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Le tre valigie di Elena
Le tre valigie di Elena
Le tre valigie di Elena
E-book185 pagine2 ore

Le tre valigie di Elena

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Info su questo ebook

Quando la tua nascita è una disgrazia; quando la tua infanzia è un inferno; quando, a quattro anni, tua nonna ti dice:

"Il mangiare te lo devi guadagnare, lo devi preparare tu!"

Quando

la tua gioventù è solo sofferenza, come pensi sarà il futuro, se

c'è un futuro, per una creatura in questa situazione?

E

poi, da adulta, comprendi che sopravvivere è stata una grande

battaglia; che gli anni durissimi della tua infanzia sono stati anche

i migliori: una vera Scuola di Vita!

Storia vera di Elena, nata ne El Salvador e costretta a dover emigrare in Italia dove vive da quasi quarant'anni.
LinguaItaliano
Data di uscita23 mar 2021
ISBN9791220326667
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    Anteprima del libro

    Le tre valigie di Elena - Rosanna C. Unison

    -1-

    Los Encuentros

    lezioni di sopravvivenza

    Avevo tre anni quando mia madre mi regalò ad una famiglia sconosciuta.

    Questo è il mio primo ricordo cosciente. Accadde un pomeriggio, stavo riposando nell’amaca, il letto dei bambini piccoli. Mia madre mi svegliò, mi prese in braccio e senza dire una parola, mi consegnò ad un uomo. Lui mi prese come fossi stata un fagotto e dopo essere usciti, salimmo su un grande cavallo e partimmo… per dove?

    Proprio non lo sapevo ed ero talmente terrorizzata che non riuscivo neppure a parlare. Fino ad allora ero vissuta in una specie di confuso presente e, tutt’ad un tratto ero piombata in una nuova, ignota realtà. In un lampo divenni cosciente di essere stata abbandonata: da mia madre! Mi sentii sola, piccola e indifesa. In balìa di un uomo sconosciuto che puzzava di sudore e tabacco… su un cavallo che procedeva nel buio, verso un luogo sconosciuto!

    A quel punto reagii a quell’enorme, immensa paura nell’unico modo che sapevo: strillando con tutto il fiato che avevo in corpo!

    Gridai con tutte le mie forze per tutto il viaggio.

    Strepitai quando scendemmo da cavallo. Strillai quando entrammo in una casetta. Schiamazzai quando vidi una donna ed i suoi figli più grandi di me che mi accolsero con sorpresa e fastidio.

    Urlai per tutta la notte, rifiutando di mangiare, di bere e di essere confortata. Fu così anche per il giorno dopo, ed alla sera, stanchi di quel mio comportamento assolutamente ribelle, la mia nuova famiglia pensò bene di portare me e il mio lettino fuori, lontano da casa, sotto un grande albero, in compagnia di animali notturni a caccia di prede!

    Forse pensavano che mi sarei acquietata… ma io, anziché fare giudizio e calmarmi, protestavo ancora di più con urla e strilli contro il mondo che mi aveva repentinamente voltato le spalle!

    Dopo un tempo che a me parve infinito, ma forse erano passati solo due o tre giorni, arrivò la mia salvezza. Non ho mai saputo cos’accadde veramente; so solo che il secondo marito di mia nonna, il signor Leonzio, venne a prendermi per condurmi a casa loro. Lui smontò il mio lettino di legno, se lo caricò sulle spalle insieme alla sottoscritta e si mise in cammino verso Los Encuentros.

    Los Encuentros non è un vero e proprio paese, è un agglomerato molto distanziato di case abitate da campesinos, si trova a circa 15 chilometri dal mare, a nord ovest di Olocuilta, paese d’origine della nonna. Quel territorio si chiama Tierras Templadas, un altopiano che va dai 750 ai 1800 sul livello del mare. In quella zona scorre anche un fiume che nasce in Guatemala, il Rio Grande e che dopo più di 400 chilometri sfocia nell’Oceano Pacifico.

    Quando arrivai l’aspetto della nonna mi rassicurò, ero tranquilla, ero tra parenti. Mia nonna era ancora piuttosto giovane e bella, perché dalle mie parti le donne si sposano presto. Diversamente da mia madre e da me, la sua pelle era chiara, i capelli ricci e lunghi che portava sempre legati in una coda alta formando un unico, grande boccolo.

    Anche il signor Leonzio mi piacque subito: aveva l’espressione tranquilla di un uomo di indole buona e pacifica che ispirava fiducia. E poi mi presentarono mio fratello José, che aveva tre anni più di me, un bambino magrolino che stava nascosto dietro ad un’amaca. Da lì mi osservava con evidente curiosità, lui che viveva a casa dei nonni già da molto tempo, tanto che io non lo conoscevo affatto.

    L’abitazione, tipica delle zone di campagna, consisteva in una capanna formata da un’unica, grande stanza, fatta di legno e paglia compreso il tetto da cui affioravano larghe foglie di palma che riparavano dal sole; quei materiali, anche se primitivi, proteggono benissimo sia dal caldo che dalla pioggia. Infine, proprio davanti all’ingresso, ben riparato dalla tettoia, trovava posto un grande tavolo di legno di Ceiba con alcune sedie.

    In un angolo c’era poi il focolare formato da terra pressata, mattoni e grossi sassi su cui si tenevano le pentole. Tutto intorno alla casa, ben in alto, appesi alla parete di legno, c’era la nostra dispensa: dei contenitori di terracotta dove venivano conservati i cibi per il nostro sostentamento nei mesi di siccità, quando non piove e gli alberi non danno frutti. Questo era necessario per poter salvaguardare le nostre provviste sia dai maiali che venivano allevati dai nonni e che giravano liberi intorno alla casa, sia dai coyotes che si avvicinavano di notte in cerca di cibo.

    L’unica grande stanza aveva il pavimento in terra battuta e, addossati alle pareti erano stati sistemati i letti costruiti con assi di legno su cui veniva abilmente intrecciata una corda in modo da formare una rete. Su quel sostegno veniva stesa una stuoia di foglie di palma ed un lenzuolo faceva da coperta adatto per i mesi più caldi ma insufficiente a scaldare nelle notti più fredde. Come si faceva? Semplice: si cercava di resistere!

    A fianco di ogni letto, nella parete di legno erano stati piantati dei grossi chiodi a cui era stata legata una corda: era l’armadio. Su di essa si appendeva la biancheria e l’unico vestito di ricambio.

    Io, ultima arrivata, essendo ancora piccola, dormivo nella più sicura amaca, e mio fratello si sistemò nel mio lettino che il signor Leonzio aveva provveduto a rimontare.

    Dopo aver esaminato la mia nuova abitazione, feci anche la conoscenza degli altri due occupanti: Capitàn, cane bastardo dal portamento talmente fiero da fargli guadagnare quel nome; ed infine lo zio Tonio, un giovane di 22 anni, malato di epilessia.

    Zio Tonio era estremamente taciturno e la nonna spiegava a noi bambini che la sua malattia si manifestava con delle crisi e, quando capitavano, dovevamo subito avvertire lei.

    -Lasciatelo tranquillo, stategli lontano… -si raccomandava lei facendo un lungo sospiro.

    Negli anni successivi mi accadde diverse volte di assistere ad uno dei suoi attacchi; quando succedeva, nonna Nilla interveniva prontamente e con decisione: gli metteva una mano in bocca affinché lui non si mordesse la lingua poi, quando l’attacco terminava, lui restava confuso e spossato a causa degli spasmi muscolari, la nonna lo aiutava a sdraiarsi su un letto dove restava a riposare per parecchie ore.

    ***

    Col passare dei giorni mi adattai facilmente a quella nuova vita, facevo parte di una famiglia e, in un certo qual modo, mi sentivo protetta. Sia io che mio fratello chiamavamo nonna Nilla mamma rivolgendoci a lei usando sempre la terza persona e, naturalmente, usavamo lo stesso riguardo nei confronti del marito della nonna, che chiamavamo Signor Leonzio. Mia nonna veniva chiamata da lui Signora Nilla; come scoprii più tempo dopo, anche i nostri vicini si rivolgevano a lei nello stesso modo. A ben considerare, nonostante la nostra vita semplice e modesta, era d’obbligo usare queste espressioni estremamente rispettose.

    Trovandosi il Salvador molto vicino all’equatore, ogni santo giorno il sole sorge intorno alle 6 e tramonta verso le 18; in poco tempo è giorno ed altrettanto immediatamente è notte. Come faceva chiaro, gli uccelli, i pappagalli cominciavano a cantare e fischiare mentre, come diventava buio, erano gli animali notturni a far sentire la loro voce.

    Noi cenavamo alle cinque del pomeriggio, perché non avevamo elettricità e dopo cena era quasi una regola raccontare delle storie popolate di diavoli, donne piangenti e disperate e poi ancora gufi, civette e pelosi ragni neri… tutte narrazioni che facevano a gara per terrorizzare noi bambini!

    In campagna le abitazioni erano sprovviste di servizi igienici e così, per le necessità corporali c’era solo l’aperta campagna. Uno dei compiti del signor Leonzio e dello zio Tonio, che si allontanava raramente, era quello di provvedere alla sistemazione di un pezzo di terreno adoperato come gabinetto.

    Di solito ci andavamo dopo cena, prima di andare a dormire e immaginate con quale apprensione noi bambini facevamo quel pezzo di strada per andare a fare i nostri bisogni al buio, anche se c’era sempre un adulto che ci accompagnava…

    Una delle cose che mi aveva sempre incuriosito era il fatto che i nostri escrementi, che depositavamo in quello spiazzo, il mattino dopo non c’erano più, erano letteralmente spariti!

    -Gli animali della foresta vengono a mangiarli… - spiegava il signor Leonzio senza dilungarsi troppo sulle bestie che venivano a banchettare.

    Tra le varie specie di animali che abitavano quel territorio, oltre ai coyotes e lupi, c’erano gatti selvatici, scoiattoli, pappagalli rossi, verdi e persino multicolori. C’erano poi colombe e uccelli variopinti come il Quetzal, simbolo del Guatemala ma che non disdegnava di farsi vedere talvolta anche dalle nostre parti.

    ***

    A Los Encuentros ognuno di noi aveva dei compiti ben precisi: il signor Leonzio coltivava un appezzamento di terreno abbastanza lontano che produceva mais, riso e fagioli di varie qualità destinati in maggioranza ai proprietari terrieri. Spesso, insieme a lui andava nei campi anche zio Tonio, quando non stava sdraiato sulla sua amaca sistemata vicino casa. A volte si avventurava più lontano, quando andava a trovare qualche amico che abitava al di là del monte. E poi c’era José che aveva il compito principale di cercare la legna che ci serviva per cucinare e quando il signor Leonzio andava lontano a lavorare, era lui a portargli da mangiare.

    Eravamo nonna Nilla ed io, quando fui più grande, ad eseguire tutte le faccende legate all’andamento della casa: macinare il mais per cuocere le tortillas, cuocere i fagioli che dovevano bollire a lungo e che erano il nostro alimento base che venivano anche trasformati in creme. La crema di fagioli serviva anche per farcire la popussa, una specie di frittella tipica del Salvador fatta con la farina di mais bianca.

    Si dovevano poi curare vari animali da cortile e, raramente, allevare anche una mucca col suo vitellino. Il mio compito principale era quello di badare alle galline e ai galli che di notte, per proteggersi dai coyotes e dai lupi, si accampavano sui rami degli alberi. Al mattino portavo loro del grano o del mais così scendevano per gironzolare nei dintorni di casa nostra a cercar vermi e lombrichi.

    Ero sempre io ad andare in giro a scovare gli eventuali nidi che facevano le galline, recuperando le uova che portavo poi alla nonna. Certe volte invece nonna Nilla mi faceva sorvegliare alcuni nidi dove, a tempo debito, si schiudevano le uova e ne uscivano i pulcini. Che gioia per una bambina come me, assistere alla nascita di quelle piccole creature col loro soffice e giallo piumaggio!

    Giorno dopo giorno, mi abituai al ritmo di quella vita che era comune a tutti i contadini del mio paese ed un po’ alla volta il mio viaggio a cavallo con l’uomo sconosciuto e la paura provata, lasciarono posto ad una nuova serenità. Aiutava anche il fatto che vivevamo in mezzo ad una natura rigogliosa e splendida che oltretutto, ci consentiva di variare e completare la nostra alimentazione.

    Vicino alla nostra casa c’erano infatti alcuni alberi di mango, dai grandi frutti carnosi color arancio, un po’ più lontano, c’erano alberi di avocados e arance… e poi piante di ananas, di papaya e di banane che ci donavano un frutto da cui potevamo ricavare la farina che unita a quella di riso, ci consentiva di fare pane e dolci.

    Era un piccolo paradiso che però nascondeva inconvenienti anche di una certa gravità: all’esterno delle capanne giravano grossi ragni neri e serpenti e, dentro nel pavimento di terra si nascondevano cimici e pulci, senza dimenticare i tale-pales, piccoli insetti piatti e marroni che facevano il nido nelle corde dei nostri letti, pungendoci e succhiandoci il sangue.

    Avevamo anche un orto dove coltivavamo in prevalenza zucche, piselli, patate, pomodori e tutti gli ortaggi che, uniti ai fagioli erano la base della nostra alimentazione. Finché c’era la stagione delle piogge, i frutti della terra erano ricchi e abbondanti ma poi, con l’arrivo dei mesi estivi che vanno da gennaio ad aprile, dovevamo farci bastare le provviste e non sempre queste erano sufficienti per sfamarci come si doveva.

    E proprio in quei periodi di maggior siccità e di scarsità di cibo, i coyotes ed i lupi si avvicinavano pericolosamente alle abitazioni emettendo penosi ululati che ingigantivano le nostre paure. Io ascoltavo con gli occhi spalancati augurandomi che la nostra misera capanna fosse abbastanza robusta da proteggerci e, per maggior sicurezza, lanciavo una muta preghiera verso Capitàn, affinché facesse buona guardia!

    In quei momenti sentivo il mio cuore stringersi come in una morsa e benedicevo la tortilla quotidiana che era cibo e sostegno del cane Capitàn, creatura grande e coraggiosa che aveva il potere di tranquillizzarmi facendomi scivolare in un sonno ristoratore.

    Periodicamente mia nonna, il signor Leonzio e lo zio Tonio dovevano andare in città a fare spese per acquistare quello che non producevamo noi: farina, zucchero, attrezzi, medicinali; a quel punto io e mio fratello dovevano stare a casa, da soli. Durante la loro assenza, che poteva durare anche due/tre giorni, noi due salivamo una scaletta costruita dal signor Leonzio e dormivamo su una tavola appesa al soffitto, come fosse stata un’altalena. Ci legavamo per non cadere durante il sonno e lì passavamo la notte al sicuro, al riparo da eventuali lupi che potevano avvicinarsi alla capanna.

    Non avendo acqua in casa, ogni giorno si andava al fiume per lavare noi stessi e la biancheria; di solito gli uomini ci andavano per conto loro mentre io e la nonna, spesso accompagnate da mio fratello, andavamo per conto nostro. Come arrivavamo, per prima cosa lavavamo i nostri vestiti e la biancheria che mettevamo subito ad asciugare in modo da poterci poi rivestire e tornare a casa.

    In una zona vicino alla riva era stata scavata una buca dove l’acqua del fiume restava limpida e che attingevamo per bere e cucinare. Era nonna Nilla a trasportare l’acqua in contenitori di terracotta che lei metteva in equilibrio sulla testa e anch’io, pur essendo piccola, facevo la mia parte: a me toccava portare la biancheria pulita e ben piegata.

    Per me e mio fratello, che non avevamo praticamente giocattoli e che dovevamo contribuire all’andamento famigliare, andare al fiume era anche un gran divertimento: significava poter giocare nell’acqua e, in quell’occasione potevamo ammirare le tante orchidee che, grazie all’umidità prosperavano rallegrando quella zona con i loro colori gialli e arancio. E poi, che meraviglia veder volteggiare le

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