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Black Wedding
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E-book226 pagine3 ore

Black Wedding

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Info su questo ebook

Una storia scottante, consumata alle pendici dell’Etna, occultata per anni da un mare di omertà per proteggere una piccola vittima innocente. Un percorso che si trascina sempre più lontano dalla Sicilia, passando attraverso città e nazioni in cui si svolgono eventi che modificano la forma dell’anima della protagonista, di pari passo con le esperienze vissute; un movimento interiore legato a reali spostamenti, spesso non voluti e non programmati, che la vita le impone. I sentimenti che prova e che le vengono manifestati sono tutti ammantati da un’ombra, nera come la lava del vulcano. La luce della verità si riaccende dopo decenni sulla costa orientale degli Stati Uniti d’America, in seguito ad un incontro predestinato, fatto di passione trasgressiva e di morte violenta. L’investigazione che fa seguito a quest’ultimo delitto disperde le ombre e svela la dicotomia dei personaggi che hanno fatto la storia di una bambina diventata donna, desiderosa di raggiungere i propri obiettivi grazie ad una determinazione non comune e capace di guardare la verità, anche la più dura e difficile da accettare, al di là dei veli con i quali è stata celata.
LinguaItaliano
Data di uscita20 feb 2021
ISBN9788855391092
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    Anteprima del libro

    Black Wedding - Angelarosa Weiler

    (Leucippo)

    PATERNO’

    Gli aranceti di Contrada Zappulla brillavano nel sole carichi di frutti. La natura aveva messo in scena, come ogni anno, uno spettacolo sfolgorante, una danza di colori intensi e vivaci che incontravano la luce evocandone la vittoria nei confronti del buio. L’epoca della raccolta era ormai prossima, ben presto il silenzio della campagna sarebbe stato interrotto dall’incursione pacifica di uomini e mezzi agricoli. Nell’attesa, la distesa di terra lavica alle pendici dell’Etna riposava nella stasi e nella pace più assolute. La vetusta utilitaria di Carmelo Burro procedeva lentamente lungo la strada sterrata che conduceva a uno dei casolari al limitare della contrada. L’attenzione del conducente era interamente assorbita dalla guida sul terreno sconnesso, onde evitare buche, dossi e sassi; il suo sguardo non sfiorava neppure la rigogliosa bellezza che lo circondava, nel bel mezzo della quale, ben celati e molto incuriositi, occhi sconosciuti osservavano il suo passaggio.

    Carmelo aveva da poco compiuto ventidue anni e, come altri giovani della sua età agli inizi degli anni Novanta del Novecento, aveva dentro di sé grandi sogni che faticavano a prendere forma nella realtà di una città come Catania. Il picciotto lavorava come garzone di bottega nel più rinomato salone di acconciature femminili della località etnea, di proprietà di Calogero Vinci, meglio noto come Don Lillo. Quando era al lavoro, Carmelo non distaccava gli occhi dalle mani del suo maestro neppure per un istante. Don Lillo era un vero esperto nella piccola arte del taglio e nell’acconciatura; era rapido, veloce, sicuro e da lui c’era davvero molto da imparare. Il talento naturale di Carmelo era ben noto al suo datore di lavoro, il quale, in compenso, ne frenava ogni fantasia. Tanto Don Lillo era sobrio e legato a uno stile classico ed elegante quanto Carmelo era estroso, creativo e innovativo; pur tuttavia, le clienti del salone di Don Lillo, tutte appartenenti alla migliore società catanese, non parevano le candidate ideali a recepire mode e modi diversi dal consueto. Il sogno di Carmelo era quello di poter un giorno dare vita a uno spazio tutto suo, nel quale esprimere le proprie idee in fatto di hair styling, ma quel sogno, almeno in quel momento, pareva destinato a rimanere confinato all’interno di una dimensione eterea. La famiglia di origine di Carmelo non era certamente in grado di contribuire economicamente al raggiungimento degli obiettivi che il giovane si era prefissato e il magro stipendio elargito da Don Lillo era a malapena sufficiente per pagare le rate della sgangherata utilitaria, riempire il serbatoio di benzina e coprire le spese per i divertimenti dei quali il ragazzo non poteva né voleva fare a meno. Per questo motivo, Carmelo accettava volentieri ogni richiesta di prestazioni al di fuori dell’orario di bottega; la domenica, il lunedì e nelle ore serali era sempre pronto a presentarsi con attrezzature e prodotti del suo mestiere nelle case di coloro che richiedevano un suo intervento a domicilio. Don Lillo era a conoscenza di questo fatto e non aveva nulla da obiettare, anzi, a volte era proprio lui a indicargli dove e da chi andare: si trattava soprattutto di anziane clienti non più in grado di spostarsi per raggiungere il centro cittadino oppure di signore limitate da una malattia o da un incidente subito. Così era avvenuto anche quel lunedì mattina. La cliente che attendeva Carmelo si trovava in una località disagiata. Don Lillo era stato molto preciso nel fornire le indicazioni stradali e perentorio nell’impartire ordini: «Devi fare un buon lavoro e tenere la bocca chiusa. Non dire a nessuno dove vai, la signora è molto riservata. Fai quello che devi fare, non chiedere niente a nessuno e torna a casa tua senza fare commenti. Se ti comporti bene, sarai pagato profumatamente e potrai ritornare anche in futuro. Se mi fai fare una brutta figura oppure sgarri, è meglio se non ti ripresenti più qui a lavorare. Hai capito bene?» Carmelo aveva promesso obbedienza senza discutere, contraddire Don Lillo era difficile se non impossibile. Nell’omertà più assoluta aveva infilato la strada che conduceva a Paternò, da lì si era diretto in Contrada Zappulla e ora stava arrancando verso il casolare indicato dal suo datore di lavoro, brontolando tra sé e sé per il polverone sollevato dalle ruote che imbrattava la carrozzeria della sua auto e lo costringeva a mantenere chiusi i finestrini.

    «Mi’, che camurria!» esclamò Carmelo quando giunse in vista del bagghiu che rappresentava la meta del suo viaggio. Una costruzione rurale dall’aspetto degradato, per non dire fatiscente, dal quale provenivano i versi del pollame che razzolava libero nella corte interna e il latrato di una muta di cani invisibili alla vista, forse tenuti da qualche parte alla catena o rinchiusi in un recinto. Carmelo prese a rimuginare tra sé e sé: «Ma che diavolo! Cosa ci fa in un posto del genere una cliente di Don Lillo? Quello non pettina le zappaterra, a bottega vengono solo delle gran signore». Carmelo fu accolto da un uomo di mezza età, basso di statura, tarchiato, dal viso rugoso reso bronzeo dal sole, contornato da capelli ispidi e neri come la pece. Dalle maniche della camicia sbucavano due mani che dimostravano di aver avuto contatti assidui e prolungati con la terra. Si rivolse al picciotto in siciliano, senza sprecare parole di saluto e intimandogli uno stringato: «Seguimi e taci». Attraversati i locali intercomunicanti del bagghiu uno dopo l’altro, Carmelo si trovò al cospetto della sua cliente, una ragazza di giovane età e in avanzato stato di gravidanza. Era bella, molto bella, della bellezza tipica dei discendenti dei Normanni: lunghi capelli biondi, occhi azzurri, pelle chiara; le mani morbide e ben curate lasciavano intuire che non era lei a occuparsi delle faccende domestiche all’interno di quelle mura di pietra. Anche la giovane futura madre si rivolse a Carmelo nel dialetto locale, mostrandogli la foto di una star della TV pubblicata su una rivista; voleva la stessa acconciatura di quella icona celebrata e sensuale.

    «Come ti chiami?» chiese Carmelo.

    «Angela» rispose lei.

    «Senti Angela, questo taglio squadrato non si addice per nulla al tuo volto, soprattutto ora che i tuoi lineamenti sono appesantiti dalla gravidanza» esordì Carmelo sfoderando un tono suadente e molto professionale al tempo stesso. «Io ti propongo invece un taglio scalato e ti suggerisco anche di alleggerire un po’ le sopracciglia. Cosa ne dici?»

    L’uomo che aveva accolto Carmelo stazionava in piedi come un soldatino di piombo in un angolo della stanza e sino a quel momento era sempre rimasto in silenzio; all’obiezione sollevata dal picciotto alzò la voce e ringhiò: «Fai quello che vuole lei e non discutere». Il tono era perentorio, Angela non disse parola, scivolò via in un’altra stanza a lavarsi i capelli, lasciando Carmelo in compagnia dell’energumeno dalla pelle color terracotta che non lo perdeva d’occhio neppure per un istante.

    Carmelo si guardò intorno, osservando l’ambiente, sempre sorvegliato a vista dall’uomo di terracotta incuneato nel suo angolo, incurvato su se stesso e con le braccia conserte, quasi a voler enfatizzare il proprio ruolo di minaccioso scrutatore. La casa, che all’esterno si presentava come una catapecchia, all’interno era pulita, ordinata e arredata di tutto punto; al centro del soggiorno troneggiava un grande televisore a colori, i mobili, i tappeti, gli oggetti disposti qua e là erano tutti nuovi di zecca, lussuosi e di gran marca. Al di là delle robuste grate di ferro che proteggevano le finestre, si vedevano altri uomini nel cortile, intenti a fare cosa non era chiaro. Potevano essere una decina, forse una dozzina. Quando Angela ricomparve, Carmelo iniziò a fare il suo lavoro nel più assoluto silenzio, memore delle istruzioni ricevute da Don Lillo. L’uomo dalla pelle tostata dal sole era sempre incollato al pavimento di quell’angolo di stanza che si era scelto come posto di guardia. Mentre le forbici e il pettine abilmente manovrati da Carmelo scorrevano sui capelli di Angela, il sorvegliante annunciò in dialetto: «Vado a pisciare. Guarda che sono qua dietro, ti vedo comunque. Non fare minchiate altrimenti quando torno ti sistemo io!» Carmelo, intimorito dal tono di voce, annuì vigorosamente col capo.

    Non appena il demone tutelare ebbe abbandonato la stanza, Angela disse a Carmelo: «Fammi il taglio che mi sta meglio, quello che dici tu». Le forbici e il pettine arrestarono di colpo la loro corsa.

    Carmelo era stizzito e irritato, si rivolse ad Angela in malo modo, quasi con astio: «Minchia! Come faccio ora?!?! Non potevi dirlo prima?!?! Che male c’è? Cosa c’è di strano, sei padrona di cambiare idea sì o no?»

    Angela rivolse il viso verso il suo interlocutore con la noncuranza tipica di chi è abituato a subire scatti di rabbia e rispose: «In questa casa c’è un unico padrone, Don Pinuzzo Caruso, il mio maritaccio. Turi, l’uomo che ti ha accompagnato, è il suo braccio destro, fa tutto quello che dice lui e tutto gli riferisce. Io a Pinuzzo avevo chiesto il permesso di tagliarmi i capelli in una certa maniera non in un altro modo, quello che hai proposto tu. Per questo lui ha interferito».

    Carmelo iniziò a capire in quale genere di situazione si era infilato. Don Pinuzzo Caruso era un boss della malavita di Paternò, da anni ricercato e latitante. Repentinamente comprese come Don Lillo aveva potuto allestire un salone così lussuoso nel pieno centro di Catania, ottenendo ben presto il consenso delle signore appartenenti alle famiglie più in vista della città. Il comandamento ricevuto, «non fare domande» gli fu chiaro. Tra una sforbiciata e l’altra, un pensiero prese forma nella testa di Carmelo, il quale decise di chiarire le cose prima che Turi rientrasse nella stanza:

    «Cosa mi succede quando il tuo maritaccio scopre che ti ho tagliato i capelli in un modo diverso da quello che avevate deciso?»

    Angela replicò a bassa voce: «Niente ti succede, se è nervoso se la piglia con me. Tu non gli porti né soldi né fastidio e quello solo agli affari pensa».

    Carmelo si lasciò sfuggire, suo malgrado, un’altra domanda: «Perché stai assieme a lui se non si cura di te?»

    Angela si abbandonò a un sospiro, poi rispose: «Perché nessuno può dire di no a Don Pinuzzo. Mi ha chiesta a mio padre, che ha gli stessi anni suoi, e mio padre gli ha dato la parola. Io ho una sorella e quattro fratelli, Don Pinuzzo fa star bene tutti. A mia sorella ha fatto la dote e pagato le spese delle nozze. I miei fratelli possono andare a scuola anziché lavorare in campagna; saranno dottori, come i figli della prima moglie di Don Pinuzzo e come il figlio che porto in grembo io. Hai capito perché, Carmelo? L’amore è una bella cosa, ma non ti leva la fame».

    I passi di Turi annunciavano il ritorno dell’uomo nella stanza. La conversazione tra i due giovani si concluse in quel modo, lasciando Carmelo nella confusione più totale.

    Carmelo terminò il suo lavoro e fu congedato da Turi con la stessa ombrosa asperità con la quale era stato accolto. Si infilò nella Panda sgangherata e ricoperta di polvere, girò la chiave nel quadro e si avventurò sullo stradello con un’unica idea in mente: allontanarsi il più in fretta possibile da quel posto. Delle buche e dei sassi non gli importava più nulla: voleva solo raggiungere alla svelta Paternò e poi Catania. Era nervoso, accese una sigaretta e aspirò il fumo avidamente, come se si trattasse di un tranquillante. Le ultime parole di Angela rimbombavano nei suoi due emisferi: «L’amore è una bella cosa, ma non ti leva la fame». Carmelo era legato alla sua famiglia, ai suoi amici, alla sua terra e alle proprie abitudini, tutte fonti di una consolidata sicurezza scevra da imprevisti fuori controllo, ma era divenuto improvvisamente consapevole che non sarebbe stato nessuno dei suoi oggetti di attaccamento a consentirgli di realizzare i progetti che nutriva in cuor suo. Lui era un creativo, un fantasioso, un innamorato del proprio talento, dell’immagine, della vita e della bellezza, ma per concretizzare i sogni, per trasformarli in realtà, serve molto senso pratico. Quello stesso senso pratico che il padre di Angela e la ragazza stessa avevano dimostrato accettando supinamente la volontà di Don Pinuzzo, un uomo che di senso pratico doveva averne da vendere.

    Carmelo si fermò sul lungomare prima di rientrare a casa, la sua mente vagava verso l’orizzonte, verso l’infinito. Era entrato in contatto con una percezione che sino a quel momento non aveva mai preso in esame, una verità che lo rendeva improvvisamente pensieroso.

    C’era in lui un inspiegabile istinto che rendeva vivaci delle aspirazioni grandiose nel bel mezzo di una realtà nella quale non esisteva alcun elemento, alcun appiglio al quale afferrarsi per levitare al di sopra di un’esistenza banale e scontata. Sino a quel momento, Carmelo aveva scelto di limitarsi a dormire e sognare. Quel giorno, in seguito a quell’incontro, si era svegliato all’improvviso, i desideri emergevano uno dopo l’altro come bruchi dalla crisalide e reclamavano ciascuno la propria realizzazione.

    Rammentando le parole di Don Lillo, non fece mai menzione con nessuno della sua conversazione con Angela, pur tuttavia si ritrovò a pensare spesso a lei e a ciò che gli aveva detto. Quando, alcuni mesi dopo, Don Lillo lo informò che era stato di nuovo richiesto dalla donna, provò un misto di agitazione e contentezza.

    Il colore lucente delle arance mature nel sole aveva lasciato il posto al candore e al profumo delle zagare. Carmelo ripercorse quasi con entusiasmo la strada polverosa e dissestata che da Paternò conduceva a quel bagghiu che era stato trasformato nel rifugio segreto di Don Pinuzzo. Questa volta ad attenderlo c’era una donna, opima e piuttosto grossolana nei modi.

    «È Rosaria, la serva» gli disse Angela, tra un acuto e l’altro della creatura che teneva tra le braccia. Poi mostrò a Carmelo la sua bambina e aggiunse: «Ho avuto una femmina, è nata in fretta, ma ora mi sta facendo penare. Non dorme mai, piange tanto e io non so perché».

    Dal fagottino rosa che Angela stringeva a sé spuntava un visino grazioso, occhi azzurri e capelli biondi come quelli di sua madre.

    Carmelo chiese: «Che nome le avete dato?»

    Angela rispose che la bambina non aveva un nome, Don Pinuzzo non l’aveva mai registrata all’anagrafe a causa della sua latitanza. Il boss avrebbe voluto imporre alla figlia il nome di sua madre, Giuseppa, mentre Angela la chiamava Olivia, «come l’attrice del film Grease». La neo-mamma era sciupata, sfiorita a causa del suo faticoso impegno; Carmelo fece del suo meglio per restituirle una nota di quella fresca bellezza naturale della quale le era stato fatto dono; probabilmente l’unico bene terreno che le apparteneva.

    Prima di andarsene, fece qualcosa che forse nessuno aveva mai fatto per lei: le sfiorò il viso con una carezza, come avrebbe fatto un fratello. Non c’era passione nel suo gesto, solo gentilezza. Angela lo comprese e sorrise a Carmelo con simpatia. Nessuno dei due poteva immaginare che quello sarebbe stato il loro ultimo incontro.

    Poco tempo dopo, mentre Carmelo bighellonava sul lungomare di Catania, fu avvicinato da due ragazzi giovani, dall’aspetto potevano essere suoi coetanei o poco più grandi di lui. Uno dei due prese a stuzzicarlo parlando di calcio, imbastendo una conversazione movimentata da pacche sulle spalle, risate e imprecazioni. Chiunque avesse notato il terzetto li avrebbe definiti come tre picciotti intenti a scherzare e chiacchierare. Solo dopo aver stabilito una certa confidenza, i due sconosciuti estrassero dalla tasca un tesserino e si qualificarono come Carabinieri.

    Uno dei due, quello che per primo lo aveva contattato, continuando a sorridere allegramente disse a Carmelo: «Meglio per te se parliamo qui, senza dare nell’occhio, piuttosto che in Caserma. Sei d’accordo, non è vero? Continua a camminare e sorridi come se niente fosse. Vogliamo solo farti qualche domanda sulle tue gite a Paternò».

    Carmelo si sentì raggelare. Non era un delinquente, era pulito, non aveva mai commesso alcun reato, ma forse proprio per questo la situazione lo metteva a disagio; chi vive rispettando le regole prova un senso di inquietudine quando incontra la Legge sapendo di aver sfiorato, anche solo per un attimo, l’ombra del malaffare. Si sforzò di mantenere il controllo, continuò a passeggiare tra i due militi, rispose a tutte le loro domande, raccontò per filo e per segno i motivi delle sue visite, come era composto il bagghiu, quanti uomini aveva notato al suo interno, menzionò la presenza dei cani nascosti da qualche parte, spiegò che nella casa vivevano anche due donne, una delle quali aveva partorito da poco tempo una bambina. Negò di aver mai visto, sentito o incontrato Don Pinuzzo sul posto, ma confermò che la sua cliente aveva attribuito a lui la paternità della creatura.

    Prima di allontanarsi da lui, uno dei due Carabinieri in borghese sorridendo lo ammonì: «Per il tuo bene, ricorda: tu non ci conosci, non ci hai mai incontrati, questa conversazione tra noi non c’è mai stata. Hai capito?»

    Il sorriso del sottufficiale era amichevole, ma il tono di voce era duro e determinato. Carmelo fece segno di sì con la testa, in segno di assenso; in cambio ricevette una gran pacca sulla spalla e un allegro saluto catanese urlato al cielo. Poi le strade del terzetto si divisero.

    Dimenticare non era né semplice né facile per un giovane apprendista parrucchiere avvezzo a nutrirsi di architetture create con pettine, mollette e lacca per capelli, mentre il proprio ego scalpitava per sottrarsi a una vita regolare, abitudinaria. Dimenticare tra i rimbrotti di sua madre per il disordine, tra i rimproveri di Don Lillo per una strana acconciatura che aveva scontentato una cliente, tra le risate degli amici al bar o allo stadio, tra i capricci di sua sorella e le prediche domenicali del parroco. Dimenticare. Una parola d’ordine che si era ripetuto mille volte, senza mai riuscire a impararla. I pensieri di Carmelo erano diventati una specie di

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