Mommy look
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Anteprima del libro
Mommy look - Marcello Mazzanti
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CAPITOLO I
Coreglia Antelminelli, Settembre 1920
Il cielo era sereno, di un azzurro così intenso che solo in quel periodo dell’anno si può osservare: non una nuvola a vista d’occhio. L’aria settembrina era frizzante, il sole, ancora basso, rifletteva sulle gocce di rugiada che bagnavano i verdi pampini. L’uva, oramai matura, si colorava di blu con riflessi violacei.
Antonio era nel podere a raccogliere frutta e verdura da portare sulla tavola. Cambiato e pronto per andare alla messa del santo patrono, indossava il vestito buono delle feste, una camicia bianca senza cravatta ed un cappello Borsalino nero.
Abitava nelle coste di Coreglia, vicino al paese, in una casa colonica disposta su due piani più il seminterrato. Al pian terreno vi era un ingresso con le scale che portavano al piano superiore, una grande cucina ed un modesto soggiorno. Dalla cucina si accedeva ad un balcone sul quale era stato ricavato un piccolo bagno. Al piano superiore c’erano tre camere ed un ripostiglio. I solai erano di legno; dal soggiorno, alzando una tavola, si poteva accedere al tino dell’uva posto nella cantina. Adiacente alla casa, da un lato, vi era il forno a legna e dall’altro un piccolo fabbricato su due piani destinato a rimessa e porcilaia, chiamato stallino
.
Nella casa oltre ad Antonio abitavano: sua moglie Rachele, il figlio Timante di diciotto anni, la figlia Maria di 16 anni e la piccola Luisa di 13 anni. Avevano anche un altro figlio più grande, Michele, che era caduto in guerra.
Antonio proveniva da Coreglia mentre Rachele era originaria di Gromignana, un paesino poco distante. Si erano conosciuti un giorno di primavera in occasione del Canto del Maggio
.
Il Maggio
era uno spettacolo che derivava dagli antichi riti propiziatori della primavera; era nel mese di maggio infatti che si tenevano nelle campagne le prime manifestazioni dell’anno. Si trattava di una recita fatta all’aperto, completamente cantata e senza scenari. I commedianti, ovvero i cantori, vestiti con appariscenti costumi e con il capo coperto da turbanti, elmi piumati o corone, erano solitamente contadini. Il pubblico si raccoglieva in semicerchio attorno agli attori formando un teatro all'aperto. Dopo una prima parte, cantata in coro, cominciava l’azione; il copione, generalmente di soggetto epico, era diviso in quartine, di solito a rima baciata o incrociata, cantate a piena voce, sempre nella stessa melodia, interrotta solo da ariette
. Per l’accompagnamento veniva utilizzato un violino od una fisarmonica. La rappresentazione procedeva lentamente, interrotta ogni tanto da una lotta o da un duello fra le parti avversarie. Anche i movimenti erano lenti, fiacchi e ripetitivi. Al centro della scena vi era la guida
, vestita normalmente, che suggeriva il copione ai cantori e gli stava appresso dando consigli come un vero regista. Cantare il Maggio era affaticante, impegnava la voce, la mente e il corpo per ore. Unico ristoro era un bicchiere di vino offerto agli attori tra una scena e l'altra. I testi narravano vicende bibliche, di guerra, di lotta del bene contro il male, del cristiano contro il saraceno, dove i cattivi venivano sempre sconfitti.
Antonio era un cantore ed indossava le vesti di Timante
, un personaggio del Maggio di Rosana
il cui testo era stato scritto da un signore di Bolognana un secolo prima.
Dopo la rappresentazione Antonio si era fermato a riposarsi e festeggiare con i presenti. Fu in quell’occasione che incontrò Rachele.
Rachele in realtà aveva già notato il bel ragazzo alto dai capelli neri e gli occhi azzurri. Lo aveva visto per la prima volta l’anno prima, sempre in occasione del Maggio
, poi in giro alla fiera di San Lorenzo e di nuovo alla festa del patrono. Lo osservava con ammirazione mantenendo lo sguardo fisso su di lui con un sussulto al cuore. Sapeva di esserne innamorata e sapeva in qualche modo di essere ricambiata: faceva attenzione agli occhi di Antonio e si era accorta che anche lui la guardava e ogni qualvolta i loro sguardi si incrociavano, lui li abbassava. Rachele era magra con forme gentili, non molto alta, ma graziosa con capelli crespi rossi ed occhi azzurri.
Quel pomeriggio si fece coraggio e si avvicinò ad Antonio complimentandosi con lui per l’esecuzione della parte.
Timante... Complimenti sei stato veramente bravo!
, disse lei porgendogli la mano.
Grazie! Il mio nome è Antonio. È stato faticoso, comincia a fare caldo, comunque credo sia andata bene la rappresentazione. Non trovi?
Sì
, rispose la ragazza, io mi chiamo Rachele
, proseguì diventando rossa in viso.
Posso offrirti qualcosa da bere?
, replicò Antonio e fu così che cominciarono a parlare.
Fu una lunga, lunghissima conversazione che terminò con un appuntamento. Entrambi avevano capito di essere innamorati l’uno dell’altra.
Antonio faceva l'agricoltore; lavorava nei campi insieme al padre. Non appena aveva un po' di tempo libero trovava il modo di incontrare Rachele. Si frequentarono per molto tempo, si fidanzarono ed infine si sposarono andando ad abitare nelle coste di Coreglia dove Antonio ottenne una casa ed un appezzamento di terra da coltivare in mezzadria. Quando ebbero il primo figlio lo chiamarono Michele in omaggio al santo patrono; quando nacque il secondogenito, in ricordo del giorno in cui si erano conosciuti, gli misero nome Timante.
Quel giorno, Rachele stava preparando il pranzo ed aveva acceso il forno a legna con le fascine di tralci di vite, per cuocere le varie pietanze. Si era alzata di buon’ora e, cotto il riso, aveva impastato la farina e preparato la torta coi becchi
. Intanto che il ragù di carne e funghi cuoceva a fuoco lento sulla stufa a legna accanto ad un tegame con gli ossi di maiale, spianò la pasta rimasta per i maccheroni. Nel caminetto acceso bolliva la polenta di neccio che Luisa mestava di continuo. Maria nel frattempo preparava i bigiaioli: un piatto tipico fatto di farina di mais, fagioli e lardo. Era un pranzo regale per un giorno speciale: maccheroni al sugo di carne e funghi porcini, polenta di neccio e ossi di maiale, bigiaioli, torta di riso e vino rosso della Costa.
Sul campanile del paese si ergeva la bandiera ed un lungo spazzolo
ad indicare che a Coreglia era festa!
Lo spazzolo
, un lungo e grosso spazzolone, veniva fatto nuovo ogni anno ed era realizzato con i rami di bussolo; di solito, di dimensioni ridotte, lo si adoperava per spazzare la cenere dal forno.
Era il ventinove settembre e, come ringraziamento allo scampato pericolo del terremoto che solo ventidue giorni prima aveva devastato la Garfagnana e la Lunigiana provocando morti e feriti, si stava celebrando la festa del santo patrono, San Michele, che solitamente ricorre l’otto di maggio.
A Coreglia fortunatamente non si erano registrati gravi danni, ma la paura fu comunque tanta.
Decine erano le persone che dalle coste e dal piano si stavano recando al paese per la funzione religiosa.
Erano stati anni funesti e la gente sentiva il bisogno di festeggiare. La festività era avvertita come non mai. D'altronde, prima la Grande Guerra con i suoi giovani caduti e poi la pandemia di influenza spagnola
avevano tolto alla popolazione la serenità e la libertà con lutti e disperazione. Gli anni più bui furono tra il 1918 ed il 1919 quando nella zona vi furono centinaia di morti a causa dell'epidemia. Il violento diffondersi della malattia, dapprima ritenuta una semplice influenza, venne celato degli organi di stampa, che la descrivevano come una malattia infettiva circoscritta alla sola Spagna, per non demoralizzare la popolazione superstite a quattro anni di guerra.
Ben presto tuttavia con il suo diffondersi la gente precipitò nel panico e nello sconforto. I malati soffrivano le pene dell'inferno prima di morire. Dalla febbre iniziale e al vomito, si passava al sanguinamento di orecchie, bocca e naso per poi morire soffocati con i polmoni pieni di sangue. La morte sopravveniva e placava le sofferenze nel giro di un paio di giorni. I cadaveri, dal brutto aspetto cianotico, venivano racchiusi in sacchi, essendo le casse da morto insufficienti e trasportati al cimitero per una sepoltura veloce, priva di croce e rito funebre, alla sola presenza del prete e qualche familiare.
In tutta la valle nessuno sapeva come gestire l’emergenza e le prime misure precauzionali prese dai sindaci furono l'istituzione di un coprifuoco e la disinfestazione.
Per contenere il contagio, furono poi dissuase le visite ai malati e proibiti gli spostamenti da un luogo ad un altro, cessate fiere e mercati, ridotti gli orari delle osterie,