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E-book293 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Arianna è un'adolescente che si affaccia alla vita, con l'innocenza e l'ingenuità dei suoi quindici anni. Come la maggior parte dei coetanei, trascorre molte ore su internet, affidando scorci intimi e preziosi della propria quotidianità ai social network. Non sa però che proprio la rete stravolgerà per sempre la sua vita e quella dei suoi affetti più cari. È qui, infatti, che viene adescata da Selfie, un individuo malvagio e senza scrupoli il quale, dopo essere riuscito a conquistarsi la sua fiducia, riesce anche a manipolarla, fino ad acquisirne il totale controllo col più meschino degli strumenti: il ricatto. Ambientato ai giorni nostri, questo romanzo fotografa un preoccupante fenomeno attuale e in forte ascesa, che sta raggiungendo proporzioni numeriche inquietanti, non solo tra gli adolescenti: il revenge porn, la più odiosa forma di cyber-bullismo, che espone la vittima alla gogna e al linciaggio, senza concederle alcuna possibilità di redenzione. Remake dell'opera dello stesso autore pubblicata nel 2016 con il titolo «Selfie: il graffio del lupo», questa versione risulta ampiamente rivisitata nella forma e nei contenuti, con capitoli inediti, dettagli più scabrosi e un nuovo, imprevedibile e avvincente finale a sorpresa.
LinguaItaliano
Data di uscita18 apr 2024
ISBN9791222742113
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    Anteprima del libro

    Stai attenta - Stefano De Lellis

    P R O L O G O

    Se solo quella stupida della mamma di Alma non avesse tirato fuori un motivo di discussione, come suo solito, anche l’ultimo dettaglio su dove i bambini avrebbero pranzato l’indomani, sarebbe già stato risolto. E invece no, lei doveva sempre e comunque intorbidare le acque. Sembrava lo facesse apposta.

    Sonia si calò gli occhiali da lettura sul naso e digitò con la mano sinistra un messaggio nella chat dei genitori, rispondendo a quello inoltrato dal contatto memorizzato come mamma di Alma.

    Signora, con tutto il rispetto, è da quasi un mese che sapeva di questa gita ed è da più di una settimana che si sta parlando di dove i ragazzi sarebbero andati a mangiare. Solo ora le viene in mente che sua figlia è intollerante ai cereali? Vorrà dire che prenderà qualcos’altro!

    Prima di inviare il messaggio, con un occhio alla strada e l’altro al display del cellulare, Sonia rilesse il testo, corresse un paio di errori sfuggiti al T9, e alla fine decise che tre punti esclamativi, anziché uno solo, avrebbero reso più incisivo e perentorio il proprio punto di vista. Inviò il messaggio e quando sollevò lo sguardo del telefono si accorse che il semaforo era appena diventato rosso. Per evitare di piombare con quattordici metri di pullman nel bel mezzo dell’incrocio e di travolgere qualcuno dei veicoli provenienti dalle vie laterali, Sonia diede un deciso pestone sul pedale del freno, seguito da invettive e improperi da parte dei passeggeri a bordo, quasi tutti studenti di rientro da scuola. Il mezzo riuscì a fermarsi prima della linea di arresto. Senza curarsi nemmeno dei commenti sessisti più scontati che qualche studente maschio rivolse al suo indirizzo, sul proverbiale stereotipo dell’inettitudine delle donne al volante di un’auto, figuriamoci di un autobus, Sonia ne approfittò per leggere la risposta della mamma di Alma.

    Non vedo il motivo per cui mia figlia dovrebbe accontentarsi di prendere qualcosa di diverso dai suoi compagni, quando si farebbe molto prima a scegliere un ristorante che proponga piatti senza cereali per tutti. Anche io pago la mia quota come gli altri e non voglio che mia figlia abbia meno dei suoi compagni.

    «Questa è scema!» commentò Sonia. Iniziò a digitare la risposta, quando un coro di clacson richiamò la sua attenzione sul semaforo che aveva la luce verde accesa chissà già da quanto tempo.

    Appena il tempo di attraversare l’incrocio che Sonia riprese in mano il telefono e iniziò a digitare, facendo rimbalzare lo sguardo tra il display e la strada.

    Con il motore lanciato a quasi cinquanta chilometri orari, stava rileggendo cos’aveva appena scritto quando, da sopra alle lenti, si accorse del SUV grigio che si era appena materializzato davanti ai suoi occhi, a una distanza troppo ridotta per sperare di evitare di travolgerlo solamente agendo sul pedale del freno.

    «Dio, no!»

    Dimenticandosi del telefono, che scivolò via e andò a finire da qualche parte sotto al sedile, Sonia afferrò il volante con entrambe le mani e diede una vigorosa sterzata a sinistra, nel tentativo di ridurre al minimo le conseguenze di un impatto che sembrava inevitabile. Per effetto della manovra repentina, all’interno del pullman si levarono urla e proteste di ogni tipo.

    Tutto accadde in pochi istanti: la corriera impattò sul marciapiede e s’impennò quel tanto che bastò per travolgere e sradicare una panchina, prima di adagiarsi su un fianco e infilarsi nella pista ciclopedonale, scivolando fino a spazzar via tre vite come fossero birilli, per finire la sua corsa contro un grosso platano.

    Sangue. Lamiere contorte. Vetri infranti. Pianti e lamenti. Suoni ovattati. Voci confuse e distanti. Il buio.

    Infine fu solo il suono delle sirene.

    U N D I C I  G I O R N I  P R I M A

    Lunedì, 15 maggio

    F

    ermo al centro dell’atrio, l'uomo controllò l’orario sull’orologio che teneva al polso, si calò gli occhiali da sole sulla punta del naso e alzò lo sguardo verso il tabellone luminoso. Scorse le informazioni in corrispondenza del primo treno per Torino: il Regionale 2054 era previsto in arrivo alle 8:56.

    Con un dito spinse a posto i Ray-Ban e si avviò verso il sottopassaggio. Alla fine delle due rampe di scale, giunto al binario 4, tirò fuori dalla tasca interna del giubbino un telefono cellulare, richiamò dalla rubrica l’unico contatto memorizzato e fece partire la chiamata.

    La ragazza rispose dopo il terzo squillo.

    Calma. Doveva restare calma. Ancora poco e finalmente avrebbe incontrato il misterioso ragazzo della chat che si faceva chiamare Selfie, col quale si scriveva oramai da due settimane e col quale sentiva di condividere un sacco di interessi, dalla musica alla filosofia, dallo sport alla passione per i viaggi. E la differenza d’età non rappresentava di certo un problema, giacché ciò che lui scriveva e le cose che pensava le erano piaciuti al punto da azzerare qualsiasi distanza generazionale. Fino a quel momento si erano solamente scritti, per cui nessuno dei due conosceva ancora la voce dell’altro. L’avevano deciso di proposito. Anzi, per la verità, era stata lei a chiedere che, almeno all’inizio, continuassero come avevano cominciato, rimandando il resto a quando si fossero incontrati. Ora, dopo quella breve telefonata, conosceva anche la sua voce. Si diede un ultimo ritocco al trucco. I capelli, invece, non c’era verso di evitare che continuassero ad arricciarsi sulle punte. Né la piastra né cento colpi di spazzola né l’ultimo shampoo, che le era costato una fortuna, erano riusciti ad addomesticare quelle punte ribelli. Calma. Non c’era più tempo di pensare ai capelli, altrimenti avrebbe perso il treno. I capelli doveva tenerseli così. Prese una sorsata di collutorio e si rinfrescò la bocca. La telefonata di quel ragazzo le aveva messo addosso una piacevole eccitazione. E se lui non le fosse piaciuto? Non aveva considerato nemmeno per un attimo l’ipotesi che si sarebbe potuta trovare davanti un troll, peloso, rozzo, con un naso enorme e con gli occhiali spessi un dito. Oppure un nerd con l’alito pesante e addosso la puzza di sudore. Men che meno uno psicopatico in cerca di prede da rapire, torturare e poi far sparire. Come le era saltato in mente d’incontrare uno sconosciuto senza prima avergli chiesto una foto? D’altronde, se anche gliel’avesse chiesta, quello avrebbe comunque potuto inviargli quella di qualcun altro. Era pronta a tutto, anche a tornarsene indietro con una scusa, se il misterioso Selfie non fosse stato di suo gradimento.

    Ogni pensiero venne scacciato da due colpi ben assestati alla porta del bagno, che la fecero saltare al punto che mancò poco che s’infilasse in un occhio il bastoncino col mascara.

    «Ari, sei pronta? Sempre con quel cellulare, vero? Ti ho già detto che non mi piace che te lo porti in bagno. Sono quasi le otto. Datti una mossa!»

    «Papà, non sono al telefono. Ho quasi fatto. Arrivo.»

    «Dai, per favore Ari, mi fai fare tardi!»

    Pochi secondi e la porta del bagno si spalancò.

    «Eccomi, sono pronta. Possiamo andare.»

    Rocco scansionò ogni centimetro del corpo di sua figlia.

    «Signorina, non siamo un po’ troppo truccate e poco vestite, per andare a scuola?»

    «Dai, papà, che palle! Non cominciare. Ho chiesto alla mamma e ha detto che andava bene. Poi oggi non c’è scuola.»

    Rocco spostò lo sguardo sulla moglie, che rispose alla sua domanda silenziosa: «Assemblea d’istituto. Niente scuola».

    Arianna spennazzò le ciglia mascarate avvicinandosi al viso del padre, e lo baciò sulla guancia.

    «Vado a fare shopping con Giorgia. Dai, sennò fai tardi. Ciao mami!»

    Rocco sollevò gli occhi al cielo e sbuffò. Controllò di avere con sé le chiavi di casa e dell’auto, diede un bacio a Laura e seguì la figlia giù per le scale.

    L’uomo chiuse la conversazione e mise via il cellulare. La voce della ragazza gli piaceva. A meno che lei non gli avesse spedito l’immagine di un’amica o di qualche pin-up presa da internet, quella ritratta nella foto meritava un otto pieno, e la carnagione olivastra, gli occhi verdi e i lunghi capelli scuri la facevano apparire anche più grande dei quindici anni che lei stessa aveva ammesso di avere, assicurandogli che non era la prima volta che un adulto si dimostrava interessato a lei, per strada o su qualche social. L’importante, aveva detto, era sentirsi empatici con l’altra parte. Empatia che lui aveva trovato il modo di stabilire, millantando un’improbabile condivisione di gusti in fatto di moda, di generi musicali e persino di filosofi greci, destando così la curiosità e l’interesse della ragazzina, senza che quella si mostrasse in alcun modo sospettosa o diffidente. Anzi, tutt’altro.

    «Santhià, stazione di Santhià. Il treno regionale veloce 2054 proveniente da Novara e diretto a Torino delle 8:57, arriva e parte dal binario 4, allontanarsi dalla linea gialla», annunciò dall’altoparlante la voce registrata.

    Appena scorse in lontananza il muso della motrice, l’uomo spense il telefono e sostituì la SIM.

    Dopo che la sua vecchia Golf del 1981 aveva deciso di opporsi all’ennesimo accanimento in officina per tenerla in vita, il treno rappresentava l’unico mezzo di trasporto per consentire a Franco di raggiungere ogni giorno Torino, dopo che una ditta di prefabbricati del suo paese lo aveva lasciato a casa per la contingente necessità di ridurre il personale, e dopo che la maggiore catena di ristoranti fast food nel mondo aveva deciso di assumerlo. Un contratto a tempo determinato con possibilità di rinnovo non era il massimo, ma con ottocento euro mensili avrebbe almeno potuto acquistare i soldi per i pannolini della bambina e zittire quella vipera di sua moglie, sposata in quattro e quattr’otto sette mesi prima, per riparare alle conseguenze di una serata brava in discoteca, della quale Franco non ricordava assolutamente nulla.

    Il treno arrivò in stazione con il consueto ritardo di cinque minuti. Giacché a quell’ora l’esercito di pendolari preferiva stiparsi nelle carrozze prossime a quella di testa, piuttosto che spalmarsi lungo l’intero convoglio, l’unica speranza di trovar posto a sedere restava quella di dirigersi verso la carrozza di coda. Prima che il convoglio si fermasse, Franco era già in fondo alla banchina.

    Come aveva previsto, la carrozza era praticamente vuota. Scelse di sedersi sul sedile che appariva meno sporco tra quelli adiacenti al finestrino, e attese la chiusura delle porte. Riuscì a contemplare solo per una manciata di secondi la meraviglia delle Alpi ancora innevate che prese a scorrere all’orizzonte, così lontane eppure così imponenti, prima che le palpebre collassassero sotto l’effetto narcotizzante del movimento.

    Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse trascorso, quando un colpo secco lo fece rinvenire. Impiegò qualche istante per rendersi conto che qualche energumeno aveva appena spalancato la porta interna dello scompartimento, con la grazia di una squadra d’incursori della Marina. Si mise in piedi con l’intenzione di guardarlo in faccia, il fenomeno. Ciò che vide, però, fu molto diverso dalle aspettative: l’energumeno aveva le sembianze di una ragazzina, anche piuttosto carina, anfibi ai piedi, minigonna, cuffiette nelle orecchie e zainetto in spalla.

    Appena i loro sguardi s'incrociarono, l’espressione sul viso di lei fu un misto di meraviglia e curiosità. Franco ebbe la netta sensazione che avesse indugiato un po’ troppo a lungo prima di guardare da un’altra parte. Era un sacco di tempo che una ragazza non lo guardava con tanta attenzione, se si escludeva quella volta in cui un esercito di suore in pellegrinaggio verso qualche santuario l’aveva pizzicato nel bagno delle donne di un Autogrill. Ma allora l’età media si aggirava attorno ai settant’anni e, più che ammirazione, negli occhi di quelle vecchie cariatidi incontinenti Franco aveva percepito, nell’ordine, sgomento, sdegno e disapprovazione.

    Non era bello, anzi, tutt’altro, con quel naso che una madre natura distratta o un po’ burlona gli aveva appiccicato in mezzo agli occhi, nemmeno lui fosse uno squalo e quello la sua pinna. La consapevolezza di ciò gli aveva sempre consentito di accettare con serena rassegnazione il fatto di doversi accontentare, ai tempi della scuola, delle ragazze più bruttine, quelle con l’apparecchio ai denti e la faccia piena di brufoli e comedoni, e ora, che di anni ne aveva quasi ventiquattro, di uno scalcinato scaldabagno baffuto come moglie. Ma forse si era sempre sottovalutato, se una ragazza così carina l’aveva guardato in quel modo.

    Con la coda dell’occhio si accertò di dove fosse andata a sedersi. Nella sua mente, in un attimo la parte emotiva e quella razionale cominciarono a darsi battaglia: la prima cominciò a pungolarlo, suggerendogli di alzarsi e di raggiungere quella ragazza perché, diceva candidamente, non c’era niente di male a scambiare due chiacchiere; la parte razionale, dal canto suo, rintuzzava le provocazioni di quella emotiva, tenendo Franco incollato al sedile e ammonendolo sulle sue responsabilità di marito e padre.

    Quando la vittoria sembrava ormai certa, con la parte emotiva messa a tappeto da una parte razionale, che picchiava duro senza nessuna pietà, improvvisamente la prima si risollevò da terra e, con l’ultimo scampolo di orgoglio rimastole, sferrò il colpo decisivo all’avversaria. In quell’istante, Franco si mise in piedi, si guardò attorno e finse di essere sovrappensiero. Quando incrociò lo sguardo della ragazza, accennò un sorriso. Quella però non ricambiò. Il dubbio che avesse potuto fraintendere s’insinuò nella mente di Franco. Era sul punto di sedersi di nuovo, per risparmiarsi una memorabile figura indecorosa, quando, tutt’a un tratto, anche lei sorrise. Galvanizzato da quella reazione inattesa, come sospinto da un’energia invisibile, si convinse che doveva andare da lei. Inspirò profondamente, trattenne per un attimo l’aria nei polmoni e la rilasciò lentamente. Guardò per un attimo la sua immagine riflessa nel finestrino, gonfiò i pettorali ipotrofici e avanzò verso di lei. In quel momento qualcuno lo urtò alle spalle, facendolo sbilanciare e finire quasi disteso su di un sedile. Franco era sul punto di protestare, quando si rese conto che era proprio all’uomo che l’aveva quasi gettato a terra che la ragazza aveva appena sorriso. E non a lui.

    Le sue spalle larghe, la vita stretta, i suoi bicipiti e i tricipiti gonfi, che le maniche della polo facevano difficoltà a contenere, suggerirono a Franco l’opportunità di astenersi da qualsiasi rimostranza. Sentendosi un emerito deficiente, si mise di nuovo seduto e riprese a contemplare le montagne.

    Arianna sperò con tutta se stessa che Selfie non fosse il ragazzo bruttino e con la faccia piena di brufoli che le aveva appena sorriso. In chat lui le aveva scritto di avere ventinove anni, ma questo sembrava molto più giovane. E le aveva anche scritto che amava trascorrere ore e ore in palestra, mentre il ragazzo che aveva davanti era affetto da un’evidente forma di rachitismo. Non poteva essere lui. Non doveva essere lui.

    Il ragazzo si stava avvicinando e Arianna era già pronta a fare la sua conoscenza quando, all’improvviso, alle sue spalle si materializzò un ragazzo in jeans e occhiali da sole, decisamente più in forma dell’altro, che lo superò senza troppi convenevoli e le andò incontro. Se quello fosse stato il vero Selfie, tanta roba!

    Lui le si sedette di fronte.

    «Tu devi essere Ari, giusto?»

    Arianna riconobbe la voce che poco prima aveva sentito al telefono. Deglutì prima di domandare a sua volta: «Selfie?».

    L’uomo sorrise, si portò gli occhiali da sole sopra la testa e rispose, tendendole la mano: «In persona. Piacere di conoscerti. Federico».

    Arianna gliela strinse e si presentò a sua volta. Per un attimo temette di avere la mano sudata. Non poté fare a meno di notare quanto la stretta di lui fosse più vigorosa e sicura rispetto alla propria.

    Fu Federico a rompere il ghiaccio.

    «Devo ammettere che sei ancora più bella che in fotografia.»

    Lei si schermì dal complimento e avvampò in viso.

    «Dico sul serio. Sei molto bella.»

    «Grazie. Ma così mi fai diventare rossa», rispose Arianna, sventolandosi con una mano. Glissò: «Fa caldo, vero?».

    «Un po’. I finestrini sono bloccati. Non manca molto. Tra poco saremo arrivati. Intanto ti va di chiacchierare un po’?»

    Arianna fece sì con la testa e domandò: «Ti va se ci spostiamo un po’ più in fondo? Tanto non c’è nessuno. Quel tipo continua a fissarci» e indicò Franco, il quale lì stava osservando da uno dei quattro sedili posti in diagonale.

    Federico sollevò lo sguardo per capire a chi si stesse riferendo Arianna.

    «Ma chi, quello sfigato?»

    «Pensa che credevo che Selfie fosse lui»

    «Oh madonna mia!»

    «Gli ho anche sorriso.» Arianna fece una smorfia. «Per fortuna tu sei un pochino meglio.»

    «Solo un pochino? Scherzo, dai. Adesso sei tu che tenti di farmi arrossire.»

    «Ma figurati. Non sembri per niente uno timido.»

    «Ho anche io i miei lati nascosti.»

    Risero insieme.

    «Vuoi che gli vada a dire qualcosa?»

    «No no, lascia stare.»

    Si spostarono in fondo alla carrozza e continuarono a chiacchierare, finché la voce registrata annunciò la fermata di Torino Porta Susa.

    «Scendiamo qui?» domandò Arianna.

    «Possiamo anche scendere qui, se vuoi. Non è Porta Nuova, ma facciamo due passi. È una bella giornata e non si sta male.»

    «Così chiacchieriamo e magari mi racconti qualcosa di te.»

    Il treno entrò in stazione puntualissimo.

    Poco dopo, sulla banchina si riversò una fiumana disordinata di pendolari, che Federico e Arianna lasciarono defluire.

    «Allora, dove ce ne vogliamo andare?» domandò lui.

    «Per me è uguale. Decidi tu.»

    «Potremmo a fare un giro al Parco del Valentino. Ci sei mai stata?»

    «Con la scuola, una volta. Anzi no, due. La prima con un ragazzo di Torino. Lasciamo perdere.»

    «Sennò ti propongo un’alternativa. Tra le tante cose che mi hai raccontato di te, mi hai anche scritto che ti piace molto la storia dell’arte, giusto?»

    «Giusto!»

    «Ottimo. Sei mai salita sulla Mole?»

    «Mai.»

    «Male. Allora, siccome al Valentino ci sei già stata, magari ti porto sulla Mole. Da lassù si vede tutta Torino. Che nei dici? Ti va?»

    «Certo che sì! Andiamo, dai.»

    Quei due se n’erano stati appiccicati a chiacchierare per tutto il tempo. All’inizio si erano stretti la mano, come due che si conoscono appena. Poi lui si era seduto accanto a lei e avevano iniziato a chiacchierare. L’iniziale imbarazzo, che Franco aveva percepito nelle prime battute, era svanito in fretta. Di tanto in tanto lei aveva riso e lui l’aveva imitata. Cosa si fossero detti esattamente, però, da dov’era seduto, Franco non era riuscito a sentirlo. Aveva udito un non so che del Valentino e della Mole, ma niente di più. Era stato quando era sicuro che non stessero guardando dalla sua parte, che aveva tirato fuori il telefono e aveva fatto partire la registrazione, prima di appoggiare l’orecchio al cellulare e fingere di telefonare, con l’obiettivo rivolto in direzione della coppia. Aveva interrotto quando gli era sembrato che la ragazza avesse indugiato un po’ troppo a lungo con lo sguardo verso di lui, come se si fosse accorta di qualcosa. Poi si era rivolta al tipo che le sedeva accanto, gli aveva detto qualcosa, quello si era voltato e aveva fatto per alzarsi, ma lei l’aveva fermato con un braccio, prima di spostarsi entrambi in un’altra parte della carrozza, ove non era più riuscito a raggiungerli né con lo sguardo né con l’obiettivo.

    Franco verificò la qualità della ripresa effettuata, ritenendo il risultato tutto sommato accettabile. Fatti salvi alcuni punti in cui l’inquadratura era decisamente spostata o troppo a destra o troppo a sinistra e i soggetti risultavano fuori campo, per il resto, nel complesso, i volti si vedevano in maniera piuttosto nitida. Anche le fotografie che era riuscito a scattare, poche per la verità, erano venute abbastanza bene. Selezionò video e foto migliori e li spostò in una sottocartella. Eliminò il resto. Un giorno o l’altro avrebbe trovato il tempo per spostare su un hard-disk tutto quel materiale, fatto di immagini e riprese rubate qua e là, nelle situazioni più disparate, per il solo gusto di calarsi, per qualche istante, nelle vite degli altri, decisamente più entusiasmanti della propria.

    Selfie pensò che quella ragazzina gli piaceva. In treno, tra una chiacchiera e l’altra, aveva studiato ogni dettaglio del suo viso, trovandolo decisamente perfetto. Dei suoi discorsi da adolescente, invece, della verifica di matematica, che la prof d’inglese fosse una stronza o che il compagno della seconda fila le guardasse le gambe, non gliene fregava assolutamente un cazzo.

    «Ci prendiamo qualcosa da bere, ti va?» le domandò appena furono usciti dalla stazione.

    «Perché no?

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