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Democrazia
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E-book687 pagine8 ore

Democrazia

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Info su questo ebook

DICONO CHE VIVIAMO IN UNA DEMOCRAZIA. SIAMO LIBERI E DOVREMMO ESSERNE GRATI.

Ma quanto siamo “liberi”? Quanto sono democratiche le nostre cosiddette “democrazie”?

Basta semplicemente eleggere i nostri leader e starcene seduti a guardare, impotenti, come questi ci governano come dittatori? A cosa serve scegliere i nostri politici se non possiamo controllare i media, la polizia o i soldati? Se dobbiamo seguire ciecamente gli ordini di maestri e capi, a scuola e sul lavoro, non è da ingenui credere che siamo padroni del nostro destino? E se le nostre risorse sono controllate da una ridotta cricca di plutocrati, banchieri e grandi imprese, possiamo dire in tutta onestà che l’economia viene gestita per noi?

Le cose non potrebbero essere un po’ più… beh… democratiche?

Certamente! “Democrazia: manuale dell’utente” ci mostra come…

Nelle pagine di questo libro, ricche di storie, visiteremo la Summerhill, una scuola democratica nell’Inghilterra orientale; per poi fare tappa in Brasile per conoscere la Semco, dove la democrazia sul posto di lavoro la fa da padrone. Viaggeremo nel Rojava, per esplorare la vita in un esercito democratico, e poi ci dirigeremo verso la Spagna, per scoprire perché Podemos sta provando la democrazia liquida. Faremo in viaggio a ritroso nel tempo, per vedere le democrazie all’opera nelle società dei cacciatori-raccoglitori, nelle confederazioni tribali, nelle corporazioni e nei comuni. Esamineremo il caso del bilancio partecipativo, della democrazia deliberativa, dell’assunzione collaborativa, delle valute comunitarie, dei prestiti tra privati e molto altro ancora.

Il messaggio è chiaro e conciso: la democrazia non dev’essere una chimera; abbiamo tutti gli strumenti che ci servono per governarci da soli.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita8 dic 2022
ISBN9781071580769
Democrazia
Autore

Joss Sheldon

Joss Sheldon is a scruffy nomad, unchained free-thinker, and post-modernist radical. Born in 1982, he was raised in one of the anonymous suburbs that wrap themselves around London's beating heart. Then he escaped!With a degree from the London School of Economics to his name, Sheldon had spells selling falafel at music festivals, being a ski-bum, and failing to turn the English Midlands into a haven of rugby league.Then, in 2013, he stumbled upon McLeod Ganj; an Indian village which is home to thousands of angry monkeys, hundreds of Tibetan refugees, and the Dalai Lama himself. It was there that Sheldon wrote his debut novel, 'Involution & Evolution'.Eleven years down the line, he's penned eight titles in total, including two works of non-fiction: "DEMOCRACY: A User's Guide", and his latest release, "FREEDOM: The Case For Open Borders".

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    Anteprima del libro

    Democrazia - Joss Sheldon

    DEMOCRAZIA

    GUIDA DELL'UTENTE

    Joss Sheldon

    Traduzione di Cinzia Rizzotto

    www.joss-sheldon.com

    DEMOCRAZIA: GUIDA DELL'UTENTE

    Copyright © 2020 Joss Sheldon

    Tutti i diritti riservati

    Primeramente publicado en el Reino Unido en 2020.

    Distribuito da Babelcube, Inc.

    www.babelcube.com

    Babelcube Books e Babelcube sono marchi registrati Babelcube Inc.

    Questo libro è venduto a condizione che non venga riprodotto, memorizzato in un sistema di recupero o trasmesso, in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, senza previa autorizzazione di Joss Sheldon.

    Joss Sheldon afferma il diritto morale di essere identificato come l'autore di quest'opera, in conformità con il Copyright, Design and Patents Act del 1988.

    Autore Joss Sheldon

    Traduzione di Cinzia Rizzotto

    Progetto di copertina © 2020 Marijana Ivanova

    A cura di Saun-Jaye Brown.

    Revisionato da Aleksandar Bozic.

    Beta letto da Kajal Dhamija e Amber Ayub.

    INDICE

    INDICE

    INTRODUZIONE

    BREVE (O BREVISSIMA) STORIA DELLA DEMOCRAZIA

    1. LA DEMOCRAZIA PRIMITIVA

    2. LA DEMOCRAZIA CONFEDERATA

    3. IL CONTROLLO DI MASSA NEL MEDIO EVO

    4. L’AVVENTO DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA

    RENDERE LA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA UN PO’ PIÙ RAPPRESENTATIVA

    5. LA DEMOCRAZIA DIRETTA OGGI

    6. SORTEGGIO 2.0

    7. LA DEMOCRAZIA LIQUIDA

    8. IL POTERE DEL POPOLO

    NEL SERVIZIO PUBBLICO

    9. EHI, MAESTRI, LASCIATE IN PACE I BAMBINI!

    10. IL QUARTO POTERE

    11. L’ESERCITO DEL POPOLO

    12. PROTEGGERE E SERVIRE

    LA DEMOCRAZIA ECONOMICA

    13. IL CONTROLLO DEMOCRATICO DEL POSTO DI LAVORO

    14. DOMANDA E OFFERTA

    15. IL POTERE D’ACQUISTO

    16. MOSTRATECI I SOLDI!

    CONCLUSIONI

    BIBLIOGRAFIA

    INTRODUZIONE

    La democrazia!

    Che la si consideri la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre, un far bastonare il popolo, dal popolo e in nome del popolo o semplicemente la strada che porta al socialismo, una cosa sembra certa: la democrazia rappresentativa è qui per dominare il mondo.

    Secondo il Democracy Index di The Economist, il 64,4% degli adulti di tutto il mondo può votare per eleggere i propri leader. La rivista considera ventidue nazioni come democrazie complete. Altre cinquantaquattro sono classificate come democrazie imperfette, cioè celebrano elezioni ma presentano problemi di governo. E altre trentasette sono chiamate regimi ibridi, in quanto le loro elezioni potrebbero non essere libere o eque. (The Economist Intelligence Unit, 2018)

    La democrazia rappresentativa raggiunge anche gli angoli più remoti, ma quanto penetra in profondità, esattamente?

    Basta semplicemente eleggere i nostri leader e starcene seduti a guardare, impotenti, come questi ci governano come dittatori? A cosa serve scegliere i nostri politici se non possiamo controllare i media, la polizia o i soldati? Se dobbiamo seguire ciecamente gli ordini di maestri e capi, non è da ingenui credere che siamo padroni del nostro destino? E se le nostre risorse sono controllate da una ridotta cricca di plutocrati, banchieri e grandi imprese, possiamo dire in tutta onestà che l’economia viene gestita per noi?

    La democrazia rappresentativa mette davvero il potere nelle mani della maggioranza? O le cose potrebbero essere un po’ più… beh… democratiche?

    ***

    Non che sia sempre stato così. Per centinaia di migliaia di anni, gli essere umani sono vissuti in piccoli gruppi che tendevano ad essere di gran lunga più democratici di quanto non lo sia la società moderna.

    Nella prima sezione di questo libro, Breve (o brevissima) storia della democrazia, vedremo come questi gruppi hanno deriso, criticato, disobbedito, ostracizzato, espulso, disertato e perfino giustiziato i loro sedicenti capi, garantendo così che il potere restasse al popolo. Vedremo come questi gruppi si sono combinati fino a formare delle confederazioni democratiche, come la democrazia è sopravvissuta attraverso il Medioevo, grazie ai comuni, ai monasteri e alle corporazioni, e come i movimenti di massa hanno forzato le riforme che hanno portato poi all’avvento delle democrazie rappresentative che oggi dominano il mondo.

    La storia, naturalmente, è un processo in divenire. Nella Sezione Due vedremo come i nostri pari stanno democratizzando il panorama politico al giorno d’oggi

    Daremo un’occhiata ai tipi di democrazia diretta praticati nel Rojava, in Venezuela e in Svizzera, per poi dirigerci verso la Cina, dove sta iniziando a guadagnare terreno la democrazia deliberativa, un moderno metodo di votazione. E torneremo quindi a Dundee, in Scozia, per presentare il bilancio partecipativo, per mezzo del quale la popolazione locale può dire la sua su come viene speso il bilancio del consiglio comunale.

    Nel Capitolo Sette presenteremo la democrazia liquida, un sistema che consente ai membri dei partiti politici, come nel caso di Podemos in Spagna, di proporre e modificare politiche, votare tali proposte e delegare il proprio voto ad altre persone di ideologia affine. Infine, nel Capitolo Otto, esamineremo l’ultimo bastione del potere popolare: la protesta politica.

    Affinché tutti questi strumenti possano realizzare il proprio potenziale, abbiamo bisogno di una stampa libera, che ci fornisca una grande quantità di informazioni valide, e di una popolazione istruita, capace di distinguere la realtà dalla finzione. Nel Capitolo Nove e nel Capitolo Dieci analizzeremo come potremmo raggiungere tutto questo.

    Visiteremo la Summerhill School britannica, le scuole Sudbury americane e le scuole Lumiar brasiliane: democrazie in cui gli alunni si autoistruiscono, stabiliscono le regole e fungono da tribunale. Tracceremo l’ascesa e la caduta della piattaforma di volontari Indymedia, del suo predecessore, la televisione ad accesso pubblico, e del suo cugino democratico, il giornale di proprietà dei soci.

    Ma anche con tutte queste istituzioni in atto, la democrazia continuerà a essere un sogno irrealizzabile fintanto che poliziotti e militari serviranno una minoranza…

    Nel Capitolo Undici faremo un viaggio in compagnia di George Orwell per conoscere il POUM, un’arma democratica gestita dal popolo per il popolo, senza passi dell’oca o ordini sbraitati all’orizzonte. E nel Capitolo Dodici esamineremo alcuni modi in cui potremmo democratizzare la polizia, analizzando i casi dei commissari eletti, delle ronde di quartiere e delle detenzioni eseguite dai cittadini.

    E con questo non ci resta che la Parte Quattro. È la sezione più vasta di questo libro perché tratta un argomento che ci interessa tutti quotidianamente: l’economia.

    Il Capitolo Tredici prende in esame la democrazia sul posto di lavoro, trattando idee come l’assunzione collaborativa, la partecipazione agli utili, la preapprovazione, l’olocrazia e le cooperative dei lavoratori.

    Il Capitolo Quattordici affronta la spinosa questione della corporatocrazia, chiedendosi come possiamo far sì che le aziende producano ciò che domandiamo anziché ciò che vogliono venderci. Daremo un’occhiata alla sharing economy, incarnata dalla Biblioteca delle cose di Toronto, le cooperative di consumatori come il F.C. Barcelona e la proibizione della pubblicità, come quella introdotta a San Paolo del Brasile.

    Nel Capitolo Quindici, tenteremo di risolvere il problema della plutocrazia, con il quale i consumatori più ricchi, con il loro potere d’acquisto superiore possono influenzare indebitamente la distribuzione delle risorse. Valuteremo l’opportunità della politica fiscale, di un ritorno ai comuni, di una società a costo marginale zero e dei circoli d’acquisto.

    Infine, concluderemo dando uno sguardo ad alcuni dei modi in cui potremmo democratizzare l’offerta di moneta: un sistema bancario a riserva totale, moneta intera, banche pubbliche, prestiti peer-to-peer, valute comunitarie e criptovalute.

    ***

    Spero che con questo vi siate fatti un’idea di ciò che vi aspetta.

    Il libro è colmo dei molti altri argomenti qui citati e ho cercato di far sì che fosse tanto piacevole quanto istruttivo. Se cercate un tomo serio, accademico, questo libro potrebbe non fare al caso vostro! Dopo tutto, sono un romanziere. Anche se mi piace pensare che aver conseguito la laurea in economia alla London School of Economics (LSE) mi renda idoneo a cimentarmi nelle scienze sociali.

    Queste pagine contengono una lunga serie di idee e storie, ma molte altre ne sono rimaste fuori. In parte a causa della mia ignoranza e in parte perché l’argomento della democrazia è così titanico che anche le menti più eccelse faticherebbero a rendergli giustizia.

    Mentre scrivevo Democrazia: guida dell’utente, ho avuto spesso la sensazione di aver fatto il passo più lungo della gamba; ma sentivo comunque che questo libro doveva essere scritto.

    La mia opera precedente, Individutopia, affrontava uno degli argomenti che tratteremo nella Parte Quattro: la corporatocrazia. In Individutopia la protagonista cerca di liberarsi dal controllo delle grandi imprese andando in cerca di quella sorta di democrazia terrena, a piccola scala, che scopriremo nel Capitolo Uno.

    Individutopia è stato accolto favorevolmente dalla maggior parte dei lettori, ma tra tutte spicca qualche recensione a una stella. La prima definiva il romanzo come una folle propaganda di sinistra… (che) sembrava un manifesto comunista. L’altra suggeriva che dovremmo accettare il controllo delle grandi imprese perché più di cento milioni di persone sono state uccise dai regimi comunisti e socialisti solo nel ventesimo secolo.

    Gli autori di queste recensioni sembravano credere che esistano solo due tipi di sistema politico: il capitalismo all’americana e il comunismo di stampo sovietico. Dovremmo accettare il controllo delle grandi imprese perché l’unica alternativa è talmente agghiacciante da avere un bilancio delle vittime a nove cifre.

    Ho scritto questo libro per mettere a tacere questa credenza (e per aggiungere un po’ di sostanza agli argomenti trattati un po’ più eccentricamente nei miei romanzi).

    In realtà entrambe queste ideologie implicano un controllo gerarchico. Il primo dà il potere alle società, alle banche, ai plutocrati, e , anche ai governi. Il secondo conferisce tutto il potere allo stato.

    Provo antipatia per entrambe le ideologie. Voglio vivere in un mondo in cui nessuno ci governi dall’alto in basso. Per me, questa è l’essenza della democrazia: un sistema in cui il potere sia detenuto da tutto il popolo, o almeno dalla sua maggioranza.

    Forse questa definizione è diversa dalla vostra. Se è così, spero che abbiate pazienza!

    ***

    Gli autori delle due recensioni, arrabbiati, oserei dire disinformati, hanno detto però una cosa giusta: credo di avere davvero un’inclinazione di sinistra. Chiunque abbia letto i miei romanzi o abbia visto i miei tweet lo può confermare.

    Sono nato in una famiglia conservatrice e sono stato mandato a una scuola privata (anche se solo per quattro anni); non mi sono mai identificato come una persona di sinistra fino a quando non ho lasciato il mio lavoro per fare lo scrittore. A dire il vero, mi sono sempre considerato anarchico e prima ancora di conoscere l’esistenza del termine opponevo resistenza alle figure d’autorità della mia vita: i miei genitori e gli insegnanti.

    Questo spregio innato per l’autorità ha permeato la mia visione politica. Disprezzavo sia la sinistra autoritaria che la destra autoritaria, quelli come Stalin e Mao e quelli come Hitler e Franco.

    Eppure ho davvero un’inclinazione naturale per la sinistra più liberale, un’orientazione che ho sempre cercato di moderare per quanto possibile…

    Nella bibliografia troverete sette riferimenti al Financial Times, tre al Daily Telegraph e perfino uno al Fondo Monetario Internazionale! Può darsi che siano in inferiorità numerica rispetto alle fonti di sinistra, ma tengono comunque il passo.

    Ho incluso inoltre alcune idee che potrebbero porsi più comodamente tra quelle di destra che non tra quelle di sinistra…

    Nel capitolo dedicato alla polizia, troveremo lo sceriffo eletto che fa tutto il possibile per sostenere il diritto dei suoi elettori a portare le armi. Il concetto di sistema bancario a riserva totale è stato sviluppato in un primo momento dagli economisti della Chicago School, tanto amati da Margaret Thatcher e Ronald Reagan. La società a costo marginale zero, proposta come soluzione al problema della plutocrazia, presuppone l’efficienza definitiva dei liberi mercati. Il capitolo sulla democrazia sul posto di lavoro elogia imprese come Google, Pret A Manger e Zappos. Forse non sarò un grande fan di queste grandi imprese, ma sono più che disposto a fare i miei complimenti a quelle che valorizzano e responsabilizzano i propri lavoratori.

    Neanche questo potrebbe bastare per alcune persone di destra. Ma così è la vita. Come si suol dire, gli odiatori odieranno.

    ***

    Ad ogni modo, basta con i preamboli. Passiamo alla sostanza…

    PARTE UNO

    BREVE (O BREVISSIMA) STORIA DELLA DEMOCRAZIA

    1. LA DEMOCRAZIA PRIMITIVA

    Due gorilla entrano in un recinto.

    Il primo, Calabar, è un tipo imponente. La sua corporatura robusta e le sue cosce colossali sembrano gridare: «signore e signori, qui il maschio alfa sono io!».

    Il secondo, Rann, non è affatto una mammoletta. Ma non si può non riconoscere la sua inferiorità: le dimensioni dei suoi muscoli non sono che una frazione di quelle del compagno; le sue unghie e i suoi denti sono di gran lunga meno maligni.

    ***

    I due gorilla entrano nel recinto come compagni. Dopo aver passato varie settimane nella stessa gabbia allo Yerkes Primate Centre di Atlanta, si sono abituati alla presenza l’uno dell’altro.

    Ma l’alleanza non dura a lungo.

    Alla vista di quattro gorilla femmine, si girano l’uno verso l’altro con gli occhi ardenti di lussuria:

    «Questo sarà il mio regno. E queste saranno mie!».

    Pugni d’acciaio martellano il petto di Calabar.

    Le pareti vibrano di giubilo.

    Sul petto di Rann invece le zampe coriacee rimbalzano via. Creano un’eco; udibile, quasi ritmica, ma nemmeno lontanamente rumorosa come il picchiettio martellante di Calabar.

    Lentamente, i primati iniziano a muoversi; si schivano sul terriccio; scalpicciano in un delicato semicerchio celando le loro mastodontiche stazze.

    Torso contro torso. Occhi fissi negli occhi.

    Una pausa tesa. La quiete prima della tempesta.

    Il piede di Rann graffia la terra. Sembra che stia per fare la sua mossa. Come un velocista sui blocchi di partenza, i suoi muscoli si tendono e la sua mascella si protende in avanti.

    Ma è Calabar a caricare per primo, sgusciando oltre la spalla sinistra di Rann. Il pelo irto per l’elettricità statica, i suoi artigli squarciano il suolo.

    Adesso è Rann a mettersi in movimento.

    Come due palline da flipper, si scontrano, rimbalzando contro un muro, poi contro un altro.

    Una nuvola di polvere inghiotte la scena.

    Le gorilla femmine indietreggiano. Si fonderebbero col paesaggio se non fosse per i fischi e gli urli, le braccia sferzanti e i piedi agitati.

    Rann e Calabar attraversano il recinto a zigzag, rimbalzando contro le pareti, dondolando da una corda all’altra. Per poco non entrano in collisione. Poi Rann intercetta Calabar, che inciampa, barcolla, si ricompone e riprende la sciarada.

    Il primo colpo, un manrovescio, manda Rann al tappeto. Si rialza di scatto. Visibilmente scosso, valuta se è il caso di mettersi a combattere, ma ci ripensa.

    Si ritira nell’ombra.

    ***

    Il maschio alfa ha liquidato quello beta e la gerarchia è stabilita.

    O così sembra…

    Potrà anche essere stata la prima battaglia, ma non sarà l’ultima.

    In altri duelli simili, nei giorni seguenti, la forza superiore di Calabar continua a dimostrarsi irresistibile. La bestia mastodontica liquida regolarmente il rivale più debole.

    Ma Calabar non assesta il colpo definitivo. Le schermaglie proseguono…

    I colpi si susseguono. Rivoli di sangue sgorgano dagli squarci sulla pelle coriacea. E poi, durante l’ennesimo confronto, le ginocchia di Rann cedono. Barcolla, cerca di recuperare l’equilibrio e si sorregge mentre l’ombra di Calabar inghiotte tutta la sua sagoma.

    Inclinando la faccia, Rann guarda i solchi che rigano la palma della mano di Calabar. L’avversario incombe dall’alto, pronto ad annientare il rivale più debole.

    Il braccio di Calabar scatta in avanti, ma non si muove oltre. Sospeso in aria, come in un fermo immagine, sembra che il tempo si sia fermato.

    Ma no, il tempo non si è fermato.

    Due gorilla femmine stringono le spalle di Calabar. Una gli sta mordendo, attraverso il pelo, la carne e i muscoli; gli strappa un ciuffo grondante di sangue dal dorso scuotendo le guance, irrorando l’aria con frammenti di pelo e microperle di sangue.

    Torna ad abbuffarsi ancora un po’.

    La seconda femmina lo tiene stretto. Così stretto, di fatto, che le sue unghie si conficcano nella carne di Calabar, estraendone così tanto sangue che il suo pelo da nero diventa marrone e poi cremisi.

    Una terza femmina carica Calabar alle gambe.

    La quarta piomba dall’aria, a braccia tese, e lo afferra alla vita.

    Calabar ulula:

    «Aaaaah!!!».

    E adesso barcolla.

    Ha la carne lacerata nell’addome, nel torace e nelle cosce.

    Il sangue spruzza spettacolare.

    E ora cade.

    E ora geme:

    «Ah… Ah… Ahi!».

    I gorilla si ritirano, lasciano Calabar per terra, in un lago di bile, saliva, fango ed escrementi. La lotta è finita in meno di un minuto, ma il risultato è definitivo.

    Calabar deve essere estromesso dal gruppo.

    Sarà Rann, e non il suo avversario più forte, a occupare il trono.

    Eppure Rann sa, nel profondo, che il suo potere non sarà mai assoluto. La posizione che occupa gli è stata data da un’alleanza di gorilla femmine. Quelle gorilla, abbastanza forti da far fuori Calabar, sono più che capaci di detronizzare anche lui. La posizione di Rann è precaria. Sa che deve governare in un modo che accontenti questa truppa, o anche lui finirà nella polvere, ferito e sanguinante. (Nadler, 1976)

    IL CONTROLLO DEGLI SCIMPANZÈ

    Eventi simili sono stati osservati anche tra i nostri parenti più prossimi, gli scimpanzè, nell’Isola dei primati dello zoo di Arnhem: un recinto pieno di alberi progettato per riprodurre l’habitat naturale di queste scimmie…

    Yeroen, il maschio alfa del gruppo, era noto per i suoi tronfi attacchi maniacali. Guaendo e abbaiando, irrompeva nei gruppi dei suoi simili facendoli disperdere in ogni direzione. L’aria era intrisa di grida spaventate che creavano un’atmosfera satura di tensione.

    Ci voleva sempre un po’ prima che le cose si calmassero.

    Quando infine l’aria si alleggeriva, i seguaci di Yeroen avanzavano in punta di piedi per rendere omaggio al loro leader, si sedevano ai suoi piedi, gli porgevano una mano e gli strigliavano il pelo.

    Queste manifestazioni mantenevano l’ordine naturale. Ricordavano al gruppo che era Yeroen a comandare.

    Ma i ruoli potevano essere capovolti…

    Il nostro maschio alfa si ritrovava spesso ad essere perseguitato da una banda di femmine urlanti. In inferiorità numerica, era evidentemente pietrificato da quest’esibizione di potere collettivo.

    Yeroen poteva anche avere il comando, ma la sua posizione non era mai garantita. Il gruppo faceva di tutto per ricordargli che poteva essere spodestato in qualsiasi momento.

    ***

    Ma per un vero e proprio golpe ci sarebbero voluti dei mesi…

    Quando Yeroen si rese conto che non era più il primate più pazzo e cattivo dell’isola, tentò di puntellare la base dei suoi sostenitori passando più del 60% del suo tempo con le scimpanzè femmine, dal cui beneplacito dipendeva.

    Con tale sostegno sarebbe stato difficile deporlo.

    Yeroen condivideva i dormitori con il maschio beta, Luit; uno scimpanzè più giovane e giocoso giunto insieme a Yeroen da uno zoo di Copenaghen.

    Luit aveva sempre saputo qual era il suo posto. Sprofondava nell’ombra e mangiava solo gli avanzi rimasti sul tavolo del suo superiore.

    Ma le cose erano iniziate a cambiare. Luit camminava negli alloggi come se ne fosse stato il padrone. Prese persino una mela di Yeroen.

    Quando infine i due primati vennero alle mani, fu Luit a ferire il suo leader, lasciando i segni dei suoi denti sul fianco di Yeroen e delle tacche su un piede.

    La mattina dopo Yeroen sembrava un’ombra di ciò che era stato. Il pelo, di solito irto, gli pendeva debole dalle membra. I suoi occhi avevano assunto una patina polverosa.

    Quando gli fu concesso di tornare sull’Isola dei primati, Yeroen crollò subito, mugolando e gemendo, cadde in ginocchio e supplicò il cielo.

    Gli altri scimpanzè non avevano mai visto nulla di simile. In una dimostrazione di soggezione e angoscia, prodigarono a Yeroen grande affetto, ripristinando la sua fiducia come meglio poterono.

    Per Luit il messaggio fu chiaro. Poteva anche aver fatto fuori il re, ma il re aveva conservato il suo regno.

    Luit passò la giornata cercando di fare ammenda, abbracciando nervosamente i sudditi di Yeroen e curando le ferite del suo signore.

    ***

    Il terzo maschio, Nikkie, era una palla di energia nervosa. Personaggio un po’ buffonesco, famoso per le sue esibizioni acrobatiche, Nikkie veniva trattato con disprezzo. Le sue avance sessuali erano spesso respinte. Gli altri gli si sedevano sopra e lo lasciavano in disparte.

    Ma Nikkie si era attaccato alla scia dell’astro nascente di Luit. Da scagnozzo dello sfidante, attaccava sistematicamente qualsiasi femmina fosse vista schierarsi con Yeroen, scoraggiandola dal socializzare con il leader ormai minacciato.

    Sortì l’effetto desiderato. A Yeroen veniva concesso ogni giorno un po’ meno tempo in compagnia delle scimpanzé.

    Vedendo come il suo entourage si assottigliava a poco a poco, Yeroen cadde nella disperazione. Si buttò per terra, tese le braccia in avanti e supplicò le partner di abbracciarlo. Si contorse come un pesce sul ponte di un peschereccio e pianse come un neonato che ha bisogno del latte della madre.

    E fu così che divenne l’artefice della propria rovina…

    Le scenate di Yeroen, che all’inizio gli erano valse un così vasto sostegno, stavolta divennero fastidiose. Anziché provocare simpatia, evocavano pietà e disgusto.

    Dopo tutto, chi mai vorrebbe come leader un bambinone che piange ogni volta che non riesce a farla franca?

    Le femmine si rivolsero a un maschio più forte e costante: Luit.

    Da parte sua, l’ex maschio beta aveva fatto il suo dovere, strigliando a turno tutte le femmine, abbracciandole quando poteva e giocando coi loro piccoli. Pian piano si era guadagnato il loro appoggio.

    Come una scintilla, più che come una fiamma, era giunto ai vertici.

    Alla fine Yeroen accettò la sconfitta. Permise a Luit di scavalcarlo per poi riconciliarsi col rivale di un tempo salutandolo con un abbaio servile.

    Nel giro di un mese la pace fu restaurata. Luit era il maschio alfa indiscusso. E Nikkie, attaccato alle sue sottane, era diventato il maschio beta. (De Waal, 1984)

    DAI PRIMATI AI POPOLI PRIMITIVI

    Noi esseri umani non siamo gorilla e nemmeno scimpanzè. Non ci organizziamo secondo le severe gerarchie lineari che tendono a formare i nostri cugini primati. Né ci affidiamo all’intimidazione o alla violenza per accedere al cibo e ai partner sessuali.

    Ma durante la stragrande maggioranza della storia dell’umanità siamo vissuti in gruppi flessibili, proprio come i nostri parenti pelosi. Come questi primati, abbiamo girovagato per la giungla a volontà, cacciando animali e raccogliendo piante.

    Come le scimmie menzionate in precedenza, le nostre politiche sono state guidate da due desideri: abbiamo un impulso egoista che ci spinge a controllare gli altri, ma ci risentiamo quando altre persone cercano di controllare noi. Ci opponiamo ai bulli più o meno come le femmine si erano opposte a Calabar.

    Con i primati tutto questo sortì un duplice effetto. L’impulso personale verso il potere sfociò in un controllo gerarchico. Allo zoo di Arnhem, Luit raggiunse la vetta, Nikkie si insediò come suo vice e Yeroen fu obbligato ad accettare il terzo posto. Ma la resistenza collettiva del gruppo assicurò che nessuna singola scimmia detenesse nessun potere reale. Il maschio alfa di Arnhem ha la priorità su cibo e sesso. Può attaccare gli altri scimpanzè a titolo individuale, per intimidirli, e può fungere da mediatore. Ma l’insieme dei privilegi del maschio alfa più o meno finisce qui.

    Allo stato brado, uno scimpanzè di primo grado non può obbligare i suoi subordinati a intraprendere una guerra contro altri clan; uno scimpanzè di rango inferiore terrà comunque per me la massima quantità di cibo che trova; può andare dove vuole quando vuole e può addirittura accoppiarsi con una femmina che abbia attirato l’attenzione di un rivale più anziano.

    Ecco che il desiderio di non essere controllati viene alla ribalta, assicurando che i leader non abbiano troppo potere.

    ***

    Per gli esseri umani le cose sono leggermente diverse.

    Grazie alla capacità di controllare risorse, armi e soldati, gli esseri umani possono guadagnare il potere personale sul gruppo. Quando ciò accade ci ritroviamo con i regimi autoritari.

    Nelle società di cacciatori-raccoglitori può succedere occasionalmente: psicopatici, sciamani e i migliori cacciatori possono giungere a spadroneggiare. Ma nella grande maggioranza dei casi i cacciatori-raccoglitori riescono a tenere sotto controllo gli individui affamati di potere. Grazie alla resistenza attiva, queste persone mantengono regolarmente il controllo democratico.

    I primati ci hanno mostrato due metodi con cui ci si può riuscire: le gorilla hanno eliminato con la violenza il maschio più forte; le scimpanzè hanno ostracizzato lentamente il loro ex leader.

    Allo stato brado, gli scimpanzè possono anche prendere e andarsene, abbandonando il maschio alfa impopolare.

    Anche i cacciatori-raccoglitori e le tribù a piccola scala hanno queste armi nel loro arsenale. Anche loro possono giustiziare, ostracizzare e abbandonare gli aspiranti dittatori; anche loro hanno a disposizione alcuni strumenti: la critica, la ridicolizzazione, la disobbedienza e la deposizione. (Boehm, 1991)

    Nel resto di questo capitolo vedremo come questi metodi sono stati utilizzati per mantenere il controllo democratico nelle società primitive di oggi.

    Osservando questi popoli, possiamo dedurre come potesse essere la vita degli esseri umani nel passato. Questi gruppi ci offrono una sorta di storia vivente, una lente attraverso la quale possiamo guardare a ritroso l’età della pietra.

    Proprio così.

    Ma la lente può essere un po’ sfocata. Questi gruppi sono stati in contatto, per vari millenni, con stati agrari e imperi, predoni e commercianti. Le loro culture sono state modellate dall’interazione con questi estranei o dal tentativo di evitarli. Per certi versi le loro società possono essere simili a quelle dei loro antenati, ma per altri possono essere diverse.

    Dovremmo procedere con cautela. (Graeber e Wengrow, 2018)

    L’OSTRACISMO DEGLI UTKU

    Nel cuore del circolo polare artico, per gli eschimesi Utku la vita procede lentamente, come ha fatto per millenni. La gente vive ancora in tende e igloo; mangia pesce, foca e caribù. È sempre fredda, come la brezza glaciale.

    Gli Inuit non si arrabbiano.

    Una persona arrabbiata può diventare violenta, sottomettere i dissenzienti, insorgere e dominare l’intero gruppo. E questo per gli Utku è inconcepibile.

    ***

    Agli Utku viene insegnato fin dai primi anni a non mostrare nessuna sorta d’ira.

    Se un bambino Utku prendesse un sasso e lo tirasse a sua madre, lei potrebbe dire: «Oh, fa male»; ma la sua voce sarebbe appena più forte di un bisbiglio.

    Anziché ricorrere a parole o azioni severe, per far sì che i bambini si comportino bene i genitori raccontano loro delle storie…

    Non volete che un bambino vaghi tra le acque gelate? Fantastico! Raccontategli dello terribile mostro marino che lo trascinerà nei più oscuri abissi per divorarselo a colazione.

    Non volete che un bambino prenda del cibo senza chiedere permesso? Fantastico! Ditegli che se lo fa usciranno delle lunghe dita che lo prenderanno.

    E se una storia non funziona? Bene. Allestite una recita. Lasciate che il bambino veda coi suoi occhi le conseguenze di un comportamento violento. (Doucleff e Greenhalgh, 2013)

    ***

    Il primo occidentale a studiare gli Utku fu una giovane linguista e antropologa chiamata Jean Briggs.

    Al suo arrivo, Briggs fece fatica ad adattarsi: evitare la benché minima dimostrazione d’ira non era un compito facile.

    La situazione precipitò quando gli Utku accettarono di prestare una delle loro canoe a un paio di turisti; non che fossero entusiasti dell’idea, la richiesta li infastidiva, ma volevano evitare uno scontro.

    Quando i turisti ruppero la canoa, Briggs li informò che i suoi amici ne avevano solo un’altra ancora, su cui contavano per andare a pesca. E dal momento che era fragile e difficile da sostituire, Briggs chiese loro di non usarla.

    I turisti andarono in persona a parlare con la gente del posto.

    Messi alle strette, gli Utku cedettero. Acconsentirono alla richiesta dei turisti.

    Briggs era visibilmente turbata. Non poteva sopportare di vedere un tale abuso ai danni dei suoi amati ospiti.

    Con le lacrime agli occhi, scappò via e pianse.

    Per gli Utku quello sfogo emotivo fu semplicemente inaccettabile: lasciarono Briggs nella sua tenda, sola ed emarginata, per quasi novanta giorni.

    ***

    Benché Briggs cercasse di difendere il gruppo e benché la sua ira fosse innocua, per gli Utku era comunque troppo da sopportare. Gli Utku non tollerano nessuna sorta d’ira, a prescindere dalle circostanze. Una persona arrabbiata può insorgere e arrivare a dominare il gruppo.

    Briggs non aveva alcun desiderio di dominare il clan, ma quando si era arrabbiata aveva affrontato i turisti parlando in nome del gruppo, come una leader di fatto.

    Eliminando il comportamento emotivo, gli Utku eliminano il mezzo mediante il quale possono giungere a dominare i propri vicini. Quel che resta è una società senza leader, in cui il popolo si autogoverna:

    Gli Utku, come altri clan eschimesi, non hanno leader formali la cui autorità trascenda quella del singolo nucleo familiare. Apprezzando il pensiero e l’azione indipendente come prerogativa naturale, tendono a guardare con sospetto chiunque sembri aspirare a dire loro cosa devono fare.

    ***

    Alla fine Briggs fu reintegrata nel gruppo.

    Per una delle famiglie indigene, invece, non fu così.

    La famiglia più piccola nel gruppo di Briggs consisteva di soli tre membri: Niqi, suo marito Nilak e una figlia adottiva diciassettenne.

    Si emarginarono da soli. Niqi non cucinava mai, cuciva meno degli altri, raccoglieva la legna da ardere da sola e accendeva il fuoco solo per sé. Era considerata tirchia, una persona che non condivideva con gli altri quanto dettato dal decoro sociale; ometteva ripetutamente di svolgere la sua parte di lavoro comunale.

    Nilak, dal canto suo, era considerato scontroso e scostante.

    C’era la sensazione generale che entrambi, marito e moglie, non fossero mai lontani dal mostrare il tabù emotivo: l’ira.

    Ritenuti una presenza antisociale, Niqi e la sua famiglia furono spinti in uno stato di semiostracismo. Non vivevano lontano dal resto del clan, ma li separava un abisso. Arroccati sull’altra sponda delle rapide, a poche centinaia di metri dal campo collettivo, sembravano delle ombre; presenti, in movimento, ma non del tutto reali.

    I fratelli di Niqi non la ignoravano mai completamente. Quando lei li salutava con un ciao, rispondevano con un saluto simile. Quando sorrideva, ricambiavano il sorriso. Ma non erano mai loro a iniziare i contatti.

    In una società affiatata, i cui membri contano l’uno sull’altro per sopravvivere, l’ostracismo di Niqi era una delle punizioni più dure che si potessero immaginare. (Briggs, 1970)

    ***

    Questo cosa ci dice?

    Ci dimostra che esiste un’etichetta sociale; una legge non scritta che gli Utku devono seguire: devono contribuire al benessere economico del gruppo facendo la propria parte, pescando, cucinando e cucendo. E dimostra che questa legge non scritta viene applicata; non dall’alto in basso, da un capo autoritario, ma dal gruppo. Chiunque rifiuti di contribuire viene punito; è ostracizzato, ignorato e spinto ai margini della società da tutti gli altri membri del clan.

    Vietando le dimostrazioni d’ira, gli Utku eliminano il mezzo mediante il quale i leader potrebbero giungere al potere. Ma la mancanza di un leader non significa mancanza di controllo: significa che il controllo è esercitato dalla comunità nel suo insieme.

    La società Utku è democratica. È il gruppo a comandare.

    IL RIDICOLO DEI !KUNG

    L’ira può catapultare un individuo in una posizione di potere. La gente può seguirne gli ordini solo per paura di soffrire se non fa così. Questo spiega perché gli Utku erano così propensi a ostracizzare le persone dal carattere collerico.

    Ma c’è un altro modo in cui un individuo può arrivare a dominare il gruppo. Non col bastone, ma con la carota…

    ***

    Immaginate di essere il più grande cacciatore del vostro clan. Sono passati vari giorni da quando qualcuno ha ucciso un animale ed ecco che tornate a casa con una maestosa antilope.

    Cosa fate?

    Potreste tenervi tutta la carne e consumarla in vari pasti. O potreste condividerla, facendo solo un pasto o due prima che il gruppo divori la vostra munificenza.

    Nel breve termine, fareste meglio a tenere l’antilope per voi. Ma se lo faceste i vostri compagni morirebbero di fame; quando vi troverete in un periodo di sfortuna e non riuscirete a trovare del cibo, non sarà rimasto nessuno ad aiutarvi.

    In questo scenario muoiono tutti, voi compresi, e il clan si estingue.

    Oppure potreste condividere la carne. I vostri cari sopravvivrebbero e quando le cose gireranno male per voi, o quando sarete troppo vecchi per cacciare, probabilmente vi restituiranno il favore; verranno a salvarvi condividendo il loro cibo con voi.

    In questo scenario l’intero clan sopravvive.

    ***

    In questo caso ci troviamo davanti a un semplice caso di sopravvivenza del più adatto. Solo che il più adatto non è da intendersi come l’individuo più forte. È il clan più egualitario: il clan che condivide è quello che sopravvive.

    Questo sistema, in cui tutti condividono il proprio cibo, è noto come comunismo primitivo. Lo possiamo trovare nelle società di cacciatori-raccoglitori di tutto il mondo.

    Ma ecco il dilemma…

    Cosa impedisce a voi, il miglior cacciatore, di prendere il controllo del gruppo? Dal momento che controllate la quota maggiore della ricchezza del gruppo, la carne, potreste rivendicare potere, fama e gloria prima di condividere tale ricchezza con gli altri, cui non resterebbero che due opzioni: obbedire ai vostri ordini o morire di fame.

    ***

    Prendiamo il caso dei !Kung, i boscimani del Kalahari noti per la loro abilità nel cacciare giraffe, facoceri, orici, kudu, gnu, antilopi alcine e comuni e alcefali.

    Se doveste tornare dal vostro clan !Kung con un animale appena ucciso, i vostri fratelli non vi accoglierebbero con grandi elogi, come invece vi potreste aspettare.

    Perché?

    (Perché) quando un uomo giovane uccide tanta carne, arriva a considerarsi un grand’uomo e pensa che il resto di noi sia inferiore. Non possiamo accettarlo. Rifiutiamo chi si vanta, perché un giorno il suo orgoglio gli farà uccidere qualcuno. Quindi diciamo sempre che la sua carne non vale niente. In questo modo raffreddiamo il suo cuore e lo rendiamo mite.

    Un cacciatore quando torna deve restare umile, sedersi all’ombra e aspettare che siano i compagni del clan a rivolgersi a lui, chiedendo magari:

    «Cos’hai visto oggi?».

    «Ah, non sono bravo a cacciare. Non ho visto un bel niente. Beh, forse qualcosa di piccolo, ma niente di più.»

    Questa modestia può significare solo una cosa: quella persona ha ucciso un animale di grande stazza. Ma ciò non significa che verrà lodato. Quanto più meraviglioso è l’animale, tanto più grande è lo scherno che può aspettarsi di ricevere:

    «Vuoi dire che ci hai trascinati fin qui per farci portare a casa il tuo mucchio di ossa? Oh, se avessi saputo che era così magro non sarei venuto. Ragazzi, e pensare che ho rinunciato a una bella giornata all’ombra solo per questo! A casa forse avremo fame, ma almeno abbiamo una bella acqua fresca». (Lee, 1979)

    ***

    L’uso del ridicolo dei !Kung fa restare umili gli aspiranti leader.

    Va da sé che i !Kung sono ferocemente antiautoritari, tanto quanto gli Utku. Hanno dei leader di nome, gli anziani del gruppo, che giungono a decidere dove si sposterà il gruppo e sorvegliano il processo del taglio e della distribuzione della carne.

    Ma questi anziani non vengono trattati con deferenza. Non ricevono cibo extra, armi o vestiti. Non godono di una posizione privilegiata accanto al fuoco. Non hanno nessun potere giudiziario.

    Se un individuo minaccia il gruppo, il gruppo funge da giudice e da giuria. Se un individuo minaccia un altro individuo, i due vengono lasciati da soli in modo che possano risolvere il conflitto. Gli anziani non possono intervenire. (Brownlee, 1943)

    ***

    I !Kung deridono regolarmente gli aspiranti capi, negando loro quel rispetto che servirebbe loro per comandare. Il potere resta al popolo.

    È una pratica abbastanza diffusa. Nell’India meridionale, quando un gruppo di Paliyan provava a invocare gli dei per ottenere il potere sul proprio clan, la comunità derideva sia loro che i loro dei. Nel nord della Tanzania, quando un Hadza cercava di formare un’alleanza di subordinati, veniva accolto da un coro di fragorose risate. Gli antropologi hanno osservato comportamenti simili tra i pigmei Mbuti, gli aborigeni Ngukurr e gli Enga della Papua Nuova Guinea. (Boehm, 1993)

    LA CRITICA E LA DEPOSIZIONE PRESSO I CUNA

    Ora visitiamo le isole San Blas, al largo della costa nordorientale di Panama; un paradiso tropicale dove acque turchesi lambiscono spiagge di sabbia dorata, le palme stormiscono nella brezza salata e il popolo Cuna vive come ha fatto per secoli, pur influenzato dal governo nazionale panamense.

    A differenza degli Utku e dei !Kung, i Cuna non sono cacciatori-raccoglitori nomadi. Vivono in villaggi. E ciascun villaggio ha dei governanti di nome: un insieme di capi, un portavoce e un poliziotto. Alcuni nominano anche dei leader per dei singoli compiti, ad esempio per costruire le case. Possono anche trattare questi leader con rispetto, ricoprendoli di metafore lusinghiere. Eppure, proprio come nel caso degli scimpanzè alfa, questi capi non hanno nessun potere reale. Vengono eletti direttamente dagli abitanti del villaggio, possono essere deposti in qualsiasi momento, vengono regolarmente criticati e devono soccombere sempre alla volontà popolare.

    Il loro ruolo è educativo e cerimoniale. Organizzano riunioni sacre due o tre volte alla settimana; guidano gli abitanti del villaggio nel canto, raccontano le tradizioni popolari e definiscono i codici morali. Ma le loro decisioni vengono rispettate solo se sono state approvate con una votazione democratica.

    In sostanza, i Cuna si avvalgono di una democrazia diretta, in cui i leader di nome fungono da presidenti: sorvegliano il processo decisionale, ma senza avere il potere di dettare essi stessi le politiche. Come moderatori, devono restare calmi e semineutrali. In realtà hanno meno libertà di esprimere la propria opinione rispetto a tutti gli altri.

    Questa neutralità forzata si estende perfino all’ambito giudiziario. Se il capo di un villaggio nota un conflitto, non ha il diritto di intervenire, ma ha la responsabilità di sollevare l’argomento dell’incidente alla successiva riunione del villaggio.

    ***

    Ma cosa succede se un capo prende una decisione senza il consenso del popolo?

    Il popolo lo criticherà.

    Vediamo cosa successe quando un funzionario panamense visitò un villaggio cuna mentre la maggior parte degli abitanti era assente…

    Il ministro, che voleva che il villaggio producesse un surplus di pesce, chiese a un capo quante reti sarebbero servite al villaggio. Il capo, parlando in via ipotetica, disse che probabilmente gliene sarebbero servite due.

    Nonostante avesse fatto solo un suggerimento, senza prendere nessun impegno irrevocabile, alla successiva riunione del villaggio il capo fu rimproverato. Gli abitanti del villaggio lo circondarono, rendendo l’atmosfera piccante con le loro accuse. Dissero al capo che le future discussioni con i funzionari del governo si sarebbero dovute tenere di sera, quando gli altri abitanti del villaggio vi avrebbero potuto partecipare, e che non avrebbe dovuto fare mai più nessun suggerimento senza consultare il gruppo.

    In un’altra occasione, quando un capo cercò di difendere le imprudenze di suo figlio, vari abitanti del villaggio lo zittirono, rimproverandolo con la massima severità.

    Queste critiche sono la norma nella società cuna. I subordinati criticano chi è al potere e i giovani criticano regolarmente gli anziani.

    ***

    La cultura dei Cuna si ispira ai loro racconti orali.

    I racconti che parlano di leader mediocri insegnano agli abitanti del villaggio ad essere critici con i loro capi. Dopo tutto, potrebbero diventare mediocri in qualsiasi momento.

    I racconti che parlano dei grandi leader, invece, vengono accolti con una risposta del tipo: «Perché tu, che sei il nostro capo attuale, non sei così bravo come i leader che avevamo una volta?».

    Per mezzo di questi racconti, i Cuna arrivano a diffidare dei propri leader. Questa diffidenza li incoraggia a criticare i propri capi, una prassi che fa restare umili i leader e impedisce loro di accumulare un potere eccessivo.

    ***

    E se il capo è criticato troppo o troppo spesso?

    Sarà deposto

    Il capo perderà il rispetto che gli serve per governare, sarà estromesso dal potere per votazione e al suo posto sarà eletto un nuovo capo.

    Succede così spesso che esiste il ruolo ufficiale di ex capo.

    Anziché permettere che la loro esperienza vada sprecata, gli ex capi normalmente vengono accolti su un’altra isola, dove diventano depositari della tradizione, una sorta di cantastorie. Dopo un periodo di raffreddamento, possono anche essere riaccolti nel loro villaggio d’origine. Ma non saranno mai più capi. (Howe, 1978)

    ***

    I Cuna, quindi, adottano due misure per assicurare che i loro leader servano il popolo: li criticano ogni volta che sbandano leggermente e li destituiscono ogni volta che sbandano parecchio.

    Anche altri gruppi tribali criticano e destituiscono i propri leader…

    Un capo Iban che agisce così spudoratamente da dare un ordine sarà sicuramente respinto dal suo popolo. Gli Xavante e i pigmei Mbuti zittiscono i cacciatori troppo assertivi. I subalterni critici aiutano a controllare i capi Navajo.

    Gli Assiniboin, gli Yokut, gli Yap, i Nyakyusa e i Somali cacciano i leader al potere quando si montano la testa. (Boehm, 1993)

    L’OPINIONE PUBBLICA E LA DISOBBEDIENZA DI MASSA DEI TIKOPIANI

    Tikopia è un’isoletta sperduta nell’oceano Pacifico. Situata sopra un vulcano inattivo, ha pochissime risorse e a malapena un migliaio di abitanti.

    Così come i Cuna, anche i Tikopiani hanno dei leader, quattro ragazzi capi organizzati secondo una gerarchia lineare.

    A differenza dei Cuna, i capi tikopiani sono separati dai loro sudditi. Agli isolani non è permesso toccarli o fare troppo rumore quando sono nelle vicinanze. I ragazzi capi non sono tenuti a fare nessun lavoro fisico; detengono l’autorità e possono prendere decisioni politiche senza votazioni pubbliche.

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