austerity – tasse, budget al collasso, un nuovo giro di tagli. Sepolto all’interno, in fondo a una pagina, legge l’articolo su Bobigny; poche righe che raccontano di un ragazzino picchiato sulla strada di casa, di ritorno da scuola, la cui unica colpa era di aver indossato la kippah. Lo stesso trafiletto le comunica che c’è stato un altro attacco a una moschea nei dintorni di Lione, che un senzatetto è stato ridotto in fin di vita da un pestaggio vicino a Châtelet, che l’estrema destra ha promesso nuove proteste.

    Anche se il sole le sta arroventando le spalle, Frédérique ha l’impressione di avere un nuvolone sopra la testa. Le adombra il viso, che si fa corrucciato; le fa contrarre lo stomaco. Sulla strada di casa non si ferma come al solito – nemmeno per il latte o il pane o per le succose fragole che Mo il fruttivendolo le tiene sempre da parte. Fa tintinnare le monete sul palmo della mano, caldo e appiccicoso, affrettando i passi lungo la strada silenziosa. Vuole parlare con Josef, ma quando arriva il suo trolley è già sparito.

    Frédérique non si sente addosso il suo quasi mezzo secolo. Arrampicandosi su per le scale, non riesce a credere che sono già passati quarant’anni da quando da bambina calpestava quelle assi di legno. Ne conosce ogni nodo consumato dal tempo, ogni frammento di intonaco scheggiato. Alcuni di quei graffi sono stati probabilmente causati dai suoi tacchi da ragazzina. Al ginocchio ha ancora la cicatrice di quando era inciampata e la piastrella rialzata del pavimento le aveva tagliato la carne. Era una giornata estiva, calda come questa, e aveva avvertito l’odore ferroso nell’aria polverosa, mentre il liquido scuro le colava lungo la calza bianca alta fino alla caviglia.

    Mischa è sdraiata a pancia all’aria sulla chaise longue, le quattro zampe pelose dritte come un fuso. Frédérique si siede accanto a lei e si accarezza distratta la vecchia ferita. Cinque punti, ormai sbiaditi in una macchia bianca sulla pelle. Dopo tutti quegli anni, la zona è ancora insensibile.

    È la stessa cosa che pensa dell’appartamento, della sua casa d’infanzia: un luogo dove i sentimenti sono lasciati alla porta. Così tanti anni trascorsi a cercare un’espansione, un orizzonte, uno spazio più grande della città, un mondo al di là delle formalità borghesi annidate tra queste pareti. E poi scoprire l’infinito nella vita: avere un figlio, perderlo, e sentire l’universo in tutta la sua immensità tra le proprie ossa. Sentirsi svuotata e desiderare ancora il piccolo letto di quand’era bambina, le pareti a motivi floreali, i mobili ingombranti e i ritratti cupi – tutte cose che in passato l’avevano soffocata con la loro intensità e che ora erano diventate un ammortizzatore contro il dolore; tessuto cicatriziale intorno al suo cuore.

    La gatta si gira e spinge il muso contro il viso di Frédérique – con gli occhi verdi rotondi e l’alito che sa di pesce.

    «Hai ragione, cara. Rimuginare non serve a nulla».

    E non lo fa. Qui ha conosciuto una tranquilla sensazione di appagamento. Ha la sua gatta, i suoi libri, la libreria che gestisce al piano terra. Anche se né gli orari, né i clienti né, purtroppo, i guadagni sono molto regolari, il ritmo sincopato delle sue

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