Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La Ragazza Watson
La Ragazza Watson
La Ragazza Watson
E-book371 pagine5 ore

La Ragazza Watson

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un’intera famiglia assassinata, un’unica sopravvissuta.
Per quindici anni, Laura Watson vive con la sua famiglia adottiva senza dei veri ricordi di ciò che è accaduto la notte in cui la sua famiglia è stata sterminata, quando lei non era che una bambina di cinque anni. L’assassino è stato catturato e ora è in attesa dell’esecuzione nel braccio della morte.
Laura inizia a partecipare a delle sedute di ipnosi regressiva nel tentativo di ritrovare quei ricordi perduti, tuttavia, più si avvicina alla verità, meno tempo le resta da vivere. Il vero killer, infatti, ha intenzione di metterla a tacere per sempre, prima che la giovane riesca a ricordare i dettagli di cui è stata testimone.
La sola in grado di aiutarla sarà l’Agente Speciale Tess Winnett che, insieme al suo team, si addentrerà in una sconvolgente indagine alla ricerca di un killer spietato rimasto nell’ombra per anni. Tess Winnett farà di tutto pur di fermare l’assassino, prima che uccida un’altra innocente, e poco importa se la posta in gioco può essere persino la sua stessa vita.
LinguaItaliano
Data di uscita14 gen 2021
ISBN9788855312257
La Ragazza Watson

Correlato a La Ragazza Watson

Titoli di questa serie (3)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La Ragazza Watson

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La Ragazza Watson - Leslie Wolfe

    Esordio a sangue freddo

    Quindici anni prima


    L’uomo bussò alla porta con la canna della pistola, ci avvitò sopra un silenziatore e aspettò che qualcuno gli aprisse. Si guardò intorno ancora una volta. Nel crepuscolo inoltrato, le ombre si allungavano e i suoni erano così pochi da non disturbare la pace dei sobborghi. Un cane abbaiava nel quartiere accanto e i rumori del traffico della lontana autostrada erano distanti, tanto che riusciva a malapena a sentirli.

    La casa aveva le finestre illuminate da un caldo bagliore su entrambi i piani, le tendine bianche facevano brillare le luci morbide e davano al massiccio edificio in stile coloniale britannico un aspetto da fiaba. Il rumore lontano di un cartone animato arrivava fino al portico fiocamente rischiarato. Riconobbe la voce gutturale di Daffy Duck.

    C’era solo un’auto parcheggiata sul viale ampio che portava al garage a tre posti: il minivan color argento che Rachel Watson amava usare quando esercitava le funzioni di mamma moderna, con uno o più dei suoi tre bambini seduti sui seggiolini posteriori. La macchina di Allen Watson non si vedeva da nessuna parte. Ma Watson portava sempre la sua Mercedes in garage, facendo attenzione che nemmeno un granello di polvere finisse sulla vernice personalizzata che doveva essergli costata una piccola fortuna.

    Anche se non riusciva a vedere la sua auto, sapeva che Watson era in casa.

    Lo sapeva perché non aveva lasciato niente al caso. Aveva atteso pazientemente nella sua vettura posteggiata con discrezione dietro l’angolo e quasi completamente coperta dal fogliame generoso di una rigogliosa palmetta. Aveva tenuto gli occhi incollati alla strada, osservando, braccando il suo obiettivo. Ora era pronto.

    Udì dei passi avvicinarsi alla porta e aumentò la presa sulla pistola, nascosta dietro la schiena. L’uscio si spalancò e Allen Watson si spostò silenziosamente di lato, un sorriso incerto sulle labbra e una punta di incuriosita preoccupazione sulla fronte. Gli fece cenno di entrare e lui obbedì, con l’arma stretta in mano. Watson chiuse la porta, poi gli rivolse uno sguardo indagatore.

    «Che cosa ci…» La domanda di Watson si bloccò a metà quando si accorse della pistola e si immobilizzò, facendo qualche traballante passo indietro finché non andò a sbattere contro il muro alle sue spalle. Watson puntò nei suoi gli occhi sgranati per la sorpresa, e dalla bocca spalancata non gli uscì alcun suono.

    «No… No…» riuscì finalmente a dire con voce roca, debole e soffocata.

    L’uomo esitò qualche secondo prendendosi il suo tempo per alzare la pistola e puntarla al petto di Allen a pochi centimetri di distanza. Il rumore di passi che ticchettavano sul parquet al piano superiore precedette una voce acuta, che risuonò alta sopra le loro teste.

    «Chi è, papà?»

    Sollevò lo sguardo per un istante e vide i due figli di Watson che li fissavano dall’alto con indosso dei pigiami colorati e le mani strette intorno ai pilastri che sostenevano il corrimano della balaustra sopra il soggiorno principale.

    «No…» bisbigliò Watson. «Ti prego….»

    Non poteva rimandare oltre.

    Tirò il grilletto due volte in rapida sequenza; Watson cadde a terra come un sacco inanimato, mentre le grida terrorizzate dei due bambini gli trapassavano le orecchie. Salì le scale a balzi, facendo tre gradini alla volta, correndo verso le camere da letto. In pochi passi raggiunse i due bambini che strillavano. Il silenzio avvolse di nuovo la casa mentre la perlustrava stanza per stanza, alla ricerca del terzo figlio.

    Ben presto ebbe finito di perquisire il piano superiore e mentre si apprestava a scendere dabbasso, qualcuno bussò alla porta principale, obbligandolo a fermarsi. Si tirò indietro, aderente al muro, e trattenne il respiro. Preoccupato, controllò le finestre accanto alla porta d’ingresso, solo in parte coperte dalle tende, poi spostò lo sguardo sul corpo di Watson, crollato a pochi passi di distanza.

    Il visitatore avrebbe potuto vedere il cadavere attraverso le tende aperte. Tutto quello che doveva fare era dare un’occhiata all’interno e piegarsi un po’ di lato. Dannazione!

    Bussarono di nuovo, con più forza e più a lungo stavolta, poi suonarono il campanello. Udì la voce dell’uomo che giungeva soffocata dalla porta massiccia.

    «Ehi, sono Ben, il vicino. Le ho riportato il trapano a batteria.» L’uomo smise di parlare, bussò ancora un paio di volte, poi aggiunse: «Glielo lascio qui sul portico. Grazie!»

    Il visitatore indesiderato se ne andò a passi pesanti e rumorosi, coperti dal cartone alla tv. Respirò lentamente, con calma, in modo misurato.

    Un istante dopo, scese le scale con cautela, alla ricerca di Rachel Watson. Si mise attentamente in ascolto e, da qualche parte sotto la voce nasale di Daffy, sentì dei rumori di stoviglie provenire dalla cucina. La punta di un sorriso gli allungò l’angolo della bocca, arricciandogli un labbro verso l’alto mentre si avviava in quella direzione a passi felini e silenziosi.

    Non sapeva quanto tempo fosse passato, ma era ora di andare. Il rumore delle sirene in lontananza gli imponevano di sparire in fretta e lasciò la casa con calma ma velocemente, dopo aver controllato ancora una volta l’area circostante, tranquilla e indisturbata, facendo attenzione a ogni dettaglio. Nell’abitazione dall’altra parte della strada, il piano principale era illuminato, e le tende aperte permettevano alla luce di riversarsi in strada. La famiglia era in mostra mentre si dedicava alle proprie faccende. L’uomo aggrottò la fronte. La gente avrebbe dovuto porre maggior attenzione alla privacy.

    Decise di sgattaiolare dietro il minivan di Rachel e dare un’altra occhiata alla zona prima di tornare all’auto. Si chinò leggermente e, in pochi passi fu dietro al minivan, attento a non toccarlo. Osservò le case vicine e rimase in ascolto, cercando di individuare qualsiasi rumore inconsueto. Le rughe sulla fronte gli si fecero più profonde udendo il suono delle sirene della polizia che si avvicinavano, poi alzò lo sguardo e si bloccò, raggelato.

    Sul lunotto del minivan c’era un adesivo con le figure stilizzate di una famiglia felice che mostravano un uomo, una donna, un bambino, due bambine e un gatto, con sorrisi anatomicamente impossibili.

    Aveva un grande problema. Era abbastanza sicuro di aver ucciso due maschi e una femmina.

    Si abbassò ancora di più e gemette, sfregandosi furiosamente la fronte aggrottata, come se l’attrito potesse risolvere ogni problema o fornire delle risposte.

    «Pensa, pensa!» bisbigliò con rabbia.

    Non era assolutamente possibile che Rachel Watson avesse ordinato l’adesivo sbagliato. Tutto il resto coincideva, incluso il gatto, i cui occhi minacciosi e fosforescenti avevano seguito le sue mosse dall’alto degli armadietti della cucina mentre si occupava di Rachel. Lo aveva lasciato in vita; non valeva una pallottola, perché i gatti non possono parlare.

    Ma questo? Questo non aveva senso, continuava a pensare, senza staccare gli occhi dall’adesivo. Indicava chiaramente due bambine più o meno della stessa età, a giudicare dalle figurine pressoché identiche, compresi i codini con i nastri. La figurina del maschio era più grande di quella delle femmine. Che cosa faceva Rachel? Sostituiva quel dannato adesivo tutti gli anni? Probabile. Ed era più che sicuro che lei non avesse commesso errori sui membri della propria famiglia.

    Perciò, che cos’era successo? In una delle camere da letto aveva trovato una bambina che giocava da sola con dei Lego sul pavimento. Doveva avere cinque o sei anni. Poi gli altri due bambini, un po’ più grandi, forse sette od otto, ma non di più.

    Entrambi maschi.

    C’era qualcosa di terribilmente sbagliato.

    Ascoltò ancora, tentando di determinare con precisione dove si trovassero le auto della polizia. Qualcuno l’aveva chiamata per lui? Era sicuro che gli spari fossero stati abbastanza silenziosi, ma forse qualcuno aveva visto dei bagliori attraverso le finestre. Magari il vicino che aveva riportato il trapano a batteria aveva scorto il corpo di Watson attraverso le tende aperte. Forse.

    E forse c’era ancora tempo per rimettere a posto la faccenda.

    Si fissò per un istante il dorso della mano, che tremava leggermente nella luce tenue del crepuscolo, poi decise di fare ciò che doveva fare. Sgattaiolò di nuovo dentro la casa, chiudendo piano la porta. Si mise a perlustrare l’interno muovendosi in fretta, stanza per stanza, con la pistola ben stretta tra le mani sudate.

    Ritorno al lavoro

    Oggi


    L’Agente Speciale Tess Winnett si sporse in avanti, più vicino allo specchio, studiando con sguardo critico e deluso i cerchi sotto gli occhi. Scuri e inesorabili, le circondavano un’ampia area intorno agli occhi, colorandole le palpebre e rendendo l’azzurro delle iridi vuoto e privo di vita. Aveva il viso pallido e tirato, la pelle sugli zigomi tesa e quasi traslucida.

    Un po’ di trucco non le avrebbe fatto male. Peccato che non lo usasse.

    Era il suo primo giorno in ufficio dopo una interminabile pausa di tre settimane per riprendersi dalle ferite che si era procurata nel corso di una missione. Una spalla lussata. Dei legamenti strappati. Un paio di costole rotte che le pugnalavano ancora il fianco a ogni respiro. Ma era tornata, intenzionata a non trascorrere un altro singolo giorno annoiandosi a morte, contando le ore, camminando avanti e indietro mentre faceva zapping fra trecento canali di televisione spazzatura e circondata da pile di romanzi che non aveva la pazienza di leggere.

    Non erano le ferite fisiche la causa del suo pallore, bensì i mostri nascosti dentro di lei, nei recessi più profondi della sua mente esausta. I ricordi che avrebbe voluto eliminare per sempre, ma che si rifiutavano di svanire; le crude immagini della terribile notte di dieci anni prima, quando la sua vita aveva imboccato una svolta improvvisa verso l’incubo. Una notte in cui era stata una vittima impotente in lotta per la propria vita, non l’intrepida agente dell’fbi che era diventata.

    Quelle ferite erano ancora dolorose, le facevano attraversare l’esistenza in uno stato di costante vigilanza, anche se il suo aggressore non poteva più farle del male. Quelle ferite dolevano più di quanto avrebbe mai fatto qualche costola incrinata.

    Concentrato sulla sua condizione fisica e, con tutta probabilità, ignaro degli altri problemi, il suo medico le aveva prescritto sei settimane di pausa, di cui le ultime due affiancate da sessioni di fisioterapia, rafforzamento muscolare ed esercizi di mobilità. Aveva supplicato e minacciato, ma il dottore aveva già parlato con il suo supervisore, l’Agente Speciale Incaricato dell’fbi o sac Pearson, come preferiva abbreviare il suo titolo informandolo che Winnett non avrebbe potuto tornare in servizio per motivi medici. Quando l’aveva saputo, era uscita dai gangheri, prendendosela con il dottore con tutta la potenza della sua rabbia irrazionale, accusandolo di tutto quello che le era venuto in mente: di aver violato l’accordo di riservatezza tra medico e paziente, di aver avuto una condotta sconsiderata, egoista, da stronzo che vuole-coprirsi-il-culo, di essere un individuo immeritevole di esibire una tesserino da medico in nessun momento della sua vita.

    Quella reazione non l’aveva portata molto lontano. All’accusa di violazione del rapporto medico-paziente, il dottore aveva sbuffato e l’aveva rassicurata dicendole che con il sac Pearson aveva condiviso solo l’ordine riguardante le sei settimane di riposo, nient’altro. Tuttavia, miracolosamente, quello stesso giorno aveva acconsentito a condonarle tre settimane se si fosse dedicata solo a mansioni leggere, come sedere dietro una scrivania e riempire scartoffie.

    Accidenti, no.

    Ma, se non altro, poteva rimettere piede nel palazzo federale; l’fbi aveva ripristinato le sue credenziali. Il resto toccava a lei, giusto? Un sorrisino storto apparve timidamente nello specchio del bagno, per poi aprirsi in un ampio sorriso, che coinvolgeva gli occhi facendo quasi scomparire i cerchi neri.

    Era tornata. Era tutto quello che contava.

    «Bentornata, Winnett» la salutò una donna, prima di sbattere la porta dell’ultimo cubicolo alle sue spalle.

    Tess trasalì. Non l’aveva sentita entrare in bagno; aveva solo udito la sua voce dietro di sé, fin troppo vicina quando credeva di essere sola e al sicuro. Il cuore le batteva a mille e le mani le tremavano un po’. Si concentrò per qualche secondo sul respiro. Inspira. Espira. Inspira. Espira.

    «Grazie» rispose esitante. Emise un lungo sospiro e riacquistò la calma.

    Era davvero pronta per tornare? Meglio per lei che fosse così. Maledizione, svegliati, Winnett.

    Si guardò allo specchio ancora qualche secondo, facendosi forza per l’incontro con il sac Pearson. Quella mattina aveva trovato un post-it sulla sua scrivania che diceva: per prima cosa, passa da me. Era firmato da Pearson, il nome scribacchiato in stampatello che finiva in una sorta di firma del tutto illeggibile. In ogni caso, sapeva di chi si trattava.

    Il sac Pearson. Eh, sì. Il suo capo, che l’aveva già richiamata ufficialmente diverse volte e che non era disposto ad accettare altri problemi da parte sua. Un uomo che aveva completato dodici anni di servizio come profiler con un invidiabile numero di casi risolti, che solo lei aveva superato. Lui era arrivato al novantotto per cento; lei al cento. Piccola differenza, grande significato. Era certa che quei due punti percentuali fossero ben presenti nella mente del suo capo, se non altro ogni tanto. Ma, più di tutto, Pearson era un profiler esperto che, dopo un’occhiata ai quei cerchi sotto gli occhi, l’avrebbe rimandata a casa, per altre tre settimane di follia nel suo appartamento.

    Strinse le labbra valutando le sue opzioni, poi si schiarì la voce con calma.

    «Ehi, Colston, per caso hai del make-up con te?»

    «Mmh, ecco qua» rispose la donna, passandole la pochette da sotto la porta del cubicolo. «Fatti bella.»

    «Grazie» le disse.

    Prese la pochette e l’appoggiò sul lavandino, ma esitò prima di aprirla. Faticava a invadere la privacy di qualcuno in quel modo, pur essendo stata invitata a farlo. Com’erano diverse le persone… Non sospettose, fiduciose e aperte. Calme. Premurose. Senza pretese. Mentre apriva la pochette, provò una fitta di invidia. Le sarebbe piaciuto essere così, come tutti gli altri: condividere, fidarsi e, di tanto in tanto, abbassare la guardia.

    La bustina di Colston racchiudeva un vero tesoro di articoli da trucco. Si mise a fissarli, confusa dalla quantità di piccoli oggetti, incerta su cosa usare.

    «Ecco quel che ti serve» disse Colston, prendendo un correttore dal mucchio. Con la mano bagnata aveva inzuppato la pochette, ma sembrava non importarle.

    Tess riprese fiato, deglutì e riuscì a ringraziarla. Com’era possibile che non avesse sentito Colston tirare lo sciacquone o non l’avesse vista lavarsi le mani? Doveva essersele di certo lavate, visto che ora se le stava sciugando con una salvietta di carta. Che razza di agente sul campo permette alle persone di avvicinarsi in quel modo? Doveva ripigliarsi.

    Nascondendo la sua preoccupazione, si applicò velocemente il correttore con il dito e le sorrise con gratitudine.

    «Mi metterei anche un po’ di blush. Sei troppo pallida. Vieni, lascia fare a me» si offrì Colston, che, veloce, le applicò sulle guance qualche tocco di blush, dando un po’ di colore alla sua pelle di alabastro. «Ecco qua, perfetto. Molto meglio.»

    Uscirono insieme dalla toilette, ma poi si divisero. Tess passò di fianco alla sua scrivania e recuperò il blocco per gli appunti prima di dirigersi verso l’ufficio di Pearson.

    Ed eccolo lì, seduto al suo posto, con la testa completamente calva china sulle pagine di un dossier che sfogliava con impazienza, e le labbra strette, chiaro segnale di irritazione. Si era tolto la giacca e aveva arrotolato le maniche della camicia, il che significava che sarebbe rimasto in ufficio per almeno qualche ora.

    Bussò alla porta socchiusa e attese in silenzio. Lui le fece cenno di entrare senza sollevare gli occhi dalla pila di fogli. In piedi davanti a lui, vagò con lo sguardo sulle poche cose che adornavano l’ufficio di Pearson. Alle sue spalle, sul ripiano di una libreria semivuota, un gruppo di tre foto incorniciate mostrava la sua famiglia. La moglie, leggermente sovrappeso, era una donna dall’espressione affettuosa e amorevole che lo teneva per mano con fiducia in un’immagine che includeva anche i loro due figli.

    Le altre due immortalavano il giorno della laurea dei ragazzi, quel genere di immagine professionale che le università prestigiose offrono in occasione della cerimonia. Entrambi i figli avevano lo sguardo gentile della madre; erano una versione più giovane e mite del padre. Si chiese se la durezza dei tratti di Pearson fosse un fatto genetico o acquisito. Studiò i due solchi verticali ai lati delle labbra increspate, le rughe permanenti sulla fronte alta e la tensione della mascella. Probabilmente erano nella sua natura.

    Finalmente, Pearson alzò lo sguardo e si accigliò ulteriormente.

    «Siediti, Winnett.»

    Tess eseguì.

    «Quindi sei tornata. In anticipo.»

    «Signore.»

    «Bentornata. Sei pronta per rientrare?»

    «Grazie, signore. Sì, lo sono.»

    Pearson si sfregò la fronte, poi si strinse il naso proprio nel punto in cui gli occhiali gli avevano lasciato due segni rossi. Infine, si abbandonò sullo schienale della sedia, immerso nei suoi pensieri.

    «Ho alcune cose da dirti» dichiarò infine. Il tono di voce non prometteva niente di buono.

    Tess annuì, ma rimase in silenzio. Si spostò nervosamente sulla sedia, poi si impose di stare ferma.

    «Prima di tutto, c’è la faccenda relativa al tuo ultimo caso. Verrà fatta una revisione formale dell’intero sviluppo. L’inizio è previsto tra due settimane.»

    «Una revisione formale? Posso chiedere perché?»

    «La mia domanda è: hai davvero bisogno di domandare perché?» Le puntò addosso il suo sguardo penetrante finché lei non abbassò gli occhi sul pavimento. «Sì, hai chiuso il caso. Sì, hai inciso un’altra tacca nella cintura. Ma il comitato di revisione si è reso conto che le tue statistiche non sono così brillanti.»

    «Quali statistiche?» Sapeva di avere una percentuale di casi risolti impeccabile, quindi non poteva trattarsi di quello. Di cosa, allora?»

    «La tua percentuale di uccisioni è la più alta di chiunque altro. Sei stata giustificata in tutti gli scontri a fuoco, ma qualcosa nell’ultimo caso ha attirato l’attenzione.»

    «Signore, io…»

    «Lasciami finire, Winnett. Ti suggerisco di lasciare che il comitato formalizzi la revisione e avanzi le sue raccomandazioni. Come ho detto, ogni tuo scontro a fuoco è stato ritenuto confacente alle circostanze, perciò sei a posto.»

    Tess attese un intero secondo prima di parlare.

    «Signore, con tutto il rispetto, non sono a posto. Una revisione formale potrebbe rovinarmi la carriera.»

    Pearson si alzò bruscamente e iniziò a camminare per la stanza, con le mani sprofondare nelle tasche.

    «Non puoi farci niente, Winnett. Nessuno può farci niente. Lasciamo che le cose vadano come devono andare e non agitare le acque. Ma non sarebbe male se, per una volta, arrestassi un sospetto anziché ucciderlo.»

    Tess fissava il pavimento, provando una sensazione di frustrazione.

    «Ricevuto» rispose alla fine, riuscendo a non controbattere a ogni magagna del sistema.

    Pearson si sedette di nuovo con la fronte sempre più aggrottata.

    «Il secondo punto della lista non ti sarà certo di aiuto con l’imminente revisione.» Il suo capo si schiarì la gola, poi riprese. «Vorrei che lavorassi con un partner per un po’.»

    «Sì?» replicò, guardando Pearson senza nascondere una certa irritazione. Non voleva un partner ma sapeva che, prima o poi, sarebbe successo. Pearson era stato chiaro in merito. Ciononostante. «Non siamo tenuti ad avere un partner permanente nell’fbi, così ero…»

    «Non citare il regolamento con me, Winnett. Qui sono ancora io a decidere chi fa cosa e con chi. Chiaro?»

    «Sissignore. Ma ciò significa che in realtà lei vuole qualcuno che mi tenga d’occhio invece di…»

    «Winnett!»

    Si bloccò. Non voleva provocarlo troppo, ma non credeva nemmeno di meritarsi una cosa del genere. Dove poteva tracciare la linea tra accettare gli ordini dal suo superiore e difendersi?

    «Per il momento, non c’è nessuno disponibile a lavorare con te» riprese fulminandola con lo sguardo davanti al suo sollievo fin troppo palese. «Ma voglio che tu prenda in considerazione l’idea di avere un partner come prossimo passo della tua carriera. Ti aiuterà molto e migliorerà anche la percezione degli altri nei tuoi confronti.»

    «Quale percezione?»

    «Che non sei una che fa gioco di squadra. Che non ti importa di quello che provano gli altri o dei loro risultati: solo di risolvere un caso dopo l’altro, il più velocemente possibile.»

    «Mmh… e cosa c’è di sbagliato nel risolvere casi velocemente? È il mio lavoro!»

    «L’impressione è che non ti curi di chi ferisci nel corso delle indagini. Devi correggerla, Winnett. Devi farlo, e non sto scherzando. Riconquista la fiducia e il rispetto dei tuoi colleghi e assicurati di dimostrare che fai parte di questa squadra. Non c’è spazio per i solisti qui, Winnett, indipendentemente dalla tua percentuale di risoluzione dei casi. Siamo tutti parte di una squadra e dobbiamo agire di conseguenza.»

    Tess si morse un labbro. Come diavolo sarebbe riuscita a farlo? Le interazioni del tipo che aveva appena condiviso con Colston in bagno erano rare, dimostravano solo che l’eccezione era la regola. Anche se erano piacevoli, questo doveva ammetterlo.

    «Ho lavorato benissimo con Mike. Penso che questo sia stata una dimostrazione. Ma Mike non c’è più. È morto.»

    «Ascoltami, Winnett» continuò Pearson, allentandosi la cravatta con un sospiro di frustrazione. «Mike non tornerà. Poco importa ciò che tu, io o chiunque altro possa fare. E questo indipendentemente da quanta colpa tu ti attribuisca o dal fatto che tu decida di non poter lavorare con nessun altro. È arrivato il momento di guardare avanti, Winnett. Non permettere che questo ti distrugga la carriera.» Rimase in silenzio per un istante, lasciando che a parlare fosse il suo sguardo.

    Tess abbassò di nuovo la testa, incerta su cos’altro dire.

    «Poi, c’è il problema con il governatore» proseguì il sac.

    Winnett sospirò piano, evitando di alzare gli occhi al cielo.

    «Ha chiamato facendo il tuo nome, due volte, mentre lavoravi al tuo ultimo caso. Due volte!»

    «Riceve telefonate da tutti gli elegantoni che mi capita di disturbare durante le mie…»

    «Winnett!» sbottò Pearson. «Non credi che sappia come va il mondo? Ma devi farti furba! A un certo punto potrebbe chiedermi formalmente di farti diventare un suo problema! Nessun altro agente in questa sezione ha i tuoi precedenti. Risolvono tutti dei casi, forse non con il tuo record di successi, ma sicuramente con meno chiasso e disagi. Con meno reclami.» Fece una pausa, come per cercare di capire cosa fare con lei. «Fatti furba in questo genere di cose, Winnett» riprese infine. «Non permettere al tuo comportamento di gettare un’ombra sulla reputazione di questa squadra, interna ed esterna. Hai capito?»

    «Perfettamente» riuscì a rispondere. Avrebbe dovuto trovare un modo per far sì che gli altri la accettassero, la trovassero simpatica. Doveva cambiare, e non era mai facile. Doveva ammorbidirsi un po’, ma continuando a fare il proprio dovere, conservando il proprio acume. Non aveva idea di come fare o da dove cominciare.

    «Ho un caso da assegnarti» disse Pearson, passando oltre.

    Tess si rianimò, sentendo che il suo umore tetro stava migliorando grazie all’aspettativa e all’eccitazione.

    «A Raiford c’è un serial killer nel braccio della morte; Kenneth Garza.»

    «Sì, The Family Man» aggiunse.

    «Esatto, The Family Man» confermò Pearson. «La data della sua esecuzione è stata stabilita e si sta avvicinando. Avverrà fra tre settimane circa, il ventidue. Vorrei che studiassi il suo dossier e che andassi a interrogarlo. Assicurati che sia tutto a posto, che abbiamo messo tutti i puntini sulle i e che non ci ritroveremo con qualche sorpresa l’ultimo giorno. Conosci il suo caso?»

    «No, solo la sua reputazione. È accaduto prima di me.»

    «Accidenti, Winnett, e chi saresti? Prima di Winnett e dopo Winnett, giusto? La tua arroganza non ha limiti.» L’irritazione nel tono di voce insolitamente alto di Pearson, era percepibile quasi a livello fisico.

    «No, signore. Intendevo che conosco tutti i casi di serial killer chiusi durante il mio mandato.»

    «Ovviamente» sbuffò il capo, «perché sei stata tu a chiuderli!»

    «No, signore. Intendevo che conosco tutti i casi di serial killer risolti dal Bureau, indipendentemente da chi li ha chiusi, dal giorno in cui sono entrata nell’fbi dieci anni fa.»

    Pearson rimase un attimo a bocca aperta, ma riprese subito la sua aria composta, apparentemente sereno. Tess avvertì l’impulso di sorridere, ma era meglio di no.

    Il sac riprese a parlare. «Okay, allora studiati il file di Garza e poi vai a fare due chiacchiere con lui, prima che lo friggano.»

    «Sissignore» rispose alzandosi, pronta ad andarsene.

    Pearson indicò una pila di scatole, già caricate su un carrellino parcheggiato in un angolo dell’ufficio, accanto alla porta. Tess gli rivolse un’espressione interrogativa.

    «Il caso Garza» replicò Pearson, poi tornò a dedicarsi ai documenti che stava leggendo prima del suo arrivo.

    Winnett afferrò l’impugnatura del carrellino e fece una smorfia. Una stilettata di dolore nel fianco. Passò l’impugnatura nell’altra mano e riuscì a uscire dall’ufficio senza colpire le pareti o ammaccare qualche mobile.

    Sollevata, con fare impacciato si concentrò a trascinare il carrello sulla spessa moquette, guardandosi alle spalle a ogni passo per assicurarsi di non far cadere la pila di scatoloni. Andò a sbattere contro qualcuno, finendo con la testa addosso a un torace muscoloso provvisto di camicia bianca e di una cravatta dai colori sgargianti. Sussultò, perché l’impatto le aveva provocato una fitta di dolore alla spalla.

    «Accidenti, Winnett, fa’ attenzione» protestò Donovan. Era l’analista migliore e più brillante della squadra. Un analista, non un agente sul campo, malgrado le sue numerose richieste e il suo solido e risoluto entusiasmo.

    Tess strinse le labbra e ingoiò una lunga e articolata imprecazione.

    «Scusa, Donovan. Tutto a posto?» chiese con un filo di sarcasmo. Lui scosse la testa.

    «Se uno pensa che di mestiere maneggi una pistola. Mah… Mi chiedo chi abbia dato la sua approvazione» ribatté, con umorismo mordace.

    La battuta andò a segno e, nel giro di un secondo, provò il rabbioso desiderio di dire a Donovan che erano le stesse persone che avevano rifiutato le sue richieste di diventare un agente sul campo. Ma poi rammentò l’impegno che aveva preso con se stessa e con Pearson, e tenne a bada la replica stizzita.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1