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E-book341 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Un aeroplano si schianta su una nave da crociera americana al largo delle coste francesi.
Un sanguinoso attentato viene compiuto contro la nazionale di calcio statunitense in un lussuoso albergo di Roma.
Ancora una volta il terrorismo di matrice islamica torna a mietere vittime per mezzo dell’organizzazione più pericolosa al mondo, Justice of Allah (JOA).
I servizi segreti di mezzo mondo sono alla ricerca del suo leader, l’inafferrabile Omar Abdallah Hassan. L’agente dei servizi segreti italiani Nicholas Caruso si unirà alla ricerca, che lo porterà fino al lontano Pakistan.
Tra inseguimenti e sparatorie, Caruso si accorgerà presto che Hassan non è l’unico nemico da dover affrontare.
Dopo Attacco allo Stivale, Alessandro Cirillo torna con un nuovo emozionante thriller d’azione.
Il blog dell'autore: alessandrocirillo.altervista.org/
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2014
ISBN9788866901907
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    Anteprima del libro

    Nessuna scelta - Alessandro Cirillo

    Alessandro Cirillo

    Nessuna scelta

    EEE-book

    Alessandro Cirillo, Nessuna scelta

    © Edizioni Esordienti E-book

    Prima edizione e-book: aprile 2014

    ISBN: 9788866901907

    http://www.edizioniesordienti.com

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Copertina: © Roberta Schiavo

    PROLOGO

    Montagne di Tora Bora (Afghanistan), 15 dicembre 2001

    La caverna era fredda e umida. La temperatura si aggirava intorno ai quindici gradi centigradi. Di tanto in tanto, una folata di aria fredda come la mano di un morto schiaffeggiava il viso delle persone che vi erano riunite. Il silenzio in quella stanza di pietra millenaria era interrotto dal ronzio di un generatore elettrico alimentato a benzina. Il macchinario, sporco e arrugginito, forniva energia a una serie di lampade, garantendo così una fioca illuminazione. Pochi litri di benzina tenevano a bada le fredde tenebre della caverna, che faceva parte del complesso montagnoso di Tora Bora, nell’Afghanistan orientale. Appena dieci chilometri più a sud si trovava la frontiera con l’ATAF, le aree tribali ad amministrazione federale pakistana. Il territorio era formalmente amministrato dal governo del Pakistan, anche se di fatto era controllato autonomamente da tribù di etnia pashtun.

    Da alcuni mesi in Afghanistan era in atto una guerra in cui i talebani, che governavano il Paese da diversi anni, stavano avendo la peggio. Avevano dovuto abbandonare la capitale Kabul, martellati dalle bombe degli americani e inseguiti dalle milizie anti-talebane. Parecchi gruppi di militanti di Al Qaeda avevano trovato rifugio tra le montagne di Tora Bora, nascosti nel sistema di grotte dove, durante l’occupazione sovietica, i combattenti per la libertà avevano ricavato da quegli scomodi spazi dei locali adatti alla vita umana: dormitori, cucine, infermerie, armerie. A pochi chilometri di distanza si trovava il Pakistan, un luogo dove i nemici non avrebbero potuto seguirli senza rischiare di scatenare una nuova guerra.

    Tra quelle persone rifugiate nelle grotte c’era anche un bambino di nove anni, Latif. Se ne stava sdraiato su una logora branda di metallo, la testa affondata nel grembo della madre che gli accarezzava i ricci capelli neri con una mano. Indossava un camicione bianco lungo fino alle ginocchia e dei pantaloni di lana. Sua madre, Tahira, lo aveva avvolto in una grezza coperta di lana per ripararlo dal freddo. Il bambino con una mano stringeva la lunga veste nera della donna che ricopriva tutto il corpo lasciando scoperti solo gli occhi. Il monotono rumore del generatore elettrico lo aveva fatto cadere in un sonno agitato, nel quale sognava le bombe che cadevano dal cielo distruggendo le case del quartiere dove abitava. Lui scappava con il papà e la mamma mentre il fuoco devastava ogni cosa. A un certo punto arrivavano loro, i demoni americani. Avevano lunghe corna appuntite e le loro bocche si aprivano in ghigni famelici da dove spuntavano denti aguzzi. Lui e i suoi genitori cercavano di scappare ma i demoni erano più veloci. Improvvisamente due grosse mani dotate di artigli affilati avevano arpionato il papà e la mamma. Latif si era voltato giusto in tempo per vederli divorare. Ora era il suo turno. Uno dei demoni avvicinava la mano al piccolo, sogghignando crudelmente. La mano stava stringendo la testolina di Latif quando improvvisamente il piccolo si svegliò di soprassalto. Sollevò di scatto la testa e scoprì con immensa gioia che la mano era quella di sua madre.

    Piccolo mio, va tutto bene? chiese la donna.

    Ho fatto un brutto sogno rispose il bambino, ancora scosso dall’incubo recente.

    E che cosa hai sognato di tanto brutto?

    I demoni americani ci stavano inseguendo dopo avere distrutto la nostra casa. Poi avevano preso te e papà e dopo... Latif non riuscì a finire la frase perché un groppo cominciò a salirgli in gola. Aveva voglia di piangere.

    No, Latif. I demoni americani non possono trovarci qui lo rassicurò la madre accarezzandogli la guancia che cominciava a bagnarsi di lacrime.

    Fu a quel punto che si avvicinò il padre del bambino con una tazza piena di tè caldo.

    Ragazzo, smettila di piangere. Non si addice a un uomo disse al piccolo.

    Fahd, ha solo nove anni! protestò timidamente la donna.

    Non dire sciocchezze. Alla sua età ero già in grado di usare pistole e fucili come un adulto.

    I tempi sono cambiati.

    Ah sì? Ti sembra davvero che i tempi siano cambiati? Guarda dove ci ritroviamo. La pace è durata solo per pochi anni. Sono secoli che qualcuno cerca di sottometterci. Gli americani sono solo gli ultimi della serie. Per noi non ci sarà mai pace. Questo è il motivo per cui dobbiamo sempre essere pronti a combattere. E per colpa tua, donna, nostro figlio non ha mai neanche partecipato a una zuffa per strada.

    Ho sempre cercato di proteggerlo!

    Taci! L’unico modo di proteggersi è essere più forte del proprio avversario.

    La donna non replicò e abbassò lo sguardo a terra, consapevole di avere perso la discussione. Fahd porse la tazza di tè caldo al figlio senza dire un parola.

    Il bambino prese la tazza tra le mani e ne bevve un sorso. Il liquido caldo scese nella gola trasmettendogli un’immediata sensazione di calore. Lui voleva bene a suo padre anche se l’uomo non si era mai dimostrato particolarmente affettuoso nei suoi confronti. Era un ufficiale dell’esercito talebano e passava gran parte delle giornate fuori casa. Nel poco tempo che aveva trascorso con il figlio, lo aveva sempre trattato come un adulto e mai come un bambino. Era solito raccontargli la gloriosa storia del popolo afghano, che aveva combattuto Alessandro Magno, Gengis Khan, l’impero britannico e i sovietici. Latif ascoltava rapito le storie di epiche battaglie che il padre gli raccontava prima di andare a dormire.

    Il bambino continuò a bere il suo tè mentre il padre ritornava a sedersi a un vecchio tavolo di legno sul quale erano appoggiati due fucili AK-47. Attorno al tavolo c’erano altri due uomini, Issam e Akram, due subalterni dell’uomo che erano fuggiti con lui da Kabul. Nel complesso di caverne avevano trovato rifugio una ventina di uomini. Solo Fahd era riuscito a portare con sé la propria famiglia.

    Fu Issam a prendere la parola per primo.

    Fahd, dobbiamo decidere cosa fare. Ormai sono giorni che siamo rintanati qua dentro. Prima o poi gli americani ci verranno a cercare.

    Che vengano pure! urlò Akram. Queste grotte saranno la loro tomba!

    Se rimaniamo qua saranno la nostra, di tomba. Sono giunte notizie che gli americani sono penetrati in alcuni complessi di grotte. È meglio fuggire in Pakistan, finché siamo ancora in tempo.

    Preferisco morire combattendo piuttosto che scappare come un coniglio spaventato disse Akram sbattendo un pugno sul tavolo.

    Il piccolo Latif sussultò mentre il padre Fahd ancora non prendeva parte alla discussione, rimanendo a lisciarsi la lunga barba nera.

    E a cosa servirebbe farsi ammazzare? Faremmo solo un favore ai dannati americani replicò Issam.

    Non ti preoccupare che prima di raggiungere Allah ucciderò ancora parecchi infedeli.

    Issam evitò di continuare la discussione limitandosi a scuotere il capo. Entrambi guardarono Fahd in cerca di una risposta.

    L’uomo smise di lisciarsi la barba e finalmente cominciò a dire la sua.

    Caro Akram, sicuramente Allah non disprezza la tua voglia di resistere e uccidere più infedeli possibile. Tuttavia dopo aver riflettuto a lungo credo che la soluzione migliore sia tentare di raggiungere il Pakistan. Issam si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.

    Ora siamo allo sbando e le munizioni scarseggiano. In Pakistan troveremo altri fratelli e potremo riorganizzarci per poi ritornare a colpire gli americani. Non so dirvi quanto ci vorrà ma ci riprenderemo la nostra terra e la affideremo nuovamente nelle mani di Allah.

    Così sia augurarono insieme Issam e Akram.

    Partiremo tra due ore e marceremo tutta la notte. Date l’ordine agli uomini di prepararsi.

    I due fecero un cenno con il capo e si voltarono avviandosi verso un sentiero di roccia che li avrebbe portati in un’altra sezione delle grotte.

    Congedati i suoi subalterni, Fahd si avvicinò alla sua famiglia.

    Cominciate a prepararvi anche voi, sarà una marcia difficile e pericolosa. Ma se tutto va bene alle prime luci dell’alba saremmo salvi in Pakistan.

    Padre, perché andiamo in Pakistan? chiese il piccolo Latif che ancora non aveva chiara la situazione.

    Per scappare dagli americani che vogliono ucciderci rispose sintetico il padre.

    Ma perché vogliono ucciderci? insistette Latif.

    Te l’ho già detto una volta. Perché sono delle bestie che hanno rifiutato la luce di Allah. Il loro unico scopo è sottomettere i fedeli dell’Altissimo per corromperli con i loro costumi depravati. Ti addestrerò come sono stato addestrato io alla tua età e farò di te un guerriero. Così potrai tornare con me per uccidere gli infedeli.

    Latif annuì anche se continuava a non capire molto di quello che accadeva. Lui non voleva diventare un guerriero ma sapeva che non avrebbe potuto opporsi a una decisione del padre.

    Con una lunga sorsata svuotò la tazza, sperando che il genitore cambiasse idea riguardo al suo futuro.

    Dalton Cox si passò la lingua sulle labbra mentre osservava ciò che aveva di fronte. Aveva appena trovato un accesso segreto che portava all’interno della montagna. Era stato abilmente nascosto da un telone mimetico ricoperto di vegetazione. Quasi impossibile notarlo dalla distanza senza un occhio esperto. L’apertura era alta appena un metro ed era larga settanta centimetri ma era sufficiente a far passare lui e la sua squadra. Si accarezzò la barba ispida che non tagliava da più di una settimana, nera come i suoi capelli. Gocce di sudore imperlavano la sua fronte, scivolando su una profonda cicatrice che aveva sull’occhio destro, omaggio della guerra in Iraq del ’91. Bei ricordi quelli, quando faceva ancora parte dei Marine Force Recon. Poi c’era stata l’aggressione a quella carogna del suo superiore e il congedo con disonore. Per sua fortuna la CIA aveva saputo trovargli un nuovo impiego. Da quasi dieci anni ormai faceva parte della Special Activities Division (SAD) della CIA, che si occupava di operazioni clandestine. La paga era buona e il lavoro divertente, anche se di tanto in tanto c’era da sporcarsi le mani.

    Comunque non era quello il momento di pensare ai ricordi perché aveva una missione da compiere. Lui e altri due colleghi avevano l’ordine di penetrare nella montagna e di bonificare il complesso. Ad aiutarli c’erano una dozzina di miliziani anti-talebani, il cui compito principale era trovare tracce di Osama Bin Laden, che secondo il servizio di informazioni si nascondeva da quelle parti. Altre squadre come la sua stavano svolgendo compiti analoghi in tutto il complesso di montagne.

    Cox si voltò a destra e incrociò gli occhi azzurri di Ethan Foster, un biondo e muscoloso ex marine come lui. La testa era rasata a zero e incrostata di fango. Alla sinistra di Cox se ne stava accovacciato Eduardo Rivera, di origine portoricana. Stringeva ancora in mano un lungo coltello da combattimento con la lama sporca di sangue. Un quindicina di metri più indietro, il talebano che era a guardia dell’ingresso segreto giaceva a terra con il cuore spappolato.

    Cox attese che il gruppo di miliziani della sua squadra si avvicinasse all’ingresso. Li contò rapidamente constatando che erano tutti presenti.

    Era il momento di scoprire dove conduceva l’accesso segreto. Infilò il visore notturno e tolse la sicura del suo fucile automatico M4 con silenziatore.

    Entro io per primo. Attendete il mio via libera disse ai suoi compagni.

    Ok capo. Non metterci molto perché qui fuori siamo una bersaglio facile rispose Foster.

    Cox si infilò nel passaggio strisciando a terra, facendo leva sulle braccia muscolose. Davanti a lui si presentava uno stretto corridoio in discesa. Lo percorse per circa venti metri fino a quando si accorse che lo spazio intorno a lui aumentava. Ancora trenta metri e poté finalmente camminare in piedi. Cominciava a vedere delle fioche luci in lontananza e sentire dei rumori. Si accucciò dietro una sporgenza per poter osservare meglio la zona. Dopo pochi istanti scorse un gruppo di uomini armati che sembravano intenti a prepararsi in vista di un’imminente partenza.

    Forse tra loro c’era anche Bin Laden ed esisteva un solo modo per scoprirlo.

    Via libera. Procedete con cautela fino alla mia posizione disse attraverso il microfono della sua ricetrasmittente.

    Ricevuto. Stiamo arrivando fu la risposta di Foster.

    Cox si concesse un sorriso. Ancora pochi minuti e ci sarebbe stato da divertirsi in quella caverna.

    È tutto pronto per la partenza affermò Issam.

    Molto bene. Tra dieci minuti ci muoviamo e preghiamo Allah che questa sera gli occhi degli americani guardino altrove rispose Fahd.

    Sapeva che portare i suoi uomini in Pakistan non sarebbe stato facile. Gli americani pattugliavano la zona anche di notte e se scorgevano qualcosa di sospetto mandavano i loro aerei a sganciare le bombe.

    Quella notte sarebbe potuto succedere anche a loro. Comunque era sempre meglio tentare la sorte che morire come topi in quelle caverne.

    Si avvicinò al figlio che aveva riempito un borsone con delle provviste.

    Sei pronto figliolo? gli chiese guardandolo negli occhi.

    Sì padre rispose il bambino.

    Questa notte sarà una marcia difficile e potremmo anche morire. Ti dovrai comportare da uomo e non dovrai lamentarti.

    Mi comporterò da uomo replicò Latif.

    Fahd fece un cenno di assenso e si voltò dall’altra parte.

    Latif rimase a rimuginare sulle parole appena dette dal padre riguardo alla possibilità di morire. Lui non voleva morire! Aveva solo nove anni e tutta una vita davanti. Stava per cominciare a mettersi a piangere quando ricordò la seconda parte del discorso del padre. Doveva comportarsi da uomo e non aveva intenzione di deludere il suo genitore.

    Le detonazioni di diverse armi da fuoco riecheggiarono violentemente nella caverna.

    Gli americani! Ci attaccano! urlò Issam.

    Corri a organizzare la difesa rispose Fahd.

    Vado subito!

    Latif si strinse terrorizzato alla mamma. Fahd si avvicinò a loro dopo aver raccolto un AK-47 dal tavolo.

    Venite con me ordinò con voce calma.

    Latif e sua madre lo seguirono docilmente fino a un’apertura nella roccia della larghezza di cinquanta centimetri.

    Fahd consegnò alla moglie una torcia elettrica e una vecchia pistola russa.

    Infilatevi in questo passaggio. Vi porterà in una zona della montagna che per ora dovrebbe essere sicura. Troverete un altro passaggio che vi porterà fuori. A quel punto affidatevi alla misericordia di Allah e tentate di raggiungere il Pakistan...

    Ma tu non verrai con noi? chiese Tahira con un tono allarmato.

    No, mia cara moglie. Non posso abbandonare i miei uomini. Devo badare a loro.

    E a noi non ci pensi? Gli americani ci uccideranno!

    Non lo faranno. Loro le donne e i bambini li uccidono soltanto con le bombe. Se vi troveranno non vi faranno niente.

    Allora questo è un addio? chiese Tahira con le lacrime agli occhi.

    Fahd abbracciò sua moglie e la strinse forte al suo petto.

    Temo proprio di sì. Abbi cura di nostro figlio.

    Anche Latif aveva cominciato a piangere. Lacrime salate scorrevano sul suo volto. Fahd se ne accorse e si inginocchiò davanti a suo figlio. Appoggiò entrambe le mani sulle sue spalle.

    Non piangere, figlio mio. Gli uomini non piangono gli disse addolcendo la voce.

    Il piccolo tirò su col naso nel tentativo di calmarsi.

    So che non sono stato il più affettuoso dei padri ma sappi che ti ho sempre voluto bene e te ne vorrò in eterno.

    Anche io, padre.

    Ora diventi tu l’uomo di casa. Devi farmi una promessa.

    Latif annuì vigorosamente con la testa.

    Devi diventare un guerriero e devi tornare per riportare l’Afghanistan nelle mani di Allah. Me lo prometti?

    Te lo prometto, padre.

    Bene figliolo. Ora andate.

    Entrambi si infilarono nella frattura all’interno della roccia. Latif si soffermò un attimo, giusto in tempo per vedere un uomo arrivare alle spalle del padre.

    Attento urlò il piccolo Latif.

    Cox proseguì lungo un corridoio in salita seguito da Foster. Rivera e i miliziani stavano sciamando nella montagna per eliminare le ultime sacche di resistenza. L’attacco a sorpresa aveva avuto pieno successo. Ora bisognava solo sperare di trovare Bin Laden.

    Davanti al lui si apriva una specie di stanza di pietra illuminata da alcune lampade. Fece irruzione all’interno della stanza e a una decina di metri da lui vide un uomo che gli dava le spalle. Gli urlò in arabo di non muoversi ma quello si girò di scatto verso di lui puntandogli un fucile. Lo eliminò sparandogli tre proiettili al petto. L’uomo, che portava una lunga barba nera, si accasciò a terra. Cox si avvicinò con cautela seguito da Foster. Arrivato a pochi metri si accorse di una sagoma vicino a una spaccatura nella parete di roccia. Puntò il suo fucile in quella direzione ma si ritrovò con stupore a fissare gli occhi di un bambino. Il piccolo lo fissava in silenzio mentre una donna cercava di tirarlo all’interno dell’apertura. Dopo un istante, che a Cox parve eterno, il piccolo sparì nello stretto passaggio.

    Capo, li seguiamo? gli chiese Foster, che aveva notato anche lui il bambino e la donna.

    No, lasciamoli stare. Bonifichiamo prima la zona qua intorno.

    Agli ordini.

    Tahira cercava di farsi strada nello stretto corridoio, reggendo con una mano la torcia e tenendo suo figlio con l’altra. Latif seguiva la madre quasi in uno stato di trance. Suo padre era stato ucciso davanti ai suoi occhi. Non avrebbe mai dimenticato il viso dell’assassino, soprattutto la lunga cicatrice che aveva sopra l’occhio destro. Mentre correva ricordò la promessa che aveva fatto a suo padre: avrebbe riportato l’Afghanistan nelle mani di Allah. Ancora non sapeva come fare ma era sicuro che avrebbe trovato il modo.

    CAPITOLO 1

    Regione del Waziristan (Pakistan Occidentale), 30 novembre 2015

    Ormai non sapeva più da quanto tempo stava osservando quel braciere che scoppiettava ritmicamente, diffondendo un piacevole calore in tutta la stanza. Fuori la temperatura era di qualche grado sotto lo zero, ma all’interno dell’abitazione dove si trovava non si stava male. Le pareti costruite con mattoni di fango secco e legno fornivano un buon isolamento dal freddo. L’abitazione era di un solo piano, molto piccola e formata da un’unica stanza.

    Erano giorni che giaceva pigramente su un basso divanetto senza mai uscire di casa nemmeno una volta. Due volte al giorno il suo uomo più fedele gli portava un pasto caldo e gli veniva a svuotare il secchio che usava come latrina. Lui ringraziava sempre con un cenno della testa, senza mai aprire bocca. Sapeva che avrebbe dovuto reagire ma non riusciva a uscire dall’inerzia nella quale era caduto.

    Continuava a ripensare a tutti gli eventi che si erano succeduti negli ultimi mesi, fino a portarlo in quello sperduto villaggio sulle montagne del Pakistan.

    Lui, Omar Abdallah Hassan, fondatore e leader del movimento Justice of Allah (JOA), costretto a vivere come un eremita. Sapeva che per molti musulmani la sua organizzazione rappresentava una speranza. Per gli Stati Uniti e i suoi alleati era invece l’organizzazione terroristica più pericolosa al mondo, ed era proprio per quel motivo che il suo nome figurava nella famigerata lista degli uomini più ricercati stilata dall’FBI. Si trovava al primo posto, nella prestigiosa posizione che per anni aveva occupato lo sceicco Osama Bin Laden. Per un certo verso la cosa avrebbe dovuto essere gratificante, perché ora tutti i suoi sostenitori potevano finalmente vedere chi era il loro leader. Però non era così che sarebbe dovuta andare.

    Da quando aveva creato il JOA, aveva sempre fatto il possibile per celare la sua identità, proprio per non fare la vita che aveva fatto Bin Laden. Solo in pochi sapevano chi era e si trattava di gente che avrebbe dato la vita per non tradirlo. Inoltre, l’aura di mistero che gravitava intorno a lui aveva contribuito renderlo una figura quasi divina.

    Poi, dopo tanti anni di prudenza, aveva corso un rischio che pensava di aver calcolato. Aveva svelato la sua identità al Presidente iraniano Kaebi, per convincerlo ad aiutarlo in un’importante operazione.

    Era riuscito a rubare alla Russia un sofisticato aereo stealth comandato a distanza con lo scopo di compiere un attentato durante la festa della Repubblica italiana. Era arrivato molto vicino a eliminare buona parte del governo italiano. Il piano, che avrebbe dovuto essere perfetto, era invece stato sventato all’ultimo istante. Il Presidente iraniano era stato arrestato dopo che era stato scoperto il suo coinvolgimento con il JOA. Come prevedibile, aveva cominciato a collaborare per identificare Hassan. E così in breve tempo gli Stati Uniti, con i loro potenti mezzi, erano riusciti a dare un nome e un volto al leader del JOA. Davvero non immaginava che ci sarebbe voluto così poco tempo. Aveva vagato da un rifugio all’altro, cercando contemporaneamente di pianificare nuove azioni contro gli infedeli. Per un po’ aveva creduto che facendo attenzione avrebbe potuto ancora essere al sicuro. Poi, per un soffio, gli israeliani non erano riusciti a catturarlo mentre si trovava in Libano. Qualcuno tra i suoi uomini lo aveva tradito. Solo la fortuna gli aveva permesso di spostarsi dalla casa dove si trovava appena mezz’ora prima del raid israeliano.

    Sentendosi braccato come un animale, aveva deciso di rifugiarsi in Pakistan, nella regione del Waziristan. Lì aveva trovato la protezione di alcune tribù di etnia pashtun, abituate a nascondere i guerriglieri talebani in fuga dall’Afghanistan.

    Sapeva che anche in quello sperduto villaggio di poche case non poteva essere totalmente al sicuro. Ormai aveva realizzato che qualcuno avrebbe potuto nuovamente tradirlo e, se fosse stato individuato, gli americani avrebbero potuto attaccarlo dal cielo con un aereo controllato a distanza. Per sua fortuna, in quel periodo gli americani avevano stipulato con il governo pakistano un trattato che prevedeva la sospensione di quegli attacchi e il divieto di ingresso di forze militari, nel rispetto della sovranità del Pakistan sui propri territori. Solo dieci giorni prima, un aereo comandato a distanza aveva colpito un’abitazione di un piccolo villaggio. Gli americani credevano che all’interno si trovasse un importante capo talebano. Purtroppo le informazioni erano errate e quella casa era invece la scuola del villaggio. Dodici bambini erano morti. L’ennesima uccisione di civili aveva fatto scoppiare delle manifestazioni antiamericane in tutto il Paese, durate più di una settimana, fino a quando il governo pakistano aveva fatto la voce grossa con gli Stati Uniti obbligandoli a firmare il trattato. Il governo aveva inoltre rivendicato il diritto di occuparsi personalmente di eventuali terroristi presenti sul proprio territorio, senza ingerenze da parte degli americani. Hassan sperava che gli Stati Uniti mantenessero la parola data, anche se non si fidava troppo di loro.

    Qualcuno bussò alla porta distogliendolo dai suoi pensieri. Guardò da una finestrella, vedendo che fuori era già buio. Si era fatta ora di cenare, anche se non aveva per niente fame.

    Samir, il suo più prezioso collaboratore, entrò silenziosamente seguito da un uomo che portava un vassoio con del cibo. L’uomo posò il vassoio su un tavolino e Samir gli fece cenno di uscire. Voleva parlare con Hassan. Era davvero preoccupato per il suo capo, che da giorni era scivolato in una forte apatia. Una delle qualità che aveva sempre apprezzato in quell’uomo era il suo ottimismo e la sua fiducia nella loro missione, anche nei momenti difficili. L’uomo che aveva davanti in quel momento, invece, era solo l’ombra dell’Omar Abdallah Hassan che conosceva. Doveva dargli una scossa per cercare di farlo tornare quello che era prima.

    Signore, è pronta la cena disse al suo comandante.

    Hassan posò lo sguardo su Samir, l’uomo più degno della sua fiducia. Per lui era come un figlio e aveva già deciso che gli sarebbe succeduto alla guida del JOA. Aveva impiegato parecchio tempo ad abituare Samir a chiamarlo per nome, invece del più marziale signore. Questa volta, però, notò che non lo stava chiamando Omar, come di consueto.

    Non ho fame, Samir, porta via il vassoio gli

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