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L ultimo treno per la libertà
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E-book524 pagine6 ore

L ultimo treno per la libertà

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Info su questo ebook

Un romanzo che ci ricorda come il male possa insinuarsi, inosservato e pervasivo, nella nostra vita quotidiana.Publishers Weeklyllluminante e meticolosamente documentato.BooklistMeg Waite Clayton accende una scintilla di speranza nel nostro cuore, raccontando l’eroismo di una donna che rischiò la sua vita per salvare gli altri.BookPageIl treno fischia all’avvicinarsi della stazione, il confine tra la Germania e l’Olanda è vicino. Truus Wijsmuller sa che non può permettersi nemmeno un errore. Manda i tre bambini che viaggiano con lei a lavarsi le mani e affronta, armata solo di un passaporto olandese e di un piccolo anello di bigiotteria, i controlli della guardia nazista.
Questo non è il primo viaggio di Truus, eppure ogni volta è come la prima, il cuore in gola e il coraggio che la sostiene sapendo che la sua missione è più importante di tutto: salvare quanti più bambini ebrei possibile, farli salire sul treno che li porterà lontano dalle atrocità naziste.
È il 1936 e l’Austria sta per essere annessa alla Germania. Per Stephan Neuman i nazisti sono poco più che dei violenti brutti ceffi. Ha solo quindici anni, il suo sogno è fare lo scrittore ed è il figlio di una ricca famiglia ebrea viennese. La sua migliore amica è Žofie-Helene, una ragazza cattolica appassionata di formule matematiche, la cui madre lavora per un giornale antinazista. Ma l’innocente adolescenza dei due ragazzi sta per infrangersi come un cristallo di fronte alla violenza del regime di Hitler. Gli altri paesi stanno chiudendo le loro frontiere, una massa di persone disperate si accalca ai confini per fuggire. Eppure, anche nell’oscurità, c’è una luce che continua a splendere, perché Truus Wijsmuller è determinata a salvare tutte le vite che può. E per farlo arriva a sfidare Eichmann: in una corsa contro il tempo dovrà condurre centinaia di bambini e ragazzi in un pericoloso viaggio in treno da Vienna fino in Inghilterra.Un treno verso la salvezza, un treno verso la libertà.Balzato in cima alle classifiche, vincitore di prestigiosi premi internazionali e ispirato a una vicenda realmente accaduta, L’ultimo treno per la libertà è la storia di una donna che anche quando tutto sembra perduto continua a lottare con coraggio contro le ingiustizie.
È la storia di due ragazzi che vogliono afferrare la vita e viverla nonostante la guerra. È la storia di come ognuno di noi può fare la differenza, per non dimenticare la natura meravigliosa dell’animo umano.
LinguaItaliano
Data di uscita21 gen 2021
ISBN9788830522206
L ultimo treno per la libertà
Autore

Meg Waite Clayton

Laureata in giurisprudenza all'Università del Michigan, è autrice di romanzi di successo con cui si è aggiudicata diversi premi letterari. Collabora con numerose testate fra cui il Los Angeles Times, il New York Times, il Washington Post e Forbes, occupandosi spesso della dimensione femminile nella società e delle particolari sfide che le donne devono affrontare.

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    Anteprima del libro

    L ultimo treno per la libertà - Meg Waite Clayton

    1986

    NOTA DELL’AUTRICE

    Dopo l’annessione dell’Austria da parte della Germania nel marzo del 1938, e la violenza della Kristallnacht, la Notte dei cristalli, nel novembre di quello stesso anno, ebbe inizio lo straordinario tentativo di portare in salvo in Gran Bretagna diecimila bambini.

    Benché romanzato, questo libro si basa sulla reale impresa del Kindertransport da Vienna, realizzata da Geertruida Wijsmuller-Meijer di Amsterdam, che già nel 1933 aveva cominciato a soccorrere piccoli gruppi di bambini. Lei era, per loro, Tante Truus.

    PARTE PRIMA

    L’EPOCA PRECEDENTE

    Dicembre 1936

    ALLA FRONTIERA

    Grossi fiocchi offuscavano la vista dal finestrino del treno: un castello innevato su una collina innevata emerse come un’immagine spettrale dall’aria carica di neve. Il capotreno gridò: «Bad Bentheim; stazione di Bad Bentheim, Germania. I passeggeri che proseguono per i Paesi Bassi devono mostrare i documenti».

    Geertruida Wijsmuller – un’olandese con mento, naso e fronte decisi, bocca grande e occhi grigio cachemire – baciò il bambino piccolo che teneva in grembo. Lo baciò una seconda volta e le sue labbra indugiarono sulla fronte liscia. Poi lo affidò alla sorella maggiore e tolse lo zucchetto all’altro fratello, di pochi anni. «Es ist in Ordnung. Es wird nicht lange dauern. Euer Gott wird uns dieses eine Mal vergeben» rispose Truus alle obiezioni dei piccoli, nella loro lingua. Andrà tutto bene. Non durerà molto. Il vostro Dio per questa volta ci perdonerà.

    Quando il treno si fermò lentamente, il maschietto più grande saltò vicino al finestrino e gridò: «Mamma!».

    Truus gli accarezzò i capelli mentre seguiva il suo sguardo fuori dal vetro sporco di neve: c’erano tedeschi in file ordinate sulla banchina, nonostante la bufera, un facchino con un carrello portabagagli carico, un uomo curvo in un doppio cartellone pubblicitario che reclamizzava un sarto. Sì, ecco la donna che il bambino aveva visto: una donna magra con un cappotto e una sciarpa scuri, in piedi accanto a un venditore di salsicce, che dava la schiena al convoglio quando il bambino la chiamò di nuovo: «Maaammaaa!».

    La donna si girò, addentando pigramente la salsiccia unta mentre alzava lo sguardo sul tabellone a palette. Il bambino si accasciò. Non era sua madre, ovviamente.

    Truus lo attirò a sé, sussurrandogli: «Su, su, dài», incapace di fare promesse che non poteva mantenere.

    Le porte del treno si aprirono con un clangore e un sibilo che la fecero trasalire. Una guardia di frontiera sulla banchina si allungò per aiutare una passeggera che scendeva, una tedesca incinta che gli porse una mano guantata. Truus slacciò i bottoni di madreperla dei guanti da giorno di pelle gialla e allentò i polsini smerlati con i delicati bordini neri. Si tolse i guanti e la pelle s’impigliò in un rubino solitario stretto accanto ad altri due anelli, poi, con le mani su cui cominciavano appena a formarsi macchie e rughe, asciugò le lacrime del bambino.

    Sistemò i capelli e i vestiti dei tre fratelli, rivolgendosi a ognuno per nome ma con gesti rapidi, tenendo d’occhio la fila di passeggeri che si assottigliava.

    «Bene, ci siamo» disse pulendo la bava del più piccolo intanto che i passeggeri scendevano. «Andate a lavarvi le mani, come abbiamo provato prima.»

    La guardia di frontiera nazista stava già salendo la scaletta.

    «Su, veloci, però non abbiate fretta a lavarvi le mani» sussurrò Truus. Aggiunse, rivolta alla bambina più grande: «Tieni i tuoi fratelli in bagno, tesoro».

    «Finché non ti sei rimessa i guanti, Tante Truus» rispose lei.

    Era necessario che Truus non desse l’impressione di nascondere i bambini, eppure non voleva nemmeno che loro fossero troppo vicini durante la negoziazione. Così concentriamo lo sguardo non su ciò che si vede, ma su ciò che non si vede, pensò portandosi istintivamente il rubino alle labbra, come un bacio.

    Aprì la pochette, un accessorio più delicato di quello che avrebbe portato se avesse saputo di tornare ad Amsterdam con tre bambini al seguito. Vi rovistò dentro, togliendosi gli anelli mentre i bambini, ormai alle sue spalle, si allontanavano nel corridoio.

    Davanti, apparve la guardia di frontiera. Era un uomo giovane, ma non tanto da non poter essere sposato, e con figli.

    «Passaporti? Ha il visto per lasciare la Germania?» chiese in tono brusco a Truus, l’unica adulta rimasta sulla carrozza.

    Lei continuò a frugare nella pochette come se cercasse i documenti che le aveva chiesto. «I bambini a volte sono delle vere pesti, vero?» rispose cordiale e intanto toccava il suo passaporto olandese, ancora in borsa. «Lei ha figli, agente?»

    La guardia le rivolse un accenno di sorriso non autorizzato. «Mia moglie, lei sta aspettando il nostro primogenito, forse il giorno di Natale.»

    «Come siete fortunati!» esclamò Truus, sorridendo per la propria buona sorte mentre la guardia lanciava un’occhiata verso il rumore dell’acqua che scorreva in un lavello, dei bambini che chiacchieravano con voci dolci come fringuelli. Truus lasciò che la guardia assimilasse l’idea: lui avrebbe avuto presto un figlio simile al piccolo Alexi, che sarebbe cresciuto fino a diventare come Israel o come la cara, carissima Sara.

    Truus sfiorò il rubino – luccicante e caldo – sull’unico anello che ora aveva al dito. «Sono sicura che avrà qualcosa di speciale per sua moglie, per festeggiare questo evento.»

    «Qualcosa di speciale?» ripeté il nazista, rivolgendole di nuovo l’attenzione.

    «Qualcosa di bello da portare tutti i giorni, per ricordare un momento speciale.» Si tolse l’anello, dicendo: «Mio padre regalò questo a mia madre il giorno in cui sono nata io».

    Le sue dita pallide e ferme porsero il rubino, insieme al passaporto.

    Lui fissò l’anello con aria scettica, poi prese solo il documento, lo esaminò e lanciò ancora un’occhiata in fondo alla carrozza. «Sono i suoi figli?»

    I bambini olandesi potevano essere inclusi nel passaporto dei genitori, ma nel suo non ce n’erano.

    Lei inclinò il rubino affinché catturasse la luce e dichiarò: «Sono più preziosi di qualsiasi cosa, i bambini».

    UN RAGAZZO INCONTRA UNA RAGAZZA

    Stephan si precipitò fuori dal portone e scese di corsa i gradini coperti di neve, la cartella che batteva sulla giacca della divisa scolastica mentre si dirigeva in tutta fretta verso il Burgtheater. Arrivato alla cartoleria si fermò un attimo: la macchina da scrivere era ancora lì, in vetrina. Spinse gli occhiali sul naso, appoggiò le dita sul vetro e fece finta di schiacciare i tasti.

    Riprese a correre, avanzando a zig-zag tra la folla del Christkindlmarkt e i profumi del Glühwein, il vin brûlé dolce, e del pan di zenzero, dicendo: «Scusi. Scusi! Scusi» e tenendo il berretto calcato sugli occhi per non farsi riconoscere. Era gente perbene, la sua famiglia: la loro ricchezza proveniva dalla fabbrica di cioccolato avviata con capitali propri, e i loro conti correnti presso la banca Rothschild erano sempre in attivo. Se suo padre fosse venuto a sapere che aveva fatto cadere un’altra volta una vecchietta per strada, quella macchina da scrivere sarebbe rimasta più vicina al pino con le luminarie lì in Rathausplatz che a quello nel giardino d’inverno a casa.

    Salutò con la mano l’anziano che gestiva il chiosco dei giornali. «Buon pomeriggio, Herr Kline!»

    «Dov’è il suo cappotto, signorino Stephan?» gli gridò dietro il vecchio edicolante.

    Stephan abbassò lo sguardo – aveva lasciato di nuovo il cappotto a scuola – ma rallentò solo quando arrivò alla Ringstrasse, dove una manifestazione nazista spontanea bloccava il passaggio. Si infilò a testa bassa in un chiosco tappezzato di manifesti e scese sferragliando la scala di metallo che portava nell’oscurità della Vienna sotterranea, per poi emergere sul lato della strada del Burgtheater. Varcò come un fulmine le porte del teatro e scese le scale due gradini alla volta fino al negozio di barbiere nel seminterrato.

    «Signorino Neuman, che bella sorpresa!» disse Herr Perger, sollevando le sopracciglia bianche su un paio di occhiali rotondi e neri come quelli di Stephan, anche se meno spruzzati di neve. Il barbiere era chino a raccogliere con scopa e paletta le ultime ciocche tagliate della giornata. «Ma non avevo…»

    «Solo una spuntatina. È passata qualche settimana.»

    Herr Perger si raddrizzò e buttò i capelli in un cestino della spazzatura, poi mise la scopa e la paletta di fianco a un violoncello appoggiato alla parete. «Ah, be’, in una testa vecchia la memoria non funziona bene come in una giovane, immagino» concesse in tono cordiale, indicando con un cenno la sedia. «O forse non funziona tanto bene neanche in un giovane che non bada a spese?»

    Stephan abbandonò a terra la cartella, da cui si sparsero sul pavimento alcune pagine della sua nuova commedia, ma cosa importava, Herr Perger sapeva che lui le scriveva. Si sfilò la giacca, si sistemò sulla poltrona e levò gli occhiali. Il mondo diventò sfocato, il violoncello e la scopa adesso erano una coppia che ballava il valzer in un angolo, la sua faccia nello specchio sopra il cravattino quella di chiunque. Rabbrividì appena Herr Perger gli avvolse le spalle nella mantella; Stephan odiava farsi tagliare i capelli.

    «Ho sentito che potrebbero cominciare le prove di una nuova commedia» disse. «È una di Stefan Zweig?»

    «Ah, certo, tu sei un vero ammiratore di Herr Zweig. Come ho fatto a dimenticarlo?» disse Otto Perger prendendo un po’ in giro Stephan, ma bonariamente; tuttavia Herr Perger conosceva ogni segreto sui drammaturghi, gli attori famosi e il teatro. Gli amici di Stephan non immaginavano neanche da dove lui attingesse le sue notizie esclusive; pensavano che conoscesse qualcuno di importante.

    «La madre di Herr Zweig vive ancora qui a Vienna» disse Stephan.

    «Però lui raramente annuncia le sue visite da Londra. Be’, a rischio di deluderti, Stephan, questa nuova commedia è di Csokor, 3 novembre 1918, sulla fine dell’Impero austro-ungarico. Ci sono state parecchie voci e maldicenze a proposito del fatto se verrà mai rappresentata. Temo che Herr Csokor dovrà vivere con la valigia pronta. Ma mi dicono che si andrà avanti, nonostante nel lancio si dovrà includere la postilla che il drammaturgo non intende offendere nessuna nazione dell’ex Impero tedesco, per evitare responsabilità. Un colpo al cerchio, uno alla botte, qualunque cosa serva a sopravvivere.»

    Il padre di Stephan avrebbe obiettato che quella era l’Austria, non la Germania; lì il colpo di stato nazista era stato sventato qualche anno prima. Ma a Stephan non interessava la politica. Lui voleva soltanto sapere chi avrebbe interpretato il ruolo principale.

    «Forse vorresti indovinare?» suggerì Herr Perger mentre voltava Stephan verso di sé, sulla sedia. «Sei piuttosto bravo in questo, mi pare di ricordare.»

    Stephan tenne gli occhi chiusi, rabbrividendo ancora istintivamente anche se, per fortuna, non gli caddero ciocche sulla faccia. «Werner Krauss?» buttò lì.

    «Bene, alla buon’ora!» esclamò Herr Perger con sorprendente entusiasmo.

    Il barbiere girò di nuovo la poltrona verso lo specchio, e Stephan rimase stupito nel vedere – in maniera confusa, senza gli occhiali – che l’uomo non stava applaudendo la sua ipotesi, ma si stava rivolgendo a una ragazza che emergeva, come un girasole surrealista, da una griglia d’aerazione nella parete, sotto il riflesso di Stephan. Gli si piazzò davanti, tutta occhiali sporchi, trecce bionde e seni appena spuntati.

    «Ah, Žofie-Helene, tua madre dovrà sfregare parecchio quel vestito» disse Herr Perger.

    «Non era proprio una domanda leale, nonno Otto: ci sono due ruoli maschili principali» ribatté la ragazza con voce allegra, che toccò qualcosa dentro Stephan, come il primo si bemolle acuto dell’Ave Maria di Schubert, la sua voce e il suono lirico del suo nome, Žofie-Helene, e la vicinanza dei suoi seni. «È la lemniscata di Bernoulli» aggiunse sfiorando il pendente della collana d’oro. «In geometria analitica è rappresentata dall’equazione quadrato di x al quadrato più y al quadrato uguale a x al quadrato meno y al quadrato per due volte a al quadrato.»

    «Io…» balbettò Stephan arrossendo di vergogna per essere stato beccato a guardarle il seno, sebbene lei non sembrava essersene accorta.

    «Me l’ha regalato mio padre» spiegò la ragazza. «Anche a lui piaceva la matematica.»

    Herr Perger sciolse la mantella, diede a Stephan gli occhiali e rifiutò con un gesto della mano il cupronichel che gli porgeva Stephan, dicendo che quella volta non voleva essere pagato. Stephan ricacciò in cartella le pagine del copione: non voleva che la ragazza vedesse la sua commedia, o sapesse che lui aveva una commedia o che lui immaginasse di poter scrivere qualcosa che valesse la pena leggere. Si fermò, sconcertato: Il pavimento è completamente pulito?

    «Stephan, lei è mia nipote» disse Otto Perger, con le forbici in mano e scopa e paletta vicino al violoncello, come prima. «Žofie, questo ragazzo, Stephan, si interessa di teatro almeno quanto te, anche se è un po’ più incline a tenere in ordine i capelli.»

    «Molto piacere di conoscerti, Stephan» disse la ragazza. «Ma perché sei venuto a farti tagliare i capelli se non ne avevi bisogno?»

    «Žofie-Helene» la riprese Herr Perger.

    «Ho sbirciato dalla griglia. Non avevi bisogno di tagliarli, quindi nonno Otto ha fatto finta. Ma aspetta, non dirmi niente! Voglio arrivarci da sola.» Si guardò intorno nella stanza: il violoncello, l’attaccapanni, suo nonno e poi di nuovo Stephan. Il suo sguardo si posò sulla cartella. «Sei un attore! E il nonno sa tutto di questo teatro.»

    «Credo che scoprirai, Engelchen, che Stephan è uno scrittore» disse Otto Perger. «E devi sapere che i più grandi scrittori fanno le cose più strane semplicemente per sperimentare.»

    Žofie-Helene scrutò Stephan con un interesse nuovo. «Sei davvero uno scrittore?»

    «Io… mi faccio regalare una macchina da scrivere per Natale» rispose Stephan. «Spero di diventarlo.»

    «Ne fanno di speciali?»

    «Speciali?»

    «Ci si sente strani a essere mancini?»

    Stephan si osservò le mani, confuso, mentre lei riapriva la griglia da cui era spuntata e rientrava a quattro zampe nella parete. Un attimo dopo fece sbucare la testa. «Muoviti, Stephan; le prove sono quasi finite. Non ti darà fastidio un po’ di sporco sulle tue maniche macchiate d’inchiostro, vero? Per sperimentare?»

    RUBINI O STRASS

    Un bottone di madreperla saltò via dal polsino smerlato del guanto di Truus quando lei, con il piccolo per mano, allungò l’altra per afferrare il fratello più grande; era così affascinato dal gigantesco soffitto a cupola in ferro battuto della stazione di Amsterdam che per poco non ruzzolava giù dal vagone.

    «Truus» la chiamò il marito mentre prendeva il bambino e lo metteva sulla banchina. Aiutò anche la sorella, e Truus con il piccolo.

    Una volta scesa, lei accettò il suo abbraccio, una rara manifestazione in pubblico.

    «Geertruida» le disse, «ma non poteva Frau Freier…»

    «Ti prego, non assillarmi adesso, Joop. Quel che è fatto è fatto, e sono sicura che la moglie di quella simpatica e giovane guardia che ci ha lasciato attraversare la frontiera ha più bisogno di noi del rubino di mia madre. Dov’è finito il tuo spirito natalizio?»

    «Santo cielo, non dirmi che hai corso il rischio di corrompere un nazista con uno strass?»

    Lei lo baciò sulla guancia. «Visto che tu stesso non riuscivi a cogliere la differenza, mio caro, credo che nemmeno lui lo scoprirà presto.»

    Joop rise suo malgrado e prese in braccio il piccolo, reggendolo un po’ impacciato eppure riempiendolo di coccole: un uomo che amava i bambini ma non ne aveva, nonostante ci provassero da anni. Truus si infilò le mani in tasca e sentì la scatola di fiammiferi che si era quasi dimenticata di avere. Un tipo strano, il dottore che gliel’aveva data sulla carrozza del treno. «Lei è stata mandata da Dio, senza dubbio» le aveva detto guardando con affetto i piccoli. Portava sempre con sé un amuleto, aveva aggiunto, e aveva voluto che lo prendesse Truus. «Perché lei e i bambini siate al sicuro» aveva insistito aprendo la scatoletta per mostrarle una vecchia pietra piatta e sbeccata, che davvero non poteva avere alcun valore se non quello di portare fortuna. «Ai funerali ebraici non si donano fiori, ma pietre» aveva spiegato, e a quel punto era stato quasi impossibile rifiutare. Gliel’avrebbe richiesta indietro se avesse avuto di nuovo bisogno di un talismano, le aveva assicurato. Poi era sceso a Bad Bentheim, prima che il treno superasse il confine tra la Germania e i Paesi Bassi, e adesso Truus era ad Amsterdam con i bambini, e pensava che doveva esserci un fondo di verità nella pretesa dell’uomo che quella brutta pietra portasse fortuna.

    «Allora, ometto» disse Joop al piccolo, «crescendo dovrai fare grandi cose perché sia valsa la pena che la mia folle sposa rischiasse la vita per te.» Sebbene fosse preoccupato per quel salvataggio fuori programma, non avrebbe sollevato più obiezioni delle volte in cui i viaggi di Truus per fare uscire i bambini dalla Germania erano pianificati. Baciò il piccolo sulla guancia. «C’è un taxi che ci aspetta.»

    «Un taxi? Ti hanno dato un aumento in banca mentre ero via?» Una battuta benevola; Joop era un bancario fatto e finito, parsimonioso fino al midollo, ma pur sempre un uomo che chiamava ancora la moglie, dopo vent’anni di matrimonio, la sua sposa.

    «Sarebbe una bella camminata dalla fermata del tram a casa di loro zio, anche senza questa neve» replicò lui, «e il dottor Groenveld non vuole che i nipoti del suo amico arrivino con i geloni.»

    L’amico del dottor Groenveld. Questo spiegava tutto, pensò Truus intanto che uscivano in mezzo ai merletti innevati sui rami degli alberi, al fango pestato dei marciapiedi, alla gelata dura del canale. Era così che veniva elargita gran parte degli aiuti del Comitato per i rifugiati ebrei: nipoti di cittadini olandesi, amici di amici, figli di amici di soci in affari. Molto spesso, erano i rapporti casuali a determinare il destino.

    VIENNA INDIPENDENTE

    LA CASA NATALE DI HITLER DIVENTA MUSEO

    I rapporti tra Austria e Germania rimangono tesi malgrado l’accordo estivo

    di Käthe Perger

    BRAUNAU AM INN, AUSTRIA, 20 dicembre 1936. Il proprietario della casa natale di Adolf Hitler ha adibito due stanze a museo. Le autorità austriache di Linz hanno permesso l’accesso al pubblico a condizione che siano ammessi solo visitatori tedeschi e non austriaci. Nel caso si scopra che entrano degli austriaci o che questo diventa luogo di manifestazioni naziste, il museo verrà chiuso.

      L’apertura del museo è stata possibile grazie al Trattato austro-tedesco dell’11 luglio per riportare le nostre nazioni a rapporti di natura normale e amichevole. Nel Trattato la Germania riconosceva la piena sovranità dell’Austria e acconsentiva a considerare il nostro ordinamento politico una questione interna su cui la Germania non eserciterà alcuna influenza: una concessione di Hitler, che si oppone all’incarcerazione da parte del nostro governo di membri del Partito nazista austriaco.

    CANDELE ALL’ALBA

    Žofie-Helene si avvicinò con trepidazione alle siepi spruzzate di neve e all’alto cancello di ferro del palazzo nella Ringstrasse. Mise una mano sulla sciarpa rosa scozzese che le aveva regalato la nonna per Natale, morbida come una carezza di sua madre. Quella casa era più grande di tutto il suo condominio, e assai più decorata. Quattro alti piani con colonne – il pianterreno con porte e finestre ad arco, quelli superiori con portefinestre rettangolari che si aprivano su balconi con balaustre in pietra – erano sormontati da un quinto piano di dimensioni più modeste, ornato da statue che sembravano reggere il tetto di ardesia, o fare la guardia ai domestici che dovevano vivere lassù. Quella non poteva essere la vera casa di qualcuno, tanto meno di Stephan. Ma, prima che lei potesse tornare sui suoi passi, un portiere con pastrano e tuba emerse da una guardiola per aprirle il cancello, mentre il portone cesellato si spalancava e Stephan correva giù per i gradini liberi dalla neve come se fosse estate.

    «Guarda! Ho scritto una nuova commedia!» esclamò porgendole un manoscritto. «L’ho battuta sulla macchina da scrivere che mi hanno regalato a Natale!»

    Il portiere sorrise con affetto. «Signorino Stephan, magari vorrebbe invitare la sua ospite a entrare?»

    L’interno del palazzo intimidiva ancora di più, con lampadari a bracci e pavimenti in marmo dalle geometrie intricate, uno scalone maestoso e ovunque opere d’arte straordinarie: tronchi di betulla che cadevano con la prospettiva tutta sbagliata; un villaggio di mare su una collina, improbabilmente piatto e allegro; il bizzarro ritratto di una signora che assomigliava molto a Stephan, con gli stessi occhi passionali e il naso lungo e dritto, le labbra rosse e la fossetta quasi impercettibile sul mento. La donna aveva i capelli raccolti e le guance graffiate di un rosso acceso – in maniera inquietante ma al contempo sofisticata – più per bellezza e rossore che per una ferita, anche se Žofie non poté fare a meno di pensare a quest’ultima. La Suite n. 1 per violoncello di Bach si diffondeva da un grande salone dove gli ospiti chiacchieravano accanto a un piano, il cui elegante coperchio laminato d’oro era sollevato e rivelava, dipinto sulla parte interna, un teatrale uccello bianco con una tromba tra le zampe.

    «Non l’ha ancora letta nessuno» disse Stephan a bassa voce. «Nemmeno una parola.»

    Žofie lanciò un’occhiata al manoscritto che lui le porgeva di nuovo. Aveva davvero intenzione di farglielo leggere adesso?

    Il portiere – Rolf, lo chiamò Stephan – gli suggerì: «Immagino che la sua amica abbia passato un felice Natale, signorino Stephan?».

    Lui, ignorando l’imbeccata, disse a Žofie: «Non vedevo l’ora che tu tornassi a casa, sei stata via un secolo».

    «Sì, Stephan, mia nonna sta bene e io ho passato un bel Natale in Cecoslovacchia, grazie per avermelo chiesto» ribatté Žofie-Helene, e le sue parole furono accolte da un sorriso di approvazione di Rolf, che le prese il cappotto e la sciarpa.

    Lei lesse velocemente la prima pagina. «Ha un bellissimo incipit, Stephan» commentò.

    «Lo credi davvero?»

    «La leggerò tutta stasera, te lo prometto, ma se insisti per farmi conoscere la tua famiglia non posso portarmi dietro il manoscritto.»

    Stephan guardò nel salone della musica, poi prese la commedia e salì di corsa le scale. A ogni pianerottolo sfiorava con le dita una statua mentre proseguiva oltre il secondo piano, dove le porte aperte di una biblioteca rivelarono più libri di quanti Žofie avrebbe pensato fosse possibile possedere.

    Nel salone, una donna con il seno piatto, alla moda, stava dicendo: «… Hitler che brucia i libri, e pure tutti quelli interessanti, aggiungerei». La donna assomigliava molto a Stephan, e anche al ritratto dalle guance rigate, sebbene avesse i capelli neri pettinati con la riga in mezzo e sciolti in morbidi riccioli. «Quell’ometto ignobile definisce Picasso e Van Gogh incompetenti e imbroglioni.» Giocherellò con una collana di perle che le si avvolgeva una volta intorno al collo, come quella della madre di Žofie, ma poi faceva un secondo giro che le arrivava in vita, sfere così perfette che, se il filo si fosse rotto, sarebbero di sicuro rotolate con un moto uniforme. «La missione dell’arte non è sguazzare nell’oscenità per amore dell’oscenità afferma lui… come se avesse la minima idea di quale sia la missione dell’arte. Eppure sarei io quella isterica?»

    «Non isterica» ribatté un uomo. «Questa è una parola tua, Lisl.»

    Lisl. Allora quella era la zia di Stephan. Lui adorava zia Lisl, e persino il marito di Lisl, zio Michael.

    «In realtà è di Freud, tesoro» replicò Lisl in tono leggero.

    «Sono solo i modernisti che fanno scatenare Hitler» disse lo zio di Stephan. «Kokoschka…»

    «Il quale naturalmente ha ottenuto il posto all’Accademia di belle arti che Hitler immaginava dovesse essere suo» lo interruppe Lisl. I disegni di Hitler erano stati giudicati talmente scarsi che non gli era stato nemmeno permesso di sostenere l’esame di ammissione, raccontò loro Lisl. Si era ridotto a dormire in un centro d’accoglienza, a mangiare alla mensa dei poveri e a vendere i suoi quadri ai negozi di cornici per riempire quelle vuote.

    Mentre la piccola cerchia rideva al suo racconto, sulla parete opposta all’entrata del salone si aprì una porta a scomparsa. Un ascensore! Un bambino di pochi anni saltò giù da una sedia al suo interno: una bella sedia a rotelle (non sua, ovviamente) con elaborati braccioli a volute, seduta e schienale in bambù, e gli anelli delle maniglie e delle ruote d’ottone concentriche perfettamente proporzionati. Il bambino si aggirò per il salone trascinando dietro di sé sul pavimento un coniglio di pezza imbottito.

    «Ehi, ciao. Tu devi essere Walter» disse Žofie. «E come si chiama il tuo amico coniglio?»

    «Lui è Peter» rispose il fratello di Stephan.

    Peter Coniglio. Žofie si rammaricò di avere già speso i soldi ricevuti per Natale; avrebbe potuto comprare a sua sorella Jojo un Peter con un cappottino azzurro come quello.

    «Quello vicino al mio piano è il papà» spiegò il bambino.

    «Il tuo piano?» chiese Žofie. «Sai suonare?»

    «Non molto bene.»

    «Ma suoni su quel piano?»

    Il bambino lo guardò. «Sì, certo.»

    Stephan tornò giù di corsa, a mani vuote, proprio mentre Žofie notava la torta di compleanno con candeline accese all’alba e lasciate bruciare tutto il giorno, due centimetri all’ora, secondo l’usanza austriaca. Accanto alla torta c’era il più sfarzoso vassoio di cioccolatini che lei avesse mai visto, alcuni al latte e altri fondenti, e tutti di forme diverse, ma ognuno decorato con il nome di Stephan.

    «Stephan, è il tuo compleanno?» Sedici candeline per i suoi anni e una come portafortuna. «Perché non me l’hai detto?»

    Stephan arruffò i capelli a Walter intanto che il brano al violoncello terminava.

    «Io! Voglio farlo io!» esclamò Walter e corse verso il padre, che avvicinò uno sgabello al Victrola.

    «… e adesso Zweig è scappato in Inghilterra e Strauss compone per il Führer» stava dicendo zia Lisl… parole che attirarono l’attenzione di Stephan. Žofie-Helene non credeva negli eroi, eppure si lasciò trascinare da lui nel salone per ascoltare meglio.

    «Tu devi essere Žofie-Helene!» esclamò zia Lisl. «Stephan, ti sei dimenticato di dirmi quanto fosse bella la tua amichetta.» Tirò via qualche forcina dalla crocchia di Žofie e i suoi capelli ricaddero sciolti. «Sì, così va meglio. Se avessi dei capelli come i tuoi, nemmeno io me li taglierei, alla faccia della moda. Mi spiace che la mamma di Stephan non sia qui a salutarti, ma le ho promesso di riferirle tutto, quindi devi raccontarmi ogni cosa di te.»

    «È un grande piacere conoscerla, Frau Wirth» disse Žofie. «Ma continuate pure la vostra conversazione su Herr Zweig, oppure Stephan non mi perdonerà mai.»

    Lisl Wirth scoppiò in una risata calda, un’ellisse tintinnante, con il mento rivolto leggermente verso il soffitto altissimo. «Ascoltatemi tutti, lei è la figlia di Käthe Perger. La redattrice del Vienna indipendente, sapete?» Tornò a rivolgersi a Žofie e le disse: «Žofie-Helene, lei è Bertha Zuckerkandl, una giornalista come tua madre». Poi, agli altri: «Sua madre che, devo ammettere, ha più coraggio di Zweig o di Strauss».

    «Lisl» intervenne suo marito, «parli davvero come se Hitler fosse ai nostri confini. Come se Zweig vivesse in esilio, invece in questo preciso istante è in città.»

    «Stefan Zweig è qui?» chiese Stephan.

    «Era al Café Central neanche mezz’ora fa, a pontificare» rispose zio Michael.

    Lisl osservò il nipote e la sua amichetta precipitarsi verso il portone mentre Michael chiedeva perché mai Zweig se ne fosse andato dall’Austria.

    «Non è nemmeno ebreo» disse Michael. «Almeno, non osservante.»

    «Dice mio marito, il gentile» lo rimbrottò bonariamente Lisl.

    «Sposato con l’ebrea più bella di tutta Vienna» aggiunse lui.

    Lisl osservò Rolf che fermava Stephan per dargli il cappotto frusto della ragazza. Žofie-Helene sembrò così sorpresa quando Stephan la aiutò a indossarlo che Lisl si mise quasi a ridere. Stephan inspirò di nascosto il profumo dei capelli della ragazza nell’istante in cui lei gli voltò le spalle, e Lisl si domandò se Michael le avesse mai annusato di soppiatto i capelli in quel modo, durante il corteggiamento. All’epoca lei aveva soltanto un anno in più di Stephan adesso.

    «Non è meraviglioso l’amore?» disse al marito.

    «È innamorata di tuo nipote?» chiese lui. «Non so se lo incoraggerei a mettersi con la figlia di giornalisti sobillatori.»

    «Quale dei suoi genitori sospetti abbia istigato di più le folle alla rivolta?» ribatté Lisl. «Suo padre, che dicono si sia suicidato in un albergo di Berlino nel giugno del ’34, guarda caso la stessa notte in cui morirono molti oppositori di Hitler? O sua madre che, vedova incinta, proseguì l’opera del marito?»

    Osservò Stephan e Žofie sparire oltre la soglia, rincorsi dal povero Rolf che agitava la sciarpa che la ragazza aveva dimenticato… di un bellissimo scozzese rosa.

    «Be’, non saprei dire se quella ragazza è innamorata di Stephan» aggiunse Lisl, «ma lui di certo è cotto di lei.»

    ALLA RICERCA DI STEFAN ZWEIG

    «Ah, mein Engelchen con i suoi ammiratori: il drammaturgo e lo sciocco!» disse Otto Perger al suo cliente. Non vedeva la nipote da prima di Natale, ma ora la sentivano scendere le scale in fondo al corridoio, mentre chiacchierava con il giovane Stephan Neuman e un altro ragazzo.

    «Spero proprio che preferisca quello sciocco» commentò l’uomo, dando una mancia generosa a Otto, come sempre. «Noi scrittori non siamo per niente bravi in amore.»

    «Temo che lei invece abbia un debole per lo scrittore» disse Otto, «anche se non so se se ne renda conto.» Fece una pausa, per trattenere il cliente abbastanza a lungo da presentarlo a Stephan, ma l’uomo aveva un autista ad attenderlo e i ragazzi si erano fermati e temporeggiavano, come spesso fanno i ragazzi. «Bene, sono contento che lei abbia gradito la visita a sua madre.»

    L’uomo si allontanò in fretta, passando accanto ai ragazzi in corridoio. Era a metà delle scale quando si voltò e chiese: «Chi di voi è lo scrittore?».

    Stephan, ridendo per qualcosa che stava dicendo Žofie, non sembrò nemmeno udirlo, ma l’altro ragazzo indicò lui.

    «Buona fortuna, figliolo. Ora più che mai abbiamo bisogno di scrittori di talento.»

    Poi se ne andò, mentre i ragazzi entravano nella bottega del barbiere e Žofie annunciava che era il compleanno di Stephan.

    «Ogni bene per il tuo compleanno, signorino Neuman!» lo salutò Otto mentre abbracciava la nipote, talmente simile al padre che Otto riusciva quasi a sentirne la voce in quella concitata di lei; vedeva Christof nell’indifferenza della nipote per le lenti sporche. Anche il loro odore era identico: mandorle, latte e calore del sole.

    «Quello era Herr Zweig» disse il loro amico.

    «Dove, Dieter?» domandò Stephan.

    «Signorino Stephan» intervenne Otto, «cos’hai fatto di bello mentre Žofie era via?»

    «Era seduto proprio di fianco a noi al Café Central prima che arrivasse Stephan… intendo Zweig» disse Dieter. «Con Paula Wesseley e Liane Haid, che sembra molto invecchiata.»

    Otto esitò, stranamente riluttante ad ammettere che quel ragazzone tonto avesse ragione. «Temo che Herr Zweig stesse correndo a prendere un aereo, Stephan.»

    «Era davvero lui quello?» Gli occhi scuri di Stephan erano così pieni di delusione che, con i capelli dritti in cima alla testa malgrado gli sforzi di Otto, sembrava un bambino piccolo. Otto avrebbe tanto voluto assicurare a Stephan che avrebbe avuto un’altra occasione per conoscere il suo eroe, ma sembrava improbabile. Non avevano parlato di altro – o perlomeno ne aveva parlato Zweig, intanto che Otto ascoltava – che della possibilità che neanche Londra fosse abbastanza lontana da Hitler. Herr Zweig sapeva com’era morto Christof, il figlio di Otto; sapeva che capiva quanto fosse inconsistente un confine.

    «Spero che tu tenga conto, Stephan, delle parole che ti ha rivolto Herr Zweig» disse Otto. «Ha detto che ora più che mai abbiamo bisogno di scrittori di talento come te.» Era già qualcosa, comunque, che il grande scrittore avesse incoraggiato Stephan, anche se il ragazzo non aveva sentito.

    L’UOMO NELL’OMBRA

    Adolf Eichmann accompagnò il suo nuovo, grasso capo, l’Obersturmführer Wisliceny, in visita al dipartimento degli Affari ebraici del Sicherheitsdienst e terminò il giro alla sua scrivania, accanto alla quale era seduto Tier, il più bel pastore tedesco con il dorso inclinato di tutta Berlino.

    «Buon Dio, è così immobile che sembra imbalsamato» disse Wisliceny.

    «Tier è ben addestrato» spiegò Eichmann. «Ci saremmo già liberati degli ebrei e ci staremmo occupando di faccende più importanti se il resto della Germania fosse disciplinata almeno la metà di lui.»

    «Addestrato da chi?» chiese Wisliceny, sedendosi al posto di Eichmann per rivendicare il suo grado superiore.

    Eichmann prese la sedia del visitatore e fece schioccare le dita una volta, piano, chiamando Tier al suo fianco. Aveva assicurato a Wisliceny che le fila del Dipartimento II/112 dell’SD erano piuttosto sbrogliate, ma in realtà erano più intricate e sfilacciate della matassa che mordicchiava Tier. Dirigevano le operazioni da tre stanzette nel palazzo degli Hohenzollern mentre la Gestapo, che disponeva del proprio Ufficio ebraico e di molte più risorse, si divertiva a sminuirli. Eichmann aveva imparato a proprie spese, però, che le lamentele si riflettevano più negativamente su chi le avanzava.

    «Eichmann, il suo documento sulla Questione ebraica… è interessante» disse Wisliceny, «questa idea che gli ebrei possono essere indotti a lasciare la Germania se solo smantelliamo la loro posizione economica qui nel Reich. Ma perché costringerli a emigrare in Africa o in Sudamerica invece che in altre nazioni europee? Perché ci deve interessare dove vanno, una volta che ci siamo liberati di loro?»

    «Non vogliamo che le loro competenze finiscano nelle mani di paesi più sviluppati che potrebbero beneficiarne a nostro discapito, direi» rispose Eichmann educatamente.

    Wisliceny socchiuse i suoi occhietti prussiani. «Lei crede che noi tedeschi non siamo in grado di fare meglio degli stranieri aiutati dagli ebrei di cui vogliamo sbarazzarci?»

    «No, no» protestò Eichmann, posando una mano sulla testa di Tier. «Non è affatto ciò che intendevo.»

    «E la Palestina, che lei include tra gli stati arretrati, è un territorio britannico.»

    Eichmann, vedendo che la conversazione si stava mettendo sempre peggio, chiese a Wisliceny la sua opinione sull’argomento, sottoponendosi a una lunghissima tirata di parole vuote e aggressive, corroborate da un’assoluta mancanza di conoscenze. Ascoltò come faceva in continuazione, accantonando informazioni per un uso futuro e tenendo per sé i propri vantaggi. Era quello il suo lavoro, ascoltare e annuire mentre gli altri parlavano, e gli riusciva molto bene. Era sua abitudine togliersi l’uniforme e indossare abiti borghesi per infiltrarsi nei gruppi sionisti berlinesi e osservarli più da vicino. Aveva organizzato una cellula di informatori. Ricavava notizie dalla stampa ebraica. Presentava rapporti su Agudat Israel. Teneva di nascosto fascicoli di denunce. Ordinava gli arresti. Aiutava la Gestapo negli interrogatori. Aveva persino cercato di imparare l’ebraico per svolgere meglio il suo lavoro, anche se quel progetto era andato a monte e adesso tutti a Berlino erano a conoscenza della sua follia: proporre di pagare un rabbino tre Reichsmark all’ora perché gli insegnasse l’ebraico quando avrebbe potuto semplicemente farlo arrestare e imprigionarlo per avere lezioni gratis.

    Vera era sicura che quella cantonata fosse il motivo per cui il posto di capo del Dipartimento ebraico era stato assegnato a quel prussiano ignorante anziché a Eichmann, lasciandogli soltanto il contentino

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