Un Divino senza Dio
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Un tenue riflesso del bagliore nascosto della verità dell’essere ed il crescente caleidoscopio di figure spirituali, apolidi e metamorfiche, dell’isolamento nichilistico.
(Egon Key)
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Anteprima del libro
Un Divino senza Dio - Enrico Andreoli
Luca
Un inizio senza introduzione
Più di trent’anni fa ho incontrato il maestro Haim Baharier all’Inizio, ma non ad un inizio qualsiasi ma proprio all’Inizio di tutto. La lezione, la prima a cui assistevo, era infatti sull’Inizio della Bibbia che è l’unico inizio che si scrive con la i
maiuscola perché la Bibbia è l’inizio di tutto.
Quest’Inizio è marcato da un segno formato da una doppia Aleph: la prima maiuscola e la seconda minuscola, a significare: qui c’è il primo versetto del primo capitolo
.
Tutto inizia dunque dal significato prodotto dalla relazione tra Aleph ed aleph. La relazione che la prima lettera dell’alfabeto intrattiene con l’apparire di sé stessa in differente misura: grande e piccola. Insomma la relazione dell’Inizio e dunque anche l’inizio di ogni relazione – che di ciò consiste il Creato – è marcato dalla misura. Se sbagliamo la misura del primo gesto verso l’altro difficilmente potremo coltivare con questi una relazione duratura, germinante significati.
La regola del gioco aperto dalla Bibbia – il Libro è la voce che porta la parola del Creato e mostra l’interiorità di Dio, così in quella lezione insegnava il Maestro Baharier – è che ogni maiuscolo ha il proprio minuscolo e dunque ogni lettura ed ascolto saranno, da qui in poi, tesi a riconoscere, nel senso della lettura, ad ogni maiuscolo il proprio minuscolo. Lo indica anche la sapienza greca che ritorna ai nostri giorni nelle parole di Giorgio Colli: l’espressione di un particolare è un universale
.
Insomma la relazione, rappresentata dal segno formato dalle due Aleph, indica un significato al suo l’inizio, un significato ‘in via di formazione’, e marca con la propria essenza il processo infinito in cui Dio esplicita la propria interiorità nel significare.
* * *
È noto che tra gli universali si trova la Prudenza con cui è opportuno affidarci ai Maestri. Io per non sbagliare ho quindi sostituito alla i
di interiorità con la a
di anteriorità, e in questo modo sono andato avanti a pensare la relazione nei successivi trenta e passa anni: la relazione come chiave di accesso al ‘prima’, all’anteriorità.
Pensare il ‘prima’ è un gesto comune: lo facciamo un po’ tutti con i mezzi a nostra disposizione: si tratta della nota domanda metafisica essenziale – cosa c’è ‘prima’ del duetto essere/nulla? – ed è – nientemeno! – la domanda che tiene insieme il testo che state per leggere e dove assisterete alla necessaria trasformazione della ‘a’ in ‘i’ perché nell’anteriorità si cela l’interiorità.
Quando il testo mi è sembrato maturo ho chiesto al Maestro Baharier se volesse scrivere qualcosa da porre ‘prima’ a mo’ di introduzione. Allora mi raccontò che agli inizi del XIX secolo una domanda simile fu posta da un allievo al maestro Sìmcha Bùnam, noto anche come Rebbe Reb Bunim, il primo gran rabbino di Peshischa, nonché uno dei leader chiave dell’ebraismo chassidico in Polonia.
Tutti i grandi libri hanno un’introduzione; come mai la Torah ne è priva?
chiese l’allievo.
La Torah non ha introduzione perché ‘prima’ c’è soltanto il saper vivere che non è scrivibile
, fu la lapidaria risposta del Maestro Reb Bunin.
Bisogna intendere – continua il Maestro Baharier – perché allora molti grandi rabbini, profondi maestri fossero così ‘maleducati’ alla vita, tacendo poi quei due o tre i veramente ‘fuori di testa’ ma comunque geniali
.
Ecco; sono tornato a casa ed ho dormito sopra a questa introduzione ‘presente come tolta’ per un paio di notti; digestione lenta post Covid19.
La risposta del Maestro Reb Bunin indica una condizione, che non vale per i rabbini perché evidentemente il quotidiano e stretto contatto col Divino manda ‘fuori di testa’ chiunque; la condizione per cui puoi cominciare a leggere, a studiare, a commentare la Bibbia solo se hai ben vissuto, solo se possiedi il know-how del vivere; se sei ‘risolto’, si dice oggi.
Questo, sottilmente e ovviamente, non vuol dire che sia una lettura illegale quella in cui si proietta il proprio vissuto, quella che contiene ed esprime la nostra storia, ma piuttosto che la Bibbia non è un farmaco; questo vuol dire il rabbi Reb Bunin. Così, per analogia, l’inizio senza introduzione del mio testo dovrebbe indicare il mio buono stato di salute. Il buon stato di salute richiesto per partorire un testo che stia in piedi da solo.
Cosa state per leggere
Questo è quello… questo è nient’altro che quello…
Brhad Aranyaka Upanishad
Lo spettacolo delle moltitudini [1] che da almeno trent’anni riempiono le piazze per ascoltare i maestri del pensiero filosofico e le molte decine di migliaia di visualizzazioni su YouTube dei video delle loro lezioni, segnalano una domanda attorno al senso della vita che il consumo compulsivo del superfluo non riesce più a soddisfare. Il testo si propone come un manuale pratico per vivere nella contingenza della vita perché " Noi, il popolo" non solo vogliamo essere felici, ma vogliamo sapere che fare per esserlo.
La domanda investe la struttura di valori sottostante la vita dell’abitante dell’Occidente industrializzato. Se vogliamo sapere che fare è perché non siamo convinti del nostro modo di vivere. Come insegna Pierre Hadot il discorso filosofico ha origine da una scelta di vita e da un’opzione esistenziale... il discorso filosofico deve essere compreso all’interno della prospettiva di un modello di vita di cui è allo stesso tempo mezzo ed espressione, e che, di conseguenza, la filosofia è comunque, innanzi tutto, un modo di vivere…
[2] .
Negli ultimi vent’anni la ‘stella’ dello spettacolo della filosofia è stata Emanuele Severino che ha tutti convinto dell’eternità di ogni cosa, testimoniando il Destino della verità dell’essere. La risposta di Severino alla domanda che fare? è disarmante: non c’è alcuna ‘forma del fare’ [3] che non sia errore perché ogni fare procede da una volontà ed ogni volontà, anche la migliore, implica la follia di considerare gli enti disponibili ad essere trasformati, strappati al Nulla e in questo ricacciati quando non servono più.
… i miei scritti, ormai, non si rivolgono più all’«uomo», non gli prescrivono un compito, non gli assegnano una meta, non gli dicono che cosa debba fare, non gli suggeriscono una norma di vita o un ideale, non sono uno strumento teorico per guidare e illuminare la prassi: il proponimento di far tutto questo è legato alla volontà di separare la terra dal destino e di farne l’oggetto del dominio
[4] .
Severino non ci dà alcuna indicazione su cosa fare ma ci invita soltanto ad attendere l’ oltrepassamento [5] della follia di credere che le cose siano disponibili alla nostra volontà e alla potenza della Tecnica; ci invita a non opporci al fluire del destino che necessariamente porterà al tramonto del nichilismo perché tutto dovrà essere, prima o poi, oltrepassato; tutto è destinato a presentarsi ed assentarsi nel cerchio dell’apparire.
Severino dunque ci conduce fino alla soglia del fare dove ci fermiamo ad attendere. Affidarci al destino: questo è tutto ciò che possiamo cavare dalla testimonianza del Destino che Severino inizia nel 1958 con la risoluzione della Aporetica del Nulla [6] . L’aporetica del Nulla è una questione filosofica fondamentale, un ‘punto nero’ indicato per la prima volta da Platone nel Sofista, ma mai risolta in 2500 anni di metafisica. L’aporetica del Nulla consiste nel fatto che nel pensare e nel parlare del nulla non riusciamo ad evitare di pensare e di parlare il nulla come qualcosa che è
qualcosa, appunto un nulla
.
Dagli albori del pensiero ontologico radice dell’Occidente, il Nulla è stato trattato come un essente, come ‘qualcosa’ che in qualche modo è
anche se non è niente. Severino finalmente chiarisce che il Nulla è un significato privo di riferimento ontologico: un cartello indicante niente. Ad essere ‘qualcosa’ è il cartello e non il niente che viene indicato. Ora, nonostante sia ‘niente’, comunque sopporta il ‘peso’ del significato che gli viene attribuito. Il significare è positivo, il contenuto del significato è negativo.
Ma siccome noi mortali siamo ‘duri di cervice’ e mal sopportiamo il doverci affidare a qualcuno o peggio a ‘qualcosa’ come il destino, mentre attendiamo l’ oltrepassamento della follia, non possiamo non ritornare ancora alla stessa domanda: come dobbiamo starci nel mondo?
Dato che Severino coerentemente non risponde, ci affidiamo a quanto sussurra Oriente: il Vedanta, la gloria del ṚgVeda, in IV.5.3 suggerisce di guardare le cose contingenti secondo il modo dell’Eterno
.
Se guardiamo, e quindi proteggiamo, tutte le cose contingenti come se fossero eterne, ovvero se accettiamo la necessità logica che l’ente sia sé stesso e si opponga a tutti gli altri enti diversi da sé, allora ci sembra che abbia una natura severiniana anche la brusca sintesi del messaggio biblico, espressa dal Maestro Hillel il Vecchio come non fare ad altri ciò che non vorresti che altri facesse a te
. Si tratta infatti di un caso specifico del generale rispetto di ciò che l’essente è, il rispetto del Destino della verità: l’essere sé dell’essente.
Allo stesso modo l’imperativo categorico impresso sul frontone del tempio di apollo a Delfi ci sembra coerente col rispetto della stabilità dell’ente in sé stesso: ‘conosci te stesso’ non è forse l’invito a presentarsi nel mondo in possesso della propria identità, avendo chiari quali sono i propri confini per poter opporsi alla violenza di chi ti vuole altro da te, magari anche amandoti autenticamente [7] .
Le pagine che seguono tentano di superare la delusione prodotto dalla impossibilità di derivare un’etica, di avere indicazioni circa il nostro esser-ci, di come portarci nel palcoscenico in cui ci siamo trovati gettati.
La testimonianza di Severino è incontrovertibile: il Destino della verità dell’essere non può essere negato, la sua negazione non riesce a costituirsi. Perciò qualsiasi prassi è un errore, una follia. Ma in qualche modo però dobbiamo trovare un escamotage teoretico per dare legittimità a quella prassi, necessaria e sufficiente, a portarci all’inizio del ‘Sentiero del Giorno’ [8] e, intanto essere anche capace di fermare il devastante utilizzo della Terra.
La pandemia del Covid19 ha dimostrato che la Terra e i Mortali che la abitano formano un unico organismo vivente all’interno del quale vanno ricostruiti gli equilibri ambientali e sociali. Siamo tutti attesi a un programma di vasta portata: far capire alle moltitudini e incidere nella fibra, nella coscienza del Mortale, la norma per cui della Terra abbiamo solo la fruizione e siamo comandati alla difesa perché dobbiamo riconsegnarla vivibile ai nostri discendenti. A Gerusalemme dicono che abbiamo preso in prestito la Terra dai nostri figli. L’assunto di base è che il discorso filosofico fa parte del modo di vivere e la filosofia è una terapia dell’anima
[9] e, aggiungiamo, del Pianeta. Dunque per poter trovare il modo di utilizzare con valenza normativa la testimonianza di Severino, abbiamo triangolato le sapienze della tradizione ebraica, della Magna Grecia e di Oriente.
Saperi in un certo modo complementari perché, in questo gioco triangolare, il senso di ciascuno dei singoli lati lo si rintraccia ripetuto in quello del lato e/o dei lati adiacenti. L’uno e/o i due lati fanno così da sponda all’altro e, se non proprio la conferma, sono almeno l’eco del primo: un gioco di ritorni.
Con questa triangolazione si cerca un più in là al fine di rendere il Destino testimoniato da Severino in qualche modo fruibile come manuale pratico del nostro stare al mondo. La dimensione pratica del Destino nella nostra vita si rintraccia in Atene con gli occhi di Oriente e la si dice