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Il Leone di Khum Jung
Il Leone di Khum Jung
Il Leone di Khum Jung
E-book465 pagine5 ore

Il Leone di Khum Jung

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Info su questo ebook

Venticinque anni fa, l’Everest si è preso la vita di Steven Madden, facendo di Sarah una giovane vedova. Da allora, l’odio per quella montagna impedisce a Sarah persino di pronunciarne il nome. Ma adesso, il Mostro si è impossessato di suo figlio, insinuando in lui il seme dell’ossessione. Questa volta, però, Sarah non rimarrà a casa mentre Greg arrampica verso l’odiata cima. Se la montagna vuole strapparle anche lui, dovrà farlo guardandola negli occhi.

Frank Kincaid è conosciuto nell’Himalaya come una delle guide più esperte nelle spedizioni sull’Everest, oltre che come benefattore nel villaggio di Khum Jung. I suoi metodi non ammettono compromessi ed è per questo che non ha mai perso un cliente sulla montagna. Ma quando la storia minaccia di ripetersi, Frank dovrà fare i conti con un ricordo del passato: il disastro costato la vita al suo migliore amico, Sherpa Pasang. 

Una squadra in cordata. Una sfida estrema. Quale prezzo saranno disposti a pagare per avere in premio la vetta?

LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2021
ISBN9781071585634
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    Anteprima del libro

    Il Leone di Khum Jung - Ronald Bagliere

    Ringraziamenti

    Vorrei ringraziare tutti quanti hanno sopportato e ascoltato il mio brainstorming durante l’anno passato. Siete stati il mio alter ego e mi avete indirizzato verso la meta. Un ringraziamento speciale alla mia amica Carolyn, che ha trascorso interminabili ore aiutandomi a vedere le cose dal punto di vista di Sarah. Non ce l’avrei fatta senza di te! Anche a Martin, che guarda il mondo da un’altra prospettiva e mi ha fatto riflettere su tematiche che neppure immaginavo. Al mio gruppo di critica letteraria del lunedì sera, il Syracuse Writer’s Roundtable, che mi ha incoraggiato e spronato, chiedendomi un nuovo capitolo ogni settimana. Al mio grafico, Kim, che continua a sorprendermi con splendide immagini e infine al mio Editore, Melanie, che ha creduto in me. Ti sarò per sempre grato.

    Prologo

    Campo Base Everest – 1985

    Frank raggiunse di corsa la tenda di comando della Frontier Expeditions, dove trovò Jack Trammel intento a comunicare via radio. Il resto della squadra si era già radunato, occupando tutto lo spazio della tenda. Frank si avvicinò e Jack gli rivolse un cenno, senza perdere la concentrazione. Quando una voce gracchiante giunse in risposta dalla trasmittente, l’allarme nei profondi occhi nocciola del leader della spedizione apparve fin troppo eloquente.

    «Stiamo scendendo, ma lui è bloccato. Chiamate il Campo 4 per vedere se Tar-Chin è arrivato. Passo», disse la voce esausta.

    «Lo faccio subito», rispose Jack. «Continuate a muovervi, passo».

    «Ci stiamo provando. Ma il vento sta aumentando e anche la neve».

    Gli occhi di Frank si spalancarono quando lesse lo schermo del pesante computer portatile che giaceva tra i rapporti meteo sparsi sul tavolo.

    I dati che lampeggiavano sul monitor non erano buoni: FL270, 290/80, MS48, previsti per le 10:15 GMT. Questo significava che il Sirdar Sherpa di Jack e il suo cliente stavano procedendo dritti nelle braccia di una tormenta. Toccò il braccio di Jack indicando il portatile e in un sospiro domandò: «Quando sono arrivati questi dati?»

    Jack rimase impassibile e coprì il microfono con una mano. «Un quarto d’ora».

    «Gesù», sibilò Frank. La montagna aveva deciso di nuovo di dare una festa a sorpresa, infischiandosene se il resto del mondo obbediva alle previsioni metereologiche. «Altitudine?»

    «8.400 metri» rispose Jack, restituendo a Frank uno sguardo d’intesa. In nessun modo Pasang e l’americano sarebbero riusciti a raggiungere il Campo 4 prima che la tempesta si abbattesse sulla montagna. Erano in trappola. Anche per quelli che erano già riusciti a fare ritorno al campo avanzato sarebbe stato un inferno.

    Di nuovo, la voce dello Sherpa si materializzò tra le scariche elettrostatiche. «Tar-chin è arrivato al Campo 4? Passo».

    Jack si morse il labbro e si passò una mano sul volto rugoso. Frank sapeva che il leader della spedizione si trovava in una posizione scomoda. Se Jack avesse detto a Sherpa Tar-chin che Pasang era in difficoltà e stava chiedendo di lui, questi si sarebbe precipitato senza indugio. Ma le possibilità di successo erano vicine allo zero ed era fin troppo probabile che lo Sherpa non facesse ritorno.

    Finalmente Jack si rivolse alla radio. «Ancora non risponde. Com’è l’ossigeno? Passo».

    Ci fu un lungo silenzio e Frank temette il peggio. Poi la voce di Pasang giunse disturbata.

    «Un’ora nella bombola di Steven, forse un po’ di più se diminuisco il flusso. Ma dubito che resisterebbe. Io ne ho quattro nella mia. Possiamo scambiarle. Passo».

    «Decidi tu, Pasang», disse Jack, mentre la piccola folla nella tenda di comando dietro di loro non cessava di bisbigliare.

    Frank si voltò ad osservare i volti dei primi che avevano avuto notizie del dramma che si stava svolgendo sulla montagna. Le voci viaggiavano velocemente nella comunità degli scalatori quando c’erano delle vite in pericolo. In quei momenti, tutto il campo base faceva quadrato, lavorando senza posa e facendo di tutto per riportare gli uomini in salvo. Ma la cruda verità, era che si poteva fare ben poco quando la montagna decideva di ruggire. Ed era esattamente quello che stava facendo in quel momento.

    Il lavoro di Jack Trammel era mantenere lo spirito di Pasang vivo e forte e ci stava provando in ogni modo possibile. Forse Pasang era consapevole che il leader della spedizione stesse mentendo sul fatto che Tar-chin non fosse ancora giunto al campo 4. Ma ogni alpinista sapeva che l’unica cosa che contava, in una situazione estrema, era spronarti a non smettere di camminare e se fosse stato necessario mentire, allora bisognava farlo. Continuare a muoversi è vitale. Se ti fermi e smetti di pensare, sei morto.

    I minuti si trasformarono in un’ora e un’ora si trasformò in due, poi tre e mentre il tempo continuava a scivolare via, la voce di Pasang si faceva sentire sempre più di rado. Per lui e l’americano forse era arrivata la fine o, in ogni caso, vi si stavano avvicinando e questo polverizzava le speranze di Frank. L’ultima volta in cui aveva sentito la sottile voce di Pasang gli era parso ovvio che non sarebbero riusciti a scendere fino al Campo 4, dove il vento spazzava i costoni creando gelide raffiche taglienti a meno sessantacinque gradi.

    Frank si appartò in un angolo della tenda di comando, preoccupato dalla richiesta inviata da Jack al Campo 4 di informarlo sull’evolversi della situazione. Jack gli aveva dato la possibilità di staccare la mente dalla tragedia che si stava consumando in cima alla montagna, ma non stava funzionando. Frank non poteva fare a meno di pensare a Pasang, disteso nella neve mentre lottava in cerca dell’ultimo respiro. Chiuse gli occhi e vide il volto deciso, piccolo e tondo dello sherpa e sentì le labbra tremare.

    Qualcuno portò delle tazze con tè del Masala e succo di mango caldo. Frank lo rifiutò con un cenno quando glielo offrirono. Non sarebbe riuscito a mangiare, o bere, sapendo che Pasang stava morendo nel futile tentativo di trascinare giù dalla montagna un uomo che non aveva voluto sentir ragioni. Inoltre, Frank era furioso perché Pasang si era lasciato manipolare dall’americano e si sentiva doppiamente frustrato perché lui non aveva potuto fare un accidenti di nulla per impedirlo.

    Mentre sedeva ascoltando il vento che frustava il nylon della tenda di comando, pensò alla madre di Pasang, Nuri. Sarebbe toccato a lui dirle che suo figlio non aveva fatto ritorno. Quel pensiero era insopportabile. Sentì un nodo formarsi in gola mentre serrava la mano in un pugno. Se mai guiderò una spedizione, non permetterò che accada una cosa simile. Qualunque stronzo disubbidisca gli ordini del mio Sirdar, dovrà cavarsela da solo!

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    Los Angeles, California – 1985

    Sarah infilò un bagel nel tostapane e si volto verso la TV portatile della cucina per ascoltare le notizie del mattino. Mentre osservava il mezzobusto in giacca e cravatta che snocciolava i comunicati, il pensiero andò a suo marito, in Nepal. Ormai doveva aver fatto ritorno al campo base dopo l’attacco alla vetta iniziato due giorni prima. Ma al momento non aveva ancora ricevuto notizie del suo rientro. Cercò di non fare caso alla preoccupazione che iniziava a strisciare subdola dentro di lei, mentre Gregory, suo figlio ingurgitava lamponi dal seggiolone. Voltatasi verso di lui, raccolse un boccone di cereali con il cucchiaio di Bugs Bunny e lo pilotò verso la sua bocca spalancata. A soli diciotto mesi di età, aveva già i profondi occhi blu del padre.

    «Papà farà ritorno dal tetto del mondo tra poco», disse Sarah, mentre lui faceva dondolare le gambette avanti e indietro. Gli prese il mento e si sforzò di sorridere. «Non è una cosa incredibile?»

    Gregory masticò i cereali, poi sul volto paffuto comparve un sorriso mentre batteva le mani sui braccioli del seggiolone. Anche Sarah rise insieme alla sua piccola peste. Da quando Steven era partito per la montagna, due mesi prima, per lei c’era stato solo suo figlio, giorno dopo giorno. Si era stupita nello scoprire che stare da sola le aveva dato una forza che non immaginava di possedere e la cosa non le dispiaceva. Ora doveva solo imparare a bilanciarla con l’istinto e la sicurezza mentale di Steven.

    Oggi aveva in programma una gita campestre con i suoi alunni dell’ultimo anno della Lincoln Elementary. Era stato Steven a suggerire l’idea di portare la classe allo zoo prima che partisse per il Nepal. Sarebbe stato un bel modo di salutare gli alunni che aveva visto crescere e trasformarsi in giovanotti curiosi, intelligenti e capaci. Ma dietro il suo suggerimento si nascondeva un altro motivo: darle qualcosa da pianificare e quindi distrarla dalla preoccupazione per lui.

    Lanciò un’occhiata all’orologio a muro sopra la finestra. Segnava quasi le sei del mattino. La sua amica ed assistente di classe, Roxanne, sarebbe passata a prendere lei e Gregory nel prossimo quarto d’ora. Avrebbero lasciato Gregory all’asilo per poi dirigersi direttamente al lavoro, senza la loro camminata quotidiana.

    Mezzora dopo stava picchiettando le dita sul bancone della cucina, sbirciando fuori dalla finestra.

    «Dove sei Rox? Oggi non è giorno per fare tardi». Era combattuta se alzare la cornetta e chiamarla. Prima che si decidesse a farlo, il telefono prese a squillare.

    «Ehi, ma dove...»

    «Mi scusi», disse la voce di un uomo.

    Sarah fece un lungo respiro e guardò verso il soffitto, imbarazzata. «Oh, mi spiace credevo fosse un’altra persona».

    «Nessun problema, Signora. Il mio nome è Jack Trammel. Lei è Sarah Madden?»

    «Sì, sono io».

    Ci fu una pausa dall’altra parte della cornetta, al punto che Sarah pensò che avesse riagganciato. «Sarah, sono il capo spedizione della Frontier Expeditions, la chiamo dall’Everest».

    Finalmente... Pensò Sarah, sentendosi sollevata. Si sistemò una ciocca dei capelli scuri sopra l’orecchio. «Oh, sì, aspettavo una vostra chiamata. È lì mio marito? Posso parlargli?»

    «Signora Madden... C’è stato un incidente sulla montagna. Io... Io vorrei che ci fosse un modo più semplice per dirglielo, ma suo marito.... Lui... Mi dispiace, purtroppo non ce l’ha fatta».

    Sarah strizzò gli occhi cercando di comprendere che cosa avesse appena detto quell’uomo. Improvvisamente la cucina si fece piccola intorno a lei e il pavimento le mancò sotto i piedi. 

    «Signora Madden? È ancora lì?»

    Sarah si passò la cornetta da una mano all’altra e si schiarì la gola. «Sì».

    Ci fu un’altra pausa. «Non sa quanto mi dispiace».

    «Può ripetere quello che ha detto? Temo di non aver sentito».

    La voce tremante di Jack le giunse di nuovo all’orecchio. «C’è stata una tempesta improvvisa che nessuno ha potuto prevedere. Suo marito... Si è ritrovato in mezzo. Mi dispiace moltissimo. Ho aspettato a chiamarla finché non ho avuto la certezza che fosse... Se c’è qualcosa che posso...»

    Sarah lasciò cadere la cornetta e sentì il suo corpo scivolare sul pavimento. Non stava succedendo davvero. Steven le aveva detto che sarebbe andato tutto bene. La gente scalava quella montagna da sempre. Si era affidato alla miglior compagnia di spedizioni del mondo, con tutte le precauzioni di sicurezza che i soldi potevano comprare. Eppure era... Non riusciva neppure a concepire la parola.

    Una macchina parcheggiò nel vialetto mentre Gregory iniziava a lamentarsi nel passeggino. Un clacson risuonò nel viale, la TV farfugliava parole incomprensibili e il mondo divenne una macchia scura.

    Capitolo 1

    Oggi – Kathmandu International Airport, Nepal

    Sarah guardò suo figlio Greg, seduto in fianco a lei, immerso nella lettura di una rivista di alpinismo. Da quando avevano lasciato Hong Kong, le aveva rivolto non più di una dozzina di parole.

    Aveva pensato a lungo alla discussione accesa che avevano avuto poco prima di imbarcarsi. Lei aveva cercato di vederla dal suo punto di vista e all’inizio aveva accettato, seppur riluttante, di rimanere a Kathmandu, mentre lui avrebbe proseguito verso la montagna, ma poi aveva capito che non ci sarebbe riuscita.

    Perché lui non capisce come mi fa sentire?

    Si morse il labbro mentre il suo sguardo si spostò sul finestrino oltre il quale i profili scuri delle colline sfrecciavano sotto di loro.

    L’aereo di linea iniziò la manovra di approccio verso l’Aeroporto Internazionale di Kathmandu. Ancora una volta si ritrovò a domandarsi che cosa portasse gli uomini a rischiare la vita per qualcosa di così insensato. Era forse una forma di istinto suicida? Suo marito le aveva detto che si trattava di una sfida con sé stesso, per scoprire di che cosa era fatto.

    Ecco quello che aveva scoperto: quella sfida gli era costata la vita. E oltre a quello l’aveva mollata da sola a crescere un bambino che aveva il diritto di avere un padre.

    Fece un lungo respiro, incapace di sopportare oltre il silenzio del figlio.

    «Senti, mi dispiace. Sarai arrabbiato con me per sempre?»

    «Non sono arrabbiato», fece lui. Ma il suo tono era duro e tagliente.

    Sarah sentì il corpo irrigidirsi. «E allora cosa? Sei stizzoso da quando siamo partiti da Hong Kong», disse lanciandogli un’occhiata eloquente.

    Greg posò la rivista e guardò in alto. «Non capisco perché hai dovuto chiamare Kincaid. Eravamo d’accordo che saresti rimasta a Kathmandu», sputò fuori a voce alta, come sparando da una mitraglietta.

    «Lo so. Ma non posso farlo», disse Sarah reggendo lo sguardo di un passeggero che si era voltato ad osservarli.

    Greg strinse i denti e abbassò la voce. «Finirà che dovrò rinunciare alla vetta per te, lo sai», rispose lui guardandola con occhi gelidi.

    Sarah ricambiò lo sguardo appuntito del figlio. «Non vedo come la mia presenza possa danneggiare il tuo tentativo».

    «Sarai una distrazione! Come fai a non capirlo?»

    «Una distrazione? Io vengo per supportarti!» disse Sarah, anche se in realtà avrebbe voluto dissuaderlo e mettere la parola fine a quella demenziale odissea.

    «Allora supportami da Kathmandu», rispose Greg. «Sono sicuro che Kincaid ti restituirà i soldi».

    «I soldi non centrano nulla e tu lo sai bene», disse Sarah. «Ho già perso fin troppo su questa maledetta montagna e mi venga un accidenti se me ne starò seduta in una stanza d’albergo aspettando che...»

    «Non succederà nulla», la interruppe Greg. «Guarda che l’alpinismo ha fatto passi da gigante dall’incidente di papà».

    «Mi sembra di sentire lui», disse Sarah a voce più alta di quanto intendesse fare.

    Greg serrò la mascella, «Ah, sì?»

    «Sì», disse pensando a qualche cartuccia da sparare a suo sostegno. Ma sapeva che non c’erano proiettili in grado di penetrare la risoluzione del figlio di tentare la scalata. Alla fine Sarah sospirò e abbassò la voce. «Questa non è soltanto un’arrampicata. Questa montagna uccide le persone».

    «Solo se non sai quello che fai», disse Greg. «È esattamente per questo che mi alleno da più di un anno».

    «Non puoi addestrarti per il clima».

    «È stata una tempesta anomala ad uccidere papà», si oppose Greg con foga. «Adesso esistono attrezzature migliori. Ma lo sai che riescono a prevedere una spruzzata di neve con tre giorni di anticipo e con un’accuratezza del novantacinque percento?».

    «Va bene, te lo concedo. Ma è proprio quel cinque percento rimanente che mi spaventa a morte», disse Sarah distogliendo lo sguardo per fissarlo di nuovo oltre l’oblò.

    Greg rimase in silenzio per un po’. «Ti preoccupi troppo. Kincaid è il migliore. Non ha mai perso nessuno sulla montagna. Non lascia nulla al caso».

    «Mi preoccupo troppo?» fece Sarah di nuovo accesa. Era la stessa frase standard che Steven usava con lei. Non le piaceva quando le dava della melodrammatica, e non le andava a genio neanche adesso. «Scusami tanto se mi preoccupo di quello che può succederti».

    Greg strinse le labbra, poi il viso si distese; come sempre, quando intuiva le ragioni che agitavano sua madre.

    «Mi dispiace. So che ti preoccupi».

    «E allora perché dobbiamo sempre litigare su questo? Ti costa così tanto accettare la mia decisione? Non chiedo altro», disse Sarah decisa. Quando Greg distolse lo sguardo, scrollò la testa. Come poteva convincerlo? Sapeva che parte del problema era il suo sensibile ego maschile. Dopo un po’ si schiarì la gola. «Non ti metterò in imbarazzo».

    Lui rise. «Non è quello che mi preoccupa. Quello che mi preoccupa è la tua sicurezza e, come continuo a ripeterti, non ho bisogno di quel genere di distrazione lassù». Rimase in silenzio un momento poi aggiunse, «So che vuoi esserci anche tu, ma per me questa è una cosa personale, io... Io ho bisogno di fare questa cosa da solo».

    «Lo capisco», rispose Sarah voltandosi per guardarlo.

    «No, non è vero», disse Greg. Se così fosse, non ti saresti prenotata nella spedizione senza prima parlarmene. È stato scorretto e lo sai».

    La risposta aveva colpito nel segno e Sarah sentì un groppo in gola. Perché non riusciva a capire che la sua crociata per sconfiggere il Mostro la stava consumando? Si morse il labbro. «Sì, lo so. Mi dispiace, è stato scorretto».

    «Esatto», confermò Greg.

    Ci fu un lungo silenzio poi Sarah disse: «L’ho fatto perché ti voglio bene».

    «Se è così, allora rimani a Kathmandu», bofonchiò Greg.

    Sarah osservò la sua espressione implorante. Sentiva di volergli tanto bene da farle mancare il respiro. Tornò a guardare il finestrino, preparandosi a sopportare la frustrazione imminente.

    «Mi dispiace. Non posso».

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    Trenta minuti più tardi, uscirono a piedi dal terminal, un vecchio edificio a due piani con i mattoni che affioravano in diversi punti. L’aria della notte era calda. Fuori dall’aeroporto li accolse una strada a doppia corsia, dove una folla di uomini indaffarati attendeva di poter aiutare chiunque emergesse dall’ingresso dell’aeroscalo per guadagnarsi qualche spicciolo. Sarah fece un lungo respiro, strinse con forza la maniglia della valigia e seguì Greg lungo un sentiero cementato, finché raggiunsero un nepalese piuttosto alto che reggeva un foglio di cartone che recitava Khum Jung Mountaineering.

    Bene, molto professionale... pensò Sarah, mentre Greg spingeva il carrello colmo di attrezzatura da alpinismo.

    Quando gli furono appresso, l’uomo sfoggiò un sorriso.

    «Namaste! Il Signor Madden?» domandò mostrando in offerta la sua completa dentatura.

    «Sì», rispose Greg. «Da che parte?»

    L’uomo li condusse verso una breccia lungo la coda formata da viaggiatori e locali. A meno di cento metri era parcheggiato un mini van Ford con il logo stampato della Khum Jung Mountaineering. Prima che riuscissero a raggiungerlo, diversi uomini si staccarono dalla folla offrendo loro aiuto e servizi di ogni genere.

    Il piccolo contingente rimase però a bocca asciutta quando un uomo alto e dalle spalle larghe, saltò fuori dallo sportello laterale del furgone. «Da qui ci pensiamo noi, signori», disse l’uomo invitando la piccola folla ad allontanarsi.

    Sarah notò per caso i capelli sale e pepe raccolti in una coda di cavallo che lambiva le spalle. Si domandò se l’uomo fosse un partecipante della spedizione della Khum Jung oppure una delle guide. Optò per la seconda opzione.

    Anche lui mostrò un sorriso spazioso. «Namaste! Sono Frank Kincaid. Lasci che la prenda io», le disse afferrando la sua borsa.

    «Grazie», rispose Sarah sorpresa. Non si aspettava che l’illustre Frank Kincaid, del quale il figlio aveva parlato così a lungo, venisse ad incontrarli personalmente.

    L’uomo si rivolse a suo figlio. «Tu devi essere Greg. E quindi lei dev’essre Sarah», aggiunse voltandosi verso di lei.

    «Corretto», rispose Sarah. Anche se il suo sguardo era stato piuttosto evanescente, Sarah non poté fare a meno di scorgervi una qualche forma di giudizio nei suoi confronti.

    «Benissimo, allora, benvenuti in Nepal», disse Frank aprendo il baule e spingendovi dentro la borsa. «Com’è stato il volo?»

    «Lungo», fece Greg.

    «Ci credo», rispose Frank richiudendo il portello del van. «Perché non vi accomodate, mentre io assicuro l’attrezzatura sul tetto?»

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    Mentre procedevano in un labirinto di strade strette e buie, Sarah ascoltò Greg che bombardava Frank con domande sulla montagna e sulle previsioni nella regione del ghiacciaio. L’anno precedente, il clima caldo aveva costretto tutte le spedizioni a rinunciare al tentativo di raggiungere la vetta. Il ghiaccio con le alte temperature diventava un rischio troppo elevato. Era la prima volta da quando erano cominciate le scalate commerciali della montagna che accadeva una cosa simile ed era costata parecchi soldi a tutti quanti ne avevano investiti, assumendosene il rischio, per scalare la montagna. Anche chi aveva la fortuna di essere sponsorizzato dovette subire ingenti perdite.

    Sarah osservava oltre il finestrino i negozi che si affacciavano sulla strada. Anche se suo figlio aveva uno sponsor, ci aveva messo comunque molta della sua pelle in gioco, come lui diceva; ma a lei non sarebbe dispiaciuto molto se si fossero ripetute le condizioni dell’anno precedente che avevano di fatto impedito la scalata. Quando ne ebbe abbastanza di discorsi sulla montagna disse: «E lei, Signor Kincaid, da quanto vive in Nepal?»

    Frank si voltò dal sedile frontale e le sorrise. «Diamoci del tu.. Per favore. Per rispondere alla tua domanda, direi circa quarant’anni. Il mio babbo ci ha portati quassù quando avevo circa vent’anni».

    «E prima di allora?» chiese Sarah.

    «Luanda».

    «E dov’è?» fece Greg.

    «Angola, Africa», spiegò Frank.

    Sarah ne fu stupita. Non avrebbe mai immaginato che provenisse da quella parte del mondo.

    «Perché ve ne siete andati?»

    «Guerra civile».

    «Oh. E come mai proprio il Nepal?» domandò Sarah. La sua curiosità era sincera, ma più che altro voleva evitare che l’Everest monopolizzasse il tema della conversazione.

    L’autista pigiò sul clacson e sterzò per evitare una motocicletta che sfrecciò lungo il fianco del van. Frank lanciò un’occhiata alla strada davanti a loro, poi si voltò di nuovo. «Mio padre aveva amici da queste parti». Aveva uno sguardo ambiguo che la mise in guardia; era come se lui già la conoscesse. Lei sorrise scacciando quella sensazione, poi disse: «Quindi vivi a Kathmandu, giusto?».

    «Oh, no. Sulle montagne», si girò verso Greg. «Quando arriva il tuo ossigeno?»

    Greg sfilò una gomma dalla tasca e se la mise in bocca. «Mercoledì».

    «L’hai preso dal POISK, vero?»

    Greg annuì. «Non è stato a buon mercato».

    «Non vorresti roba a buon mercato quassù, credimi», disse Frank. «Quante bombole?»

    «Trenta».

    «Bene», convenne Frank. Sfilò un foglietto dalla tasca dei guanti insieme ad una matita. «Hai il numero del volo?»

    Greg scavò nello zaino e ne estrasse una cartelletta. Mentre ne esaminava il contenuto, Sarah domandò: «Quanto ci vorrà per arrivate all’hotel?»

    «A dire il vero ci siamo appena arrivati», annunciò Frank quando il furgone giunse ad uno stop.

    Quando presero un vialetto in retro, Sarah si guardò intorno. Vedendo solo edifici semidiroccati si domandò che genere di hotel Mr. Kincaid avesse prenotato. Le era già capitato di alloggiare in un hotel ad una stella, ma l’edificio che stavano puntando in quel momento sembrava pronto per la palla da demolizioni. Ora che ci pensava, per quanto aveva visto, anche il resto della città sembrava nel medesimo stato. Poteva solo immaginare che cosa avrebbe rivelato la luce del giorno.

    Greg passò a Frank il piano volo per la consegna dell’ossigeno, poi il furgone si fermò. Dopo che Frank lo ebbe copiato sul foglietto glielo restituì e aprì lo sportello.

    Una volta introdotti in una claustrofobica lobby, Sarah si sentì a disagio. Era arredata rozzamente e c’era un odore acre e pungente nell’aria che le rendeva difficile evitare di tornare subito all’esterno. C’erano molte cose che avrebbe potuto sopportare, ma una topaia del genere non faceva parte del catalogo.

    Si voltò verso Greg. «È uno scherzo, vero?»

    Gerg alzò le spalle.

    Frank comparve alle loro spalle. Dopo poche chiacchiere in nepalese con la receptionist, disse: «Dovrebbe essere a posto».

    Sarah gli lanciò un’occhiata domandandosi se quell’uomo fosse per caso uscito di testa.

    «Signor Kincaid, questo non può essere un hotel».

    Frank la studiò per un istante, mentre l’addetta alla reception gli allungava un mazzo di chiavi. Sarah temette che stesse per farle una ramanzina, invece poco dopo lui indicò in direzione della porta d’ingresso dicendo: «Le apparenze ingannano in questa città. Seguitemi».

    Li condusse attraverso un cortile poco illuminato, decorato da alberi in fiore e aiuole. Sparsi intorno vi erano tavoli e sedie in ferro. Sarah guardò all’insù verso le verande incorniciate da viticci frondosi, poi il suo sguardo fu catturato da una delle finestre più basse; doveva essere di una stanza occupata che si intravvedeva tra le tende ripiegate. All’interno vi era un letto rifatto con una coperta colorata. Dietro il letto le pareti erano di un color pastello e accoglievano dipinti delle montagne.

    «Bene. Ammetto che devo ricredermi».

    Frank la guardò senza espressione. «Non affezionatevi troppo. È il meglio che vedrete per un bel po’ di tempo». Si voltò verso Greg. «Metto il resto dell’attrezzatura nel deposito fino al volo per Lukla. La colazione è servita alle sei, sotto quella veranda vicina alle scale. Dite al cameriere che siete con la KJM e potrete servirvi da soli. Ci troveremo qui, nel cortile, diciamo intorno alle otto per le presentazioni ed una breve chiacchierata su come andranno le cose nelle successive settimane, finché arriveremo al campo base».

    Dopo aver dedicato a Sarah un ultimo sguardo, forse un po’ più lungo di quanto si sarebbe aspettata, disse: «Allora buona notte».

    Sarah lo osservò dirigersi lungo la stradina che avevano percorso poco prima, mentre l’addetto trasportava le loro valigie. Quando Frank scomparve nel buio delle strade non si sentì del tutto convinta di potergli affidare la vita di suo figlio. Ma per il momento sapeva che non c’era molto che potesse fare al riguardo.

    Capitolo 2

    Frank aprì la porta della sua stanza d’albergo e accese l’interruttore.

    Non aveva avuto idea di cosa aspettarsi fino a quando aveva incontrato la vedova e suo figlio, ma era deciso a non farseli piacere più di quanto fosse strettamente necessario. Sì, la tragedia sull’Everest che aveva coinvolto Steven Madden era successa molti anni prima e sì, Frank si era convinto di essersela lasciata alle spalle, ma ciò non significava che l’avesse dimenticata. In aggiunta a ciò vi era il fatto che la vedova e suo figlio erano americani: si aspettavano che la gente srotolasse il tappeto rosso per loro. Grugnì. Avrebbero presto scoperto che le cose non funzionano a quel modo sulle montagne. Frank Kincaid non era un capo villaggio e non aveva alcuna intenzione di fare loro da valletto personale.

    Liberò il letto da alcuni documenti relativi alla spedizione e li posò sulla cassettiera.

    Perché non aveva chiamato il suo ufficio ordinando di cancellare la registrazione dell’americano? E perché aveva lasciato che sua madre si accreditasse per conto suo per rimanere con loro al campo base?

    Certo, i diecimila dollari extra che la donna aveva pagato, avrebbero aiutato a finanziare la scuola che stava costruendo con il supporto del Fondo Hillary di Khum Jung; e certamente talvolta acconsentiva ai membri della famiglia di uno scalatore di essere presenti durante le spedizioni. Ma quella era una prassi che riservava ai vecchi clienti, o comunque a quelli che si erano mostrati più entusiasti. Gregory Madden e sua madre non erano né gli uni, né gli altri.

    Aveva forse una morbosa curiosità nel vedere il figlio e la vedova dell’uomo che era stato responsabile della morte del suo migliore amico così tanto tempo fa? O cercava forse vendetta? Frank rifiutava questa seconda ipotesi, perché implicava essere vendicativo ed egoista. Eppure, durante i giorni che avevano preceduto quella notte, aveva sentito crescere in modo esponenziale la rabbia che aveva represso con il passare degli anni e con notevole sforzo.

    Si guardò a lungo riflesso nello specchio dell’armadio mentre si slacciava la camicia. Quante possibilità c’erano che si ritrovasse a guidare il figlio dell’uomo che aveva causato così tanto dolore a lui e alle persone a cui teneva di più? Eppure Frank aveva imparato che il karma aveva un modo tutto suo di riportare equilibrio. Lanciò la camicia sopra lo zaino e sedette sul letto incrociando le gambe nella posizione del loto. Sul cuscino, in fianco a lui, giaceva il suo borsello di pelle che conteneva un libro usurato di storie buddiste che aveva trascritto nel corso degli anni. Lo estrasse e prese a sfogliarlo, pensando alle parole che pronuncerebbe Ang Tashi-ring. Conosceva già la risposta che il vecchio lama gli avrebbe dato.

    Quale lezione stai per imparare? E sei pronto per ascoltarla?

    Frank lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, attraverso il cortile, verso la stanza della vedova. Sapeva che la rabbia era come un fantasma, un’emozione irrazionale che avrebbe potuto controllare la sua vita se glielo avesse concesso. Fece alcuni profondi respiri per domare il turbamento che gli stava attorcigliando lo stomaco. Così facendo realizzò di avere un’intera personale montagna da scalare. Era un tipo diverso di montagna; tuttavia, non meno pericolosa di quella che attendeva il giovane cliente americano. In fine guardò il libro nelle sue mani, si immerse nelle parole sulla pagina aperta e lesse: «Se accendi una lampada per qualcuno, essa illuminerà anche il tuo cammino».

    Poi fece un sospiro e si sdraiò.

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    Il mattino seguente, Frank si svegliò presto dopo un sonno privo di sogni.

    Si fece una rapida doccia e si mise al lavoro esaminando ancora una volta i permessi della spedizione e i documenti del cargo contenente l’attrezzatura. In cima alla pila di scartoffie c’erano le copie di diversi club di alpinismo che accertavano le capacità dei suoi clienti. Le osservò di nuovo e quando individuò quelle dell’americano, le sfilò dalla pila. Avendo raggiunto la vetta del Matterhorn dal versante sud, oltre al Denali, Greg Madden non era un principiante. Ma questo non dimostrava che fosse responsabile e in grado di controllarsi. Quando spingono per raggiungere la vetta, certe persone a volte prendono decisioni catastrofiche e Frank non aveva alcuna intenzione di permetterlo. Non sull’Everest.

    Poi esaminò per l’ultima volta le polizze assicurative dei suoi Sherpa insieme ai pedaggi richiesti per il trasporto a terra e sul ghiacciaio. Quando finalmente si convinse di aver messo tutti i puntini sulle i, prese il telefono e chiamò il suo rappresentante locale, Daku, per fornirgli i numeri dei voli e gli orari d’arrivo dell’ossigeno per i clienti. Infine recuperò il piano con gli obiettivi programmati per la giornata.

    La prima voce della lista era un breve briefing con i clienti, previsto dopo la colazione, per fare le presentazioni e per introdurre alcuni dettagli che sarebbero seguiti nel corso della giornata. Successivamente avrebbe condotto i clienti al Ministero del Trekking Nepalese per compilare alcuni documenti essenziali e pagare i pedaggi. Lì, avrebbero dovuto partecipare ad un meeting avente ad oggetto i registri storici degli scalatori.

    Il pomeriggio lo avrebbero invece dedicato alle procedure di conferma dei voli per Lukla, oltre che dei pernottamenti per Namche e Tengboche. Tra questi dettagli dell’ultimo minuto era prevista anche una telefonata che avrebbe dovuto fare al Dipartimento Fiscale riguardo alcune tasse scadute che insistevano dovesse ancora pagare, anche se era in possesso delle ricevute che provavano il contrario. Doveva esserci qualcuno al Dipartimento che gliel’aveva giurata e Frank aveva un’idea molto precisa su chi ci fosse dietro. Il problema era che la documentazione che provava l’avvenuto pagamento sarebbe stata spazzata sotto il proverbiale tappeto, perché in questo caso non era un problema di soldi; qualcuno era intenzionato a fargli chiudere i battenti, vanificando i suoi sforzi di finanziare la scuola di Khum Jung. Quest’ultimo aspetto era ciò che lo faceva più infuriare.

    Serrò il pugno e si sforzò di accantonare il problema con il fisco, almeno per il momento. Sarebbe stata una lunga giornata, nessun dubbio al riguardo, quindi avrebbe fatto meglio a prepararsi. Infilò i documenti nella borsa a tracolla, si infilò i sandali e uscì dalla stanza nella luce tiepida della mattina che riscaldava il giardino del piccolo cortile. Mentre discendeva una scalinata a cielo aperto, vide Toby e Jakob che attraversavano il cortile per andare a consumare la colazione.

    I clienti austriaci erano arrivati due giorni prima insieme all’australiano, mentre lunedì erano giunti due italiani, un irlandese e due francesi. Con la vedova e il figlio, che aveva recuperato la notte precedente, aveva superato il limite del suo permesso previsto per nove persone. Frank preferiva un numero limitato di scalatori per le sue spedizioni a differenza di quanto accadeva per le compagnie più grandi presenti sulla montagna. In questo modo poteva stringere un rapporto più stretto e conoscere meglio i partecipanti all’ascesa ed il loro livello di preparazione. Questo era un importante elemento che rendeva il lavoro più facile alle sue guide Sherpa. Due o tre clienti per squadra erano il numero giusto da affidare a ciascuna guida.

    Quando giunse ai piedi della rampa di scale, fu salutato dal suo assistente, Sangye, un ometto giovane dalla pelle color bronzo, il sorriso luminoso e amichevoli occhi nocciola.

    Frank posò il braccio sulle spalle dell’uomo e gli diede una bella strizzata «Dormito bene?»

    «Certamente e tu?» rispose Sangye mentre si dirigevano uno in fianco all’altro verso la sala da pranzo.

    «Sono ancora vivo, quindi credo di sì», scherzò Frank. Lasciò le spalle di Sangye e raggiunse il telefono nella tasca. Mentre controllava i messaggi disse: «Hai notizie di Guna?»

    «Sì, è in giro con il furgone, lo parcheggerà fuori dalla lobby», spiegò Sangye.

    «Bene», fece Frank. Facendo scivolare il telefono di nuovo nella tasca, lanciò un’occhiata ai due austriaci seduti appena fuori dalla sala da pranzo, all’ombra di una veranda. Guardando i loro piatti colmi, Frank si domandò se fosse rimasto qualcos’altro al buffet.

    «Vai avanti tu», disse poi toccando il braccio di Sangye, «Io vado a salutare i ragazzi laggiù».

    Quando fu loro vicino abbozzò un sorriso, «Namaste».

    L’uomo alzò lo sguardo mentre Frank sfilava una sedia da sotto un tavolo lì vicino. «Buongiorno», rispose Jakob con un forte accento austriaco.

    Frank sedette a cavalcioni sulla sedia «Vedo che vi state godendo la colazione».

    Toby affondò la forchetta nelle patate fritte e le fece scomparire in bocca annuendo. Jakob disse: «Non è niente male. Forse con un po’ di condimento in più...»

    Frank valutò i due grossi uomini con i capelli color grano. Erano in forma perfetta. Ma un fisico robusto e muscoloso non era necessariamente indicato per il luogo verso il quale erano diretti.

    «Dovreste andarci piano con le mascelle, o la montagna vi presenterà il conto».

    Entrambi lo fissarono sgomenti per un istante, poi abbassarono gli sguardi sui loro piatti. Jakob posò la sua forchetta e tornò a guardare Frank. «Non è mai stato un problema».

    «Certo. Ma nessuno di voi è mai stato oltre i 6.500 metri. Normalmente fare incetta di calorie è una buona cosa in montagna, perché il corpo lavora in modo più intenso in alta

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