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Un caso complicato per l'ispettore Turner
Un caso complicato per l'ispettore Turner
Un caso complicato per l'ispettore Turner
E-book407 pagine5 ore

Un caso complicato per l'ispettore Turner

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Info su questo ebook

«Willocks ha uno straordinario talento.» Time Out 

Una pericolosa rete di intrighi nasconde la verità su un omicidio

Città del capo. Durante un weekend, una lussuosa Range Rover travolge una ragazza di strada. Al volante c’è il figlio di Margot Le Roux, la donna che gestisce gran parte del business minerario dello Stato. Margot, figura di spicco nell’influente élite di bianchi del Sudafrica, non è disposta a lasciare che le ambizioni del figlio siano compromesse dalla morte di una ragazza senza nome, per giunta malata. Il ragazzo, dal canto suo, non ricorda nulla di quanto è accaduto: era troppo ubriaco per accorgersi dell’impatto, e gli amici che erano in macchina con lui hanno preferito abbandonare la vittima al proprio destino. Tutti sanno che, con le giuste pressioni, qualunque legge può essere aggirata… Quando l’ispettore Turner viene incaricato di risolvere il caso, si trova a fare i conti con una fitta rete di intrighi e corruzione. Per fare luce sull’accaduto deciderà di raggiungere la remota città mineraria che Margot possiede. Ma la donna intende coprire suo figlio a qualunque costo. L’odissea di Turner per scoprire la verità è appena iniziata...

Un autore tradotto in 20 lingue

Cosa accade quando un uomo dall’assoluta integrità si trova intrappolato in una rete di intrighi e corruzione?

Hanno scritto dei suoi romanzi:
«Pura narrativa adrenalinica.»
James Ellroy

«È raro trovare uno scrittore con così tanta passione ed energia.»
The New Yorker

«Un romanzo brillante, poetico...un trionfo letterario.»
New York Times
Tim Willocks
è scrittore, sceneggiatore e produttore. I suoi libri sono stati tradotti in venti lingue e hanno ottenuto un successo mondiale. Ha lavorato con i più grandi registi di Hollywood, cenato alla Casa Bianca e conquistato la cintura nera di karate. Da qualche anno vive in Italia e ha pubblicato con la Newton Compton il romanzo Un caso complicato per l'ispettore Turner.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2018
ISBN9788822725035
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    Anteprima del libro

    Un caso complicato per l'ispettore Turner - Tim Willocks

    PARTE PRIMA: DOMENICA

    THIRSTLAND

    1

    La ragazza imboccò quella strada senza un particolare motivo, tanto una valeva l’altra. Nell’umido labirinto della township di Nyanga le vie si assomigliavano tutte. Non erano nemmeno vere strade, solo strisce di fango cotto dal sole tra file di baracche e container arrugginiti trasformati in case.

    Se c’era già passata, non se lo ricordava. Non ci provò nemmeno. Non sapeva che farsene dei ricordi. La sua memoria era un posto sempre più vuoto, e lei lo frequentava il meno possibile per evitare di svegliare i mostri che vi si annidavano.

    Ignorava che ora fosse. Non sapeva che farsene del tempo. I cani avevano smesso da un pezzo di latrare ed erano andati a dormire. Le bastava sapere che c’erano buio e silenzio; e poca gente in giro.

    Non sapeva che farsene della gente, della loro compagnia, dei loro sentimenti, del loro aiuto, delle attenzioni, delle bugie. Le interessavano solo le cose che gettavano via, e che la tenevano in vita. Persino in un posto del genere, bastavano gli scarti a garantire la sopravvivenza, esattamente come facevano i ratti. Se si metteva a contrattare forse riusciva ad averne di più, ma aveva imparato che quel briciolo extra non valeva il prezzo dell’umiliazione. E talvolta del pericolo.

    I ratti in fondo se la cavavano, e così faceva lei.

    Vagò in quel labirinto senza una meta. Senza ambizioni, senza obiettivi, senza uno straccio di desiderio. Aveva scoperto che persino il bisogno si poteva vendere, ma sempre al ribasso. Prima o poi sarebbe crollata per la stanchezza; e a quel punto si sarebbe rintanata, strisciando, in qualche buco per unirsi ai cani nei loro sogni. Al risveglio si sarebbe rimessa in cammino.

    Non sapeva che farsene dell’autocommiserazione. Gli animali non si commiserano, soffrono e basta. I bambini non si commiserano. Conoscono solo il dolore fisico, la tristezza e la confusione. Provi pietà per te stesso solo quando sei al sicuro; e lei non ne aveva mai avuto l’occasione.

    Vide le automobili e si fermò. Erano due: una bianca, l’altra rosso sangue, parcheggiate una accanto all’altra, col muso in fuori, su uno spiazzo lurido davanti a uno shebeen.

    Erano così belle.

    Arenate tra i tuguri e i container arrugginiti, le due auto brillavano di luce propria. Né il lampione solitario e distante, né la pallida mezzaluna, né il bagliore proveniente dal bar erano responsabili di tanto splendore. Risplendevano di potere, ingegno e ricchezza: una dedizione fanatica e sfrenata a uno stile di vita molto lontano dal suo, come le costellazioni che ruotavano sopra di lei. Era commossa da tanta perfezione.

    Sorrise come una bambina davanti a una meraviglia appena scoperta.

    Si guardò intorno e non vide nessuno. Corse verso le automobili.

    Da vicino sembravano bestie accovacciate, grosse e silenziose. Percepì la loro potenza dormiente e avvertì un brivido lungo la schiena. Sui cofani rilucevano lettere argentate. Toyota. Range Rover. Girò intorno all’automobile bianca e sbirciò dai finestrini. Non vide niente, perché il vetro era oscurato. Mise una mano sulla maniglia, esitò, la ritrasse. Quelle auto non le avrebbero dato niente di ciò che le serviva. Le avevano offerto un attimo di meraviglia, e doveva accontentarsi. Quando una raffica di suoni, proveniente dallo shebeen, si riversò nel vicolo, la ragazza si girò e si nascose tra le due grosse automobili.

    Voci. Musica. Uno scoppio di risate sguaiate. I suoni si affievolirono di nuovo.

    Guardò lo shebeen. Era una baracca lunga e stretta, mezza coperta dalle erbacce, costruita con tavole di varie origini e un tetto di lamiera.

    Un africano alto stava fuori dalla porta. Indossava un completo nero e una camicia bianca che gli conferivano una bellezza aliena, simile a quella delle auto. Capì subito che era pericoloso. Aveva già ammazzato qualcuno, ed era pronto a uccidere ancora. Sfoggiava quel potere letale con naturalezza, così come indossava il suo completo: con la sobria sicurezza che deriva dall’esserselo guadagnato. Sapeva anche che non si sarebbe mai abbassato a farle del male. Al massimo l’avrebbe cacciata via. Lei voleva solo guardarlo. Anche lui era molto bello. All’improvviso, l’uomo si girò verso le due automobili.

    La ragazza si abbassò. Forse era il proprietario, oppure aveva il compito di tenerle d’occhio. Strisciò verso il cofano dell’auto rosso sangue, la Range Rover, e alzò brevemente la testa per guardarlo di nuovo. Lui non l’aveva vista.

    L’uomo si portò una mano al volto: teneva un panino avvolto in un tovagliolo di carta. La ragazza sentì lo stomaco stringersi per la fame. Lui esaminò il panino con entusiasmo, poi diede un morso. Masticò e fece una smorfia di disgusto. Si chinò e sputò il boccone.

    «Porca puttana».

    Sputò ancora, osservando il panino che aveva in mano. Poteva anche buttarlo per terra, nessuno se ne sarebbe accorto in mezzo a tutta quella spazzatura, ma non era quel tipo di persona. Guardò oltre la Range Rover. Anche la ragazza si girò a guardare.

    A pochi metri dalle macchine, pigiati contro il muro dell’edificio sul retro del parcheggio, c’erano tre cassonetti di metallo nero. Solo allora ne avvertì il tanfo. L’uomo attraversò il vicolo e passò in mezzo alle due automobili. La ragazza si accovacciò, facendosi piccola piccola. L’uomo usò il fazzoletto di carta per sollevare il coperchio del cassonetto e vi gettò dentro il panino. Tornando alla sua postazione fuori dal bar, prese una bottiglietta d’acqua dalla tasca dei pantaloni e la aprì. Si sciacquò la bocca, sputò e bevve un altro sorso.

    La ragazza aveva una borsa a tracolla, di tela a righe. Vi frugò dentro e prese un accendino di plastica. Controllò se funzionava. Tornò a nascondersi dietro il macchinone rosso sangue e guardò il cassonetto. Si arrischiò a lanciare un’occhiata all’uomo. Sarebbe riuscita a raggiungere il cassonetto senza farsi vedere? Ci pensò un po’.

    Si sentì il boato di uno sparo.

    Dal muro dello shebeen schizzarono polvere e schegge.

    L’uomo alto lasciò cadere la bottiglia e, fulmineo, tirò fuori una pistola da sotto la giacca. Aprì la porta e svanì all’interno.

    La ragazza corse al cassonetto e alzò il coperchio, che sbatté contro il muro e si richiuse. Lo alzò di nuovo, lo spostò dall’altra parte e lo bloccò. Allontanò il viso dalla zaffata acre che si levò dal bidone. Il coperchio rimase dov’era. La parte superiore del cassonetto le arrivava alle spalle. Sbirciò oltre il bordo, nella totale oscurità. Tese un braccio e impugnò l’accendino. La luce della fiammella si riversò su una massa disordinata di rifiuti di ogni genere, per lo più organici e brulicanti di insetti. Il cassonetto era pieno per tre quarti. La ragazza esplorò quel sudiciume con la fiamma dell’accendino, ma non riuscì a individuare il panino.

    Si allontanò barcollando e si piegò in preda ai conati. Appoggiò le mani sulle ginocchia finché non si sentì meglio. Si asciugò le lacrime dagli occhi, fece tre respiri profondi e trattenne l’ultimo, infine si raddrizzò. Tornò al cassonetto e sporse la testa oltre il bordo. Si alzò in punta di piedi, allungò l’accendino e sfregò la rotella finché non si accese.

    La porta del bar si aprì e si levarono delle voci alle sue spalle, una sovrastava tutte le altre.

    «Simon, riporta Mark e Chris all’hotel. Io accompagno questi due buffoni».

    Lo scatto delle sicure che si aprivano. Lampi di luce. La ragazza si girò a guardare. L’africano alto spingeva due giovani bianchi verso la Toyota. Barcollavano entrambi. Anche se l’avessero vista rovistare nella spazzatura, l’avrebbero ignorata. La ragazza si rimise a frugare.

    «Dirk? Dammi quelle dannate chiavi». Di nuovo la voce tuonante. Un accento straniero.

    «È la mia fottuta macchina». Una voce biascicata, più giovane.

    «È di tua madre. Dammi subito le chiavi».

    Il tonfo violento degli sportelli. Il rombo iniziale di un motore.

    «E voi che volete, pezzenti?». Lo straniero. Poi due nuove voci che urlavano, ma non si capivano le parole. La voce dello straniero le sovrastò. «State zitti e datevi una calmata. Tieni, prendi questi. Prendili, ho detto. Comprati un poster nuovo. Anzi, sai che ti dico? Comprati un nuovo bar. Ora levati dai coglioni, prima di finire male».

    Altri scatti di sicure. I fari lampeggiarono alle sue spalle.

    «Te l’ho già detto, levati dai coglioni. Dirk!».

    «Non dovevi umiliarlo».

    «Mettiti subito al volante, o le suono anche a te».

    «Mica avresti il coraggio».

    La ragazza sentì allontanarsi la macchina alla sua sinistra, quella bianca.

    Vide il panino.

    L’accendino si spense. Lo riaccese. La fortuna era dalla sua parte. Il panino era atterrato su un sacchetto di plastica, ma era fuori portata. Piegò le gambe per darsi lo slancio, afferrò il bordo del cassonetto con entrambe le mani e si calò all’interno, penzolando a metà. Sentì la parte metallica affondarle nella pelle, appena sotto il costato, ma non era la prima volta che lo faceva. Il panino era sparito di nuovo. Fece per accendere l’accendino, ma senza risultati. Sentì sbattere una portiera; poi un’altra. Finalmente l’accendino fiammeggiò. Il rombo di un’auto in partenza. La ragazza vide il panino.

    Allungò un braccio e lo afferrò. Altre grida litigiose. Quando si spinse indietro, un fascio di luce bianca proiettò la sua ombra sul coperchio tirato su. Il motore, accelerando di giri, levò un lamento. La ragazza saltò giù e si girò per atterrare di lato. Chiuse gli occhi, accecata dai fari bianchi che si avvicinavano veloci, troppo veloci.

    Lo schiocco delle ossa rotte.

    Le esplosero gli organi interni.

    E la faccia si schiantò contro il vetro.

    I suoi sensi annegarono. Era cieca. Abbagliata da luci colorate. Inchiodata per aria. Precipitò. Non aveva aria nei polmoni, non poteva urlare. Vide il cielo stellato.

    Per un attimo, non sentì nulla, non udì alcun suono. Guardava le stelle. Il suo corpo la avvertì. Stava raccogliendo le forze, si stava preparando per offrirsi completamente a un dolore intollerabile. Un dolore che ormai era solo un fantasma: baluginava dietro il velo della realtà, in attesa dell’energia per materializzarsi. La ragazza avvertì la presenza del fantasma. Lo sentì arrivare. Era la sua stessa carne. Provò un terrore devastante. Un terrore così intenso che per qualche secondo tenne a bada il fantasma. Luci rosse scrutarono il suo viso.

    «Spegni il motore! DIRK! Spegni quel fottuto motore!».

    Il motore si spense.

    La ragazza girò la testa verso le voci. Guardò l’automobile rossa e slanciata. Un bianco corpulento aprì lo sportello e infilò dentro la faccia barbuta.

    «Sei contento?»

    «È la mia macchina».

    «Sei un debole. Sei un imbecille. E sei ubriaco. Ora spostati e mettiti la cintura».

    L’omaccione caricò il pugno.

    «Va bene, va bene! Scusa».

    La ragazza voleva dire qualcosa, ma temeva che parlando avrebbe invitato il fantasma. Girò la testa. Un altro uomo la fissava dal finestrino posteriore. Era giovane, bianco, aveva un collo taurino. Sembrava inorridito. La ragazza aprì la bocca ed emise un basso lamento finché un dolore atroce allo stomaco le tolse il fiato. Il giovane bianco chiamò l’altro.

    «Hennie, non trovo il telefono. Dammi il tuo».

    «A che ti serve il telefono, testa di cazzo?».

    L’omaccione si girò e la vide. Aggrottò la fronte, ma non pareva sconvolto; era come se avesse visto una gomma spiaccicata a terra. «Merda».

    La ragazza cercò di parlargli con gli occhi. Lui ricevette il messaggio. Si strofinò la barba con il pollice. Fece una smorfia. Rimase impassibile.

    «Hennie, dammi il telefono, cristo santo!».

    «Tieni la bocca chiusa, imbecille».

    Il ragazzo seduto dietro aprì lo sportello e l’omaccione, Hennie, fece un passo e glielo chiuse in faccia. Scrutò la ragazza. Lei tentò di guardarlo negli occhi, ma vide solo puntini di luce nelle orbite nere.

    La voce ubriaca dal sedile davanti: «Che è successo, adesso?».

    Hennie la guardò ancora per un momento. Lei alzò un braccio verso di lui. Sentì lo strappo di una membrana, un altro schiocco di ossa rotte.

    «Non è successo niente», rispose Hennie. Le voltò le spalle. «È ora di partire per il mondo dei sogni».

    La ragazza lo guardò salire in macchina e chiudere lo sportello. Il motore ripartì. Il giovane viso riapparve al finestrino posteriore e la sbirciò: stava piangendo.

    La ragazza osservò l’automobile rosso sangue che si allontanava tra le baracche.

    Un ultimo lampo dei fanali posteriori. Poi il buio.

    E il fantasma s’impossessò del suo corpo.

    2

    Hennie guidava da sette ore. Erano a trecento chilometri da Città del Capo, e a trenta minuti da casa. Gli aveva fatto piacere vedere l’alba e non era stato indifferente al suo inquietante splendore, ma attraversare il Capo Settentrionale in pieno sole non era un’esperienza gradevole. Era una regione più estesa della Germania. Un deserto arido e steppico, che si perdeva all’orizzonte in ogni direzione. Il cielo di un azzurro feroce. Sempre. C’erano giorni in cui avrebbe ballato di gioia se avesse visto una sola nuvola.

    Non gli era mai piaciuto visitare i posti, fare il turista, anche se aveva visto la sua bella fetta di mondo. Forse perché era londinese. Riteneva che i panorami mozzafiato rendessero meglio sullo schermo di un cinema: deserti, giungle, canyon, mari in tempesta, foreste innevate e così via. Li guardavi solo per pochi secondi, sapendo che presto sarebbe comparso qualcuno a cavallo o alla guida di una macchina sportiva, che avrebbe sparato a qualcun altro o avrebbe incontrato una donna dalle gambe lunghe e affusolate, o trovato una valigia piena di soldi. A suo tempo aveva percorso in lungo e in largo ogni tipo di paesaggio, trasportando uno zaino di trenta chili e un fucile. Per qualche minuto quei panorami l’avevano impressionato, poi erano diventati solo posti da attraversare. Aveva sparato anche a un bel po’ di gente, ma non aveva mai incontrato la donna attraente né trovato la valigia zeppa di soldi, almeno non in mezzo alla natura. La donna l’aveva incontrata al funerale di suo marito. I soldi erano una sequenza di cifre in Svizzera.

    Da quando avevano lasciato Città del Capo, la sua mente aveva vagato da un pensiero all’altro, e alcuni gli erano sembrati profondi, perfino importanti, benché non riuscisse a ricordarne nemmeno uno. Si domandò quanti pensieri avesse avuto nella sua vita. Probabilmente milioni, se includeva cose come decidere di tagliarsi le unghie dei piedi o quanti cucchiaini di zucchero mettere nel tè. Molti di quei pensieri, a posteriori quasi tutti, erano stati una completa perdita di tempo. Spariti per sempre; non più significativi dei pensieri di un cane. Decidere se tagliarsi le unghie dei piedi, probabilmente, era uno dei migliori. Almeno era servito a qualcosa. Aveva visto uomini morti ammazzati per aver trascurato le unghie dei piedi.

    Si massaggiò la faccia con una mano per migliorare l’afflusso di sangue al cervello.

    Gli anni cominciavano a farsi sentire. Gli sembrava di non essere mai stato meglio in vita sua, ma obiettivamente non era possibile. A cinquantacinque anni non si vincono le medaglie d’oro, ma era convinto che adesso avrebbe battuto il ventitreenne che era stato un tempo in testardaggine, cattiveria ed esperienza. Da ragazzo aveva l’aria da duro, ma nell’intimo aveva un cuore tenero. La tenerezza dei giovani era un errore di sistema. A prescindere da quanto fosse stata brutale la tua vita, potevi sempre incolpare la cattiva sorte: il posto sbagliato, il periodo sbagliato, i genitori sbagliati. Credevi di avere ancora speranza. Gli ci erano voluti altri vent’anni per rendersi conto che non esisteva un mondo migliore da qualche altra parte. Una vita migliore, forse, ma non un mondo migliore. L’uomo era un perverso bastardo, niente di più; e matto per giunta.

    Distolse gli occhi dall’asfalto che si srotolava nel veld, e guardò Dirk.

    Dormiva accasciato sullo sportello. Da un angolo della bocca gli colava un filo di bava sulla maglietta Versace. Un bel ragazzo. Hennie sentì una fitta di amore trafiggergli il petto.

    Il mese seguente, Dirk avrebbe compiuto ventiquattro anni. Era il suo figliastro dall’età di nove anni. Se fosse stato figlio suo, molto probabilmente gli avrebbe rovinato la vita e l’avrebbe spinto ad andarsene. In qualità di padre adottivo, Hennie non si sentiva geneticamente responsabile per i suoi difetti. Non si sentiva in dovere di educarlo, né si vergognava se faceva qualche cazzata. Quel compito spettava a Margot, sua madre. Lui era lì per renderla felice. Renderla felice era lo scopo della sua vita. Non era un compito facile, ma si accontentava di averne trovato almeno uno. Significava che doveva proteggere Dirk, quando era necessario. E l’aveva protetto dalla legge. Doveva proteggerlo anche da sua madre?

    «Che macello del cazzo».

    Si accorse di aver parlato ad alta voce. Dal sedile posteriore gli giunse un grugnito in risposta. Diede un’occhiata allo specchietto. Scorse la Toyota 4Runner bianca di Simon a un centinaio di metri dietro di loro. Simon era il capo della sicurezza. Era uno zulu, solido come la Table Mountain; era la cosa più vicina a un amico che Hennie avesse mai avuto. Spostò lo specchietto e vide Jason che strabuzzava gli occhi e si stringeva la gola.

    «Cristo santo». La voce di Jason suonava come una grattugia su un tubo arrugginito.

    Jason Britz non era particolarmente alto, ma le sue spalle occupavano quasi metà del sedile posteriore. Passava il tempo a sollevare pesi e iniettarsi steroidi. In teoria, era un agricoltore. Per due secoli i suoi antenati avevano sudato e cercato di tirar fuori la vita, con le buone e con le cattive, da quel deserto maledetto, in una terra che veniva evitata da tutti gli esemplari di flora e fauna commestibili per gli europei; e persino per la maggior parte degli africani. Il suolo era povero, e là non cresceva nemmeno l’erba, né gli alberi, né i frutti; i mammiferi non sopravvivevano. Quattro anni prima Jason aveva ereditato la fattoria di famiglia, e in quel lasso di tempo il deserto l’aveva reclamata quasi completamente. In pratica si guadagnava da vivere fornendo erba e metanfetamine agli spacciatori locali, la cui clientela principale lavorava nella miniera di Margot. Non era finito in prigione, né seppellito sotto la sabbia, perché suo zio, Rudy Britz, era un sergente di polizia.

    Hennie prese una bottiglia d’acqua, bevve e la rimise a posto.

    «Posso averne un po’?», chiese Jason.

    «Prendi la tua».

    «Le altre bottiglie sono nel bagagliaio»

    Hennie evitò di rispondere.

    «Pensi che sia tutta colpa mia», protestò Jason.

    «Mi stavo godendo il silenzio. Perché non ci provi anche tu?».

    Jason si trattenne per mezzo minuto di fila.

    «Chissà se è ancora viva. Sì, insomma, sai a chi mi riferisco».

    «Stai zitto. Sveglierai Dirk».

    «Non dimenticherò mai il suo sguardo. Porterà male, Hennie».

    «Lo sai che gli agricoltori sono l’origine di tutti i mali dell’uomo?»

    «I mali di chi?»

    «Dell’umanità. Della razza umana. I nostri mali».

    «No, ti sbagli. Moriremmo di fame senza gli agricoltori».

    «Hai messo il dito nella piaga».

    «Non ti capisco».

    «Crimine, guerra, schiavitù, tirannia. Avidità e omicidi. Capitalismo. Malattie sessualmente trasmissibili. È tutta colpa degli agricoltori».

    Jason scoppiò a ridere. Anche Hennie rise.

    «Stai cercando di provocarmi».

    «Niente affatto», obiettò Hennie. «Prima che arrivasse l’agricoltura, questi problemi non esistevano. Erano tutti troppo occupati a cacciare antilopi, bufali, renne. A pescare foche. Gli uomini erano sempre in movimento ed erano tutti sani e muscolosi; quindi c’era un limite alle cazzate con cui si poteva passarla liscia. Invece un agricoltore è costretto a stare fermo, ha una vanga al posto della lancia, e se è bravo, come lo era tuo padre, se è un contadino che si spezza la schiena a strappare erbacce e a scavare canali di irrigazione, produce più di quanto lui e la sua famiglia sono in grado di consumare. Così la famiglia cresce, la popolazione aumenta e il contadino produce ancora più cibo, e il surplus continua ad aumentare. Quindi cosa ci fai con la roba in eccesso?»

    «La vendo», rispose Jason. «O la baratto. O la conservo per i periodi di siccità».

    «Esatto. Ma allora devi metterla da qualche parte, giusto? E se lo fai, prima o poi qualche maledetto bastardo verrà a rubartela. Così il mafioso locale raduna i suoi scagnozzi e dice agli agricoltori: Sentite, il raccolto lo prendiamo noi e lo teniamo al sicuro per quando ne avrete bisogno. In cambio di una provvigione ragionevole, ovviamente. Mi segui?»

    «Somiglia un po’ al traffico di droga».

    «Hai colto nel segno. E prima che tu possa accorgertene, il mafioso si è autoproclamato re e il surplus non appartiene più a te, ma a lui, tutto, fino all’ultimo chicco di grano, fino all’ultima capra e all’ultimo uovo. E se il contadino si lamenta, il re manda i suoi ragazzi a gambizzargli i buoi, o a strappare la corteccia degli ulivi e a stuprare le sue figlie. Ora tutti i contadini lavorano a tempo pieno per il re, senza nessuna paga, senza nemmeno un soldo bucato, e il re se ne sta nel suo castello, costruito con i soldi e la fatica dei contadini, mentre i suoi ragazzi sono diventati un esercito; ma non basta, perché i soldi scarseggiano e non può spremere oltre i contadini senza che questi finiscano stecchiti più in fretta di quanto non facciano già; e nel frattempo, da qualche parte al di là delle colline, un altro re sta mettendo su la stessa truffa. Quindi, cosa fa il nostro re, se ha le palle?»

    «Conquista il territorio dell’altro re».

    «Esatto», disse Hennie. «Guerra. La guerra significa schiavi per coltivare i nuovi campi, per lavare i piedi del re, per costruire templi in onore dei suoi idoli e miniere per estrarre l’oro della corona. Prostitute per le truppe. Altra gente. Altro surplus. Altre guerre. In parole povere, questa è la civiltà. E tutto grazie a quei fottuti agricoltori. Come ha detto Oscar Wilde, le masse oppresse si sono vendute per un pancotto davvero cattivo».

    «Cos’è il pancotto?», domandò Jason.

    «Una zuppa molto densa».

    «Sì, ma adesso abbiamo internet».

    Hennie sbuffò. «Se fosse per me, lo staccherei oggi stesso».

    «Sei un comunista, Hennie?»

    «Mio padre era socialista, non gli è servito a nulla. Io più che altro aspiro a diventare re, ma per farlo bisogna capire come funziona la partita truccata».

    «Be’, non puoi biasimarmi per le guerre e per internet. Non faccio più l’agricoltore».

    Jason era caduto in una trance meditativa.

    Hennie era seccato che la sua analisi storica non avesse destato più di tanta ammirazione.

    A un tratto Jason esclamò: «Non avremmo dovuto abbandonare quella ragazza».

    «Dimenticatela».

    «Dovevamo almeno chiamare un’ambulanza».

    Hennie sentì un impeto di rabbia ribollirgli in petto.

    «Jason, sai cosa significa tollerare

    «Tollerare? Significa che dovremmo sforzarci di non odiare i neri».

    «È una definizione limitata», rispose Hennie, «ma è un inizio».

    «Mio zio Rudy dice che dovremmo fregarcene».

    «Più in generale significa che quando una situazione, o una persona, è una gran rottura di palle, ma non possiamo farci nulla oppure non vale la pena agire, stringiamo i denti e sopportiamo. Per esempio, tolleriamo il sole, la polvere, le zanzare. Tolleriamo i capricci delle donne e le bizze dei bambini. E sì, tolleriamo i neri; e Rudy si sbaglia, dovrebbe fregartene invece, perché non possiamo liberarci di loro come non possiamo liberarci del sole».

    «Ho capito dove vuoi arrivare, Hennie».

    «No, non hai capito, perché non ci sono ancora arrivato. Voglio dire che io ti tollero».

    «Anch’io ti ho sempre ritenuto uno a posto».

    Hennie guardò nello specchietto per vedere se Jason lo stesse prendendo per il culo. No, era serio.

    «In altre parole, ti sopporto. Per amore di Dirk. Ma se non chiudi il becco, potrei cambiare idea».

    «Non voglio che Dirk soffra».

    «Cristo santo. Sei ancora sbronzo?»

    «Lei non può averlo visto. Peccato che Dirk non l’abbia vista».

    Hennie girò la testa.

    Jason si torceva le mani e fissava un punto tra le ginocchia.

    «Ha visto me», disse. «Pensi che abbia memorizzato la tua faccia?».

    Hennie frenò lentamente e abbassò il finestrino elettrico.

    «Dicono che per loro siamo tutti uguali», continuò Jason. «Puoi sempre tagliarti la barba».

    Hennie sporse il braccio fuori dal finestrino e fece segno a Simon di sorpassarli.

    «Chissà cosa dirà Margot», mormorò Jason. Notò la manovra di Hennie: la Toyota sfrecciò davanti a loro. «Che succede?».

    Hennie accostò la macchina. Lasciò il motore acceso. Uscì e aprì lo sportello posteriore. Jason si fece piccolo, come un cane che sa di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma non capisce bene cosa. Gli faceva pena, ma non al punto di sottrarsi a ciò che andava fatto.

    «Esci».

    «Che significa? Perché?»

    «Sono stanco. Tocca a te guidare».

    Jason lo guardò grato, gli tremavano le labbra. Posò un piede sull’asfalto e mise fuori la testa e una spalla. Hennie gli andò dietro e gli cinse il collo con il braccio destro, premendoglielo sulla gola. Poi si afferrò il gomito destro con la mano sinistra e gli torse il collo dall’altra parte. Lo trascinò fuori dalla macchina, strozzandolo, e lo lasciò nella sterpaglia sul ciglio della strada. Jason rotolò sulla schiena e lo fissò terrorizzato, ansimando.

    «Stammi a sentire, stupido scimmione drogato di succo di frutta. Margot non dirà un bel niente perché non lo verrà mai a sapere. E non lo sapranno nemmeno i tuoi compari, tuo zio Rudy e tantomeno Dirk. Lo sappiamo solo io e te. E se scopro che lo sa qualcun altro, ti riciclo in escrementi di animali carnivori. Ci vorranno un paio di giorni e il fetore che sprigionerai dipenderà dall’eventualità che ti abbiano divorato vivo o meno. Sono stato chiaro?».

    Jason annuì. Fece per alzarsi, ma Hennie gli ficcò un dito nel petto.

    «Sta’ giù».

    Hennie gli sfilò una pistola dalla tasca della giacca. La Vektor Z-88 di Jason, una Beretta 92 prodotta su licenza della polizia. Estrasse il caricatore, svuotò le cartucce e gettò la pistola ai suoi piedi.

    «Il prossimo che te la toglie potrebbe non essere altrettanto amichevole».

    Ne approfittò per esaminare il retro della Range Rover alla luce del sole. Il paraurti, il bagagliaio, il lunotto. Ricontrollò tutto da varie angolature. Dopo un po’, fu soddisfatto. Nemmeno un segno. C’erano alcune tracce, ma avrebbe chiesto a uno dei suoi uomini di lavare e lucidare la macchina. Diede due pacche sulla superficie di metallo scintillante.

    «Motore inglese, bello».

    Jason non si azzardò a fare una mossa. Hennie sbatté lo sportello posteriore senza guardarlo e tornò al volante. Dirk gemette e si mosse, ma non si svegliò.

    «Cristo santo, Hennie, non vorrai lasciarmi qui…».

    Hennie chiuse lo sportello e ripartì.

    Dallo specchietto retrovisore osservò Jason che si alzava in piedi. Rimase lì a tastarsi freneticamente le tasche. Era come abbandonare un bambino gigantesco. Ma quei ragazzi dovevano crescere. Trovò il numero di Rudy Britz sul suo telefono e lo selezionò. Nello specchietto retrovisore, vide Jason che gli correva dietro, agitando le mani sopra la testa.

    «Cristo», imprecò Rudy. «Sono le sette di domenica mattina. Che vuoi?»

    «Preferisco che tu lo sappia da me», rispose Hennie. «Riceverai una chiamata da tuo nipote. Si è comportato da stupido».

    3

    La ragazza non sembrava meno morta degli altri cadaveri che Turner aveva visto.

    Era un’africana nera sui quindici anni e giaceva prona, con la guancia sinistra poggiata sul terreno essiccato dal sole. Le mosche le zampettavano sugli occhi e sulle labbra secche. Un livido le gonfiava lo zigomo destro. Non respirava, o almeno così pareva, ma medici più bravi di lui avevano chiuso persone ancora vive nei sacchi per cadaveri; e lui era stato il primo ad accorgersene e soccorrerli. Doveva esserne sicuro.

    Si accovacciò e le tastò la carotide con l’indice e il pollice.

    Dopo un po’ ritrasse la mano.

    A occhio e croce, non pesava nemmeno quaranta chili. Il vestitino corto e leggero, verde chiaro coi fiori gialli, era strappato dalla vita all’orlo e mostrava le cosce e le natiche emaciate. Biancheria sporca, con recenti macchie di sangue coagulato ed escrementi. L’anca destra era gravemente deformata, la carne spappolata con lembi di pelle frastagliati e avvizziti che pendevano dai lati. Dallo squarcio spuntavano frammenti di ossa, oscenamente ricoperti di sangue e midollo. Altre mosche che banchettavano.

    Turner si sentì rivoltare lo stomaco, non solo per il disgusto, ma per l’indignazione, la confusione e per un ricordo che di rado si azzardava a rievocare, e mai di sua spontanea volontà. Il ricordo di un’altra giovane donna che giaceva

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