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Prendimi fra le tue braccia
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Prendimi fra le tue braccia
E-book901 pagine13 ore

Prendimi fra le tue braccia

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Info su questo ebook

Julian Anderson è un prodigio della musica classica.
Mia Collins è una ballerina con grandi aspettative.

Cosa succede quando due grandi talenti s’incontrano?
Cosa potrà mai riservare loro il futuro?


Julian è un enfant prodige che ha esordito con la Filarmonica di New York a soli sette anni. Il fuoco della musica classica gli brucia dentro, e per lui suonare è tutto. Laureato al Conservatorio, una brillante carriera lo aspetta ma succede qualcosa che lo distrugge, e tutto cambia. Lui cambia: da giovane promessa a… nulla.
E l'incontro inaspettato con una ballerina che cerca il successo potrà aiutarlo, o sarà solamente un'altra delle tante difficili prove che è costretto ad affrontare?

Mia Collins è nata per ballare. Semplice ragazza del Kent, ama la sua vita e la sua famiglia. Studentessa in una delle Accademie di Danza più importanti di Londra, è traboccante di felicità.
E ora che il terzo anno sta per cominciare, ella vi ripone grandi speranze per poter coronare, un giorno, il suo sogno più grande: diventare un'indimenticabile étoile.

Julian e Mia si incontreranno in un modo alquanto particolare – e sexy –, ma le cose non sempre fileranno come vorrebbero loro...
E il passato di Julian, così misterioso. Come reagirà Mia quando la luce cruda della verità le pioverà addosso tutta insieme, come si comporterà nei confronti di un Julian all'improvviso sconosciuto?

All’interno della Clifton Academy si snoda una storia d’amore brillante e sensuale, ricca di eventi, colpi di scena e sentimenti, fra prove di danza, concerti sinfonici e stupefacenti balletti, il tutto impreziosito dalle ricercate note di un incredibile quanto inestimabile Leipreachán...


Il romanzo, il primo della serie
#CliftonConservatoireofMusic&Dance,
è Autoconclusivo.
LinguaItaliano
Data di uscita23 mar 2021
ISBN9791220282529
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    Anteprima del libro

    Prendimi fra le tue braccia - Marilena Tealdi

    Marilena Tealdi

    decoration

    Prendimi fra le tue braccia

    Copyright © 2021 Marilena Tealdi

    Copertina realizzata da Catnip Design di Pamela Fattorelli © | www.catnipdesign.it

    Prima Edizione Digitale: Marzo 2021

    Ogni riproduzione, totale o parziale, e ogni diffusione in formato digitale non espressamente autorizzata dall’autore è da considerarsi come violazione del diritto d’autore, e pertanto punibile penalmente.

    Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni riferimento a luoghi o persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale.

    Un ringraziamento speciale a tutti gli allievi del Conservatorio e dell'Accademia di Danza.

    UUID: 44c35fb9-ea4f-4b79-b7b4-973e92d3f5f2

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Il libro

    PRENDIMI FRA LE TUE BRACCIA

    prologo

    Julian

    Mia

    STAGIONE AUTUNNALE

    capitolo uno

    capitolo due

    capitolo tre

    capitolo quattro

    capitolo cinque

    capitolo sei

    capitolo sette

    capitolo otto

    capitolo nove

    capitolo dieci

    capitolo undici

    capitolo dodici

    capitolo tredici

    capitolo quattordici

    capitolo quindici

    capitolo sedici

    STAGIONE INVERNALE

    capitolo diciassette

    capitolo diciotto

    capitolo diciannove

    capitolo venti

    capitolo ventuno

    capitolo ventidue

    capitolo ventitré

    capitolo ventiquattro

    capitolo venticinque

    capitolo ventisei

    capitolo ventisette

    capitolo ventotto

    capitolo ventinove

    capitolo trenta

    capitolo trentuno

    STAGIONE PRIMAVERILE

    capitolo trentadue

    capitolo trentatré

    capitolo trentaquattro

    capitolo trentacinque

    capitolo trentasei

    capitolo trentasette

    STAGIONE ESTIVA

    capitolo trentotto

    capitolo trentanove

    capitolo quaranta

    capitolo quarantuno

    capitolo quarantadue

    epilogo

    Jasmine

    PLAYLIST

    Note

    Ringraziamenti

    Il libro

    Julian Anderson è un prodigio della musica classica.

    Mia Collins è una ballerina con grandi aspettative.

    Cosa succede quando due grandi talenti s’incontrano?

    Cosa potrà mai riservare loro il futuro?

    Julian è un enfant prodige che ha esordito con la Filarmonica di New York a soli sette anni. Il fuoco della musica classica gli brucia dentro, e per lui suonare è tutto. Laureato al Conservatorio, una brillante carriera lo aspetta ma succede qualcosa che lo distrugge, e tutto cambia. Lui cambia: da giovane promessa a… nulla.

    E l'incontro inaspettato con una ballerina che cerca il successo potrà aiutarlo, o sarà solamente un'altra delle tante difficili prove che è costretto ad affrontare?

    Mia Collins è nata per ballare. Semplice ragazza del Kent, ama la sua vita e la sua famiglia. Studentessa in una delle Accademie di Danza più importanti di Londra, è traboccante di felicità.

    E ora che il terzo anno sta per cominciare, ella vi ripone grandi speranze per poter coronare, un giorno, il suo sogno più grande: diventare un'indimenticabile étoile.

    Julian e Mia si incontreranno in un modo alquanto particolare – e sexy –, ma le cose non sempre fileranno come vorrebbero loro...

    E il passato di Julian, così misterioso. Come reagirà Mia quando la luce cruda della verità le pioverà addosso tutta insieme, come si comporterà nei confronti di un Julian all'improvviso sconosciuto?

    All’interno della Clifton Academy si snoda una storia d’amore brillante e sensuale, ricca di eventi, colpi di scena e sentimenti, fra prove di danza, concerti sinfonici e stupefacenti balletti, il tutto impreziosito dalle ricercate note di un incredibile quanto inestimabile Leipreachán ...

    Il romanzo, il primo della serie

    #CliftonConservatoireofMusic&Dance,

    è Autoconclusivo.

    PRENDIMI FRA LE TUE BRACCIA

    Marilena Tealdi

    Romanzo

    #CliftonConservatoireofMusic&Dance

    A mia madre, il mio baricentro.

    A mio zio.

    Ai miei dolci gemelli Helga e Matthieu. A Erik.

    A mio fratello Armando,

    il mio pianista preferito,

    e al suo amore per la musica classica.

    Grazie per averla data anche a me.

    Ai miei fantastici lettori.

    Che tutto quello che è racchiuso nei vostri cuori

    si possa un giorno avverare.

    Dove le parole non arrivano,

    la musica parla.

    (Ludwig van Beethoven)

    Lavora come se non avessi bisogno di soldi.

    Ama come se tu non fossi mai stato ferito.

    Balla come se nessuno ti stesse guardando.

    (Satchel Paige)

    Non posso muovermi, e non vorrei nemmeno farlo,

    senza sentire prima la musica.

    (George Balanchine)

    prologo

    Silenzio.

    Il sipario, adagio, si alza.

    In platea, a pochi metri da me, c’è un pubblico in fremente attesa e io lo respiro tutto. Lo intravedo appena, ma la certezza che è lì mi dà una carica immensa.

    Respiro.

    Sono in posizione, pronto. I polpastrelli mi prudono, il cuore mi batte.

    Respiro la quiete prima della tempesta, respiro l’impazienza di questo pubblico appassionato, respiro l’emozione che presto salirà alle loro gole, respiro e immagino i loro occhi spalancarsi, increduli ed emozionati, quando tutto si rivelerà, come in un sogno.

    Respiro, traggo forza dalla loro impazienza, bruciando nell’attesa che la mia stella splendente mi si palesi davanti, e illumini con la sua intensa bellezza il buio che ha devastato il mio cuore.

    Perché senza di lei non posso vivere. Senza di lei non posso suonare.

    E vivere e suonare, per me, sono la stessa identica cosa.

    Brucio per lei.

    Un tempo bruciavo solo per la musica. Ora capisco che c’è qualcosa di più che mi fa battere il cuore, respirare e vivere.

    Lei. La musica della mia anima, l’anima della mia musica.

    Il fascio luminoso dei fari, piccoli pianeti lontani, ora inonda lo spazio liscio del palcoscenico, lasciando al buio tutto il resto. Il sipario è alzato. E sento il pubblico non credere ai propri occhi.

    E lei appare. Elegante, leggera come una libellula ed eterea come l’atmosfera: è splendente proprio come la stella che è.

    È bianca e forte come un cigno, e potente come la melodia che ho composto pensando al suo danzare leggero, come una farfalla che vola sul pelo dell’acqua, ma senza bagnarsi le ali.

    E ora che la mia dolce musa è di qui, l’oscurità andrà via.

    E, insieme, rinasceremo.

    Julian

    Il rettore Kirby è seduto sull'austera poltrona di pelle. Con un’aria piuttosto severa dipinta addosso, le labbra tirate in due linee sottili, ha sul viso un’espressione strana, è quasi la caricatura di se stesso e se la situazione non fosse così tragica potrei persino mettermi a ridere.

    Un inusuale pallore gli decolora le guance come se avesse un calo di pressione, o di zuccheri. O entrambe le cose.

    Oppure, semplicemente, come se dovesse, a forza, cacciare fuori di qui uno dei suoi allievi più promettenti.

    Arnold Spencer Kirby si fissa le mani. È leggermente ingobbito, la giacca ocra gli tira appena sulle spalle robuste. La cravatta mi sembra disfatta, la camicia sgualcita.

    Così stropicciato non l’ho mai visto. Forse gli sta veramente a cuore la mia situazione, e ha combattuto onestamente per salvarmi la reputazione e il culo. Fallendo, è chiaro.

    Parla, e la sua voce acuta ma schietta mi penetra nel cervello, doppiamente fastidiosa. Continua a fissarsi le mani anche dopo aver detto quella frase.

    Infatti. Proprio come temevo.

    Ha combattuto per me, e ha fallito.

    E adesso sono qui, seduto di fronte a lui come un emerito imbecille, a fissarlo imbambolato e credo proprio d’avere, stampata in faccia, un’espressione che non so neppure definire – a metà fra l’incazzato e il rassegnato, credo – mentre mi sudano i palmi e ho i brividi che mi corrono lungo la spina dorsale. E la bocca arida come un deserto.

    E con un senso di immensa sconfitta che mi opprime l’anima.

    Un pensiero attraversa la mia mente annebbiata, ed è un pensiero che mi risolleva e mi distrugge contemporaneamente: per fortuna lui non c’è più a vedere il grandissimo disastro che ho combinato.

    Mi tremano le mani, odio la sensazione d’essere così impotente. Mi afferro le ginocchia per fermare questo insopportabile tremolio. Non voglio mostrare al rettore questo lato di me: patetico.

    «Mi dispiace, signor Anderson,» dice lui dopo un momento di silenzio, il capo chino, la voce contrita, «ma non possiamo proprio passare sopra a… questo.» Fantastico. Da paladino nei miei confronti è appena passato e salito alla svelta sul carro di quelli che mi hanno giudicato, e giustiziato.

    «State facendo un grossissimo sbaglio,» dico, cercando di mantenere un tono di voce calmo. Vorrei scattare, invece, dalla rabbia che provo. Scattare, urlare, essere arrogante fino all’ultimo e dire che uno come me non lo troveranno mai più. Urlare che io ho vinto il Premio Paganini a soli sedici anni, che io ho suonato, ancora minorenne, in una tournée che mi ha consacrato definitivamente come genio assoluto del mio strumento, che io suono Il volo del calabrone in un minuto – e il record registrato nel Guinness dei primati è di cinquantaquattro secondi –, facendo zittire tutti quanti.

    Ma non urlo nulla di tutto questo. Mi limito a deglutire, ad agitarmi sulla sedia, a leccarmi le labbra secche. A guardare per un secondo il cielo di New York oltre i finestroni di questo elegante ufficio prima di tornare a concentrarmi sul rettore Kirby e il suo patimento.

    Lui sposta i pesanti occhi grigi dalle proprie mani, le punte delle dita ingiallite di nicotina, a un massiccio busto di Beethoven in lucido bronzo appoggiato sul piano dell’ampia scrivania, come se il vecchio musicista sordo potesse dargli qualche consiglio su come fare per poter agire diversamente.

    Ma il busto, sfortunatamente per me, se ne resta muto nella sua eterna espressione austera.

    «Gli ordini arrivano dall’alto, signor Anderson. E devo attenermi a quelli. Mi dispiace.» Certo. Deve attenersi a quelli. Che cazzo.

    Ha ancora le mani di fronte a sé, poggiate sul piano in radica di questa fottuta scrivania – mi fa imbestialire così tanto questo suo discernimento che vorrei ribaltargliela addosso – e torna lesto a guardarsi i palmi, dopo aver capito che dal vecchio Ludwig non riceverà alcun consiglio.

    Cazzo.

    Kirby si fissa le mani come se non le avesse mai viste prima. Guarda tutto, fuorché me negli occhi.

    Il rettore fa un lungo sospiro, si passa due dita sulla fronte, si leva gli occhiali con le lenti bifocali, li osserva attentamente poi se li rimette sul naso spigoloso.

    E tutto con una lentezza esasperante.

    E dopo, finalmente, mi punta dritto negli occhi. I suoi sono acquosi bulbi grigi carichi di rammarico. I miei saranno specchi verde scuro carichi di rimpianti.

    «Buona fortuna per tutto, signor Anderson.»

    E capisco che ormai, qui, ho definitivamente chiuso.

    Senza parlare prendo la custodia nera, che ho appoggiato sulla seggiola appaiata a quella su cui sto seduto, e noto come il rettore Kirby lancia un lungo sguardo malinconico verso di essa o, meglio, verso il suo contenuto, e mi alzo lentamente.

    «Addio, rettore Kirby.»

    Lui abbozza un sorriso, sospira ancora come frustrato, poi torna a guardare Beethoven, che ancora non gli parla. Il busto bronzeo non gli dice di fermarmi, di tentare ancora una volta, di fare di tutto per tenermi.

    Farò schifo anche al grande compositore tedesco.

    Be’, che dire? Mi faccio schifo da solo, quindi…

    E ormai rassegnato del tutto me ne vado, ed esco – probabilmente per sempre – dall’ufficio di quest’uomo che mi ha preso sotto la propria ala ormai parecchi anni fa, promettendomi e dandomi grandi cose, cose che ora si sta ripigliando, tutte o quasi.

    Oh, anche se il mio talento non se lo potrà mai prendere, e tantomeno Leipreachán. Lui è mio, e mio soltanto. E credo che a quelli – coloro che hanno dato le disposizioni per sbattermi fuori di qui dall’alto dei loro scranni – non vada assolutamente giù.

    Come dire: le perle se le beccano sempre i porci.

    Attraverso i corridoi di questo elegante edificio, fortunatamente adesso semideserti, e respiro per l’ultima volta questa atmosfera magica, unica; la stessa che respiro da quando avevo sei anni.

    Cammino veloce. Non voglio fermarmi, pensare, lasciarmi struggere ancora da una ormai inopportuna nostalgia. Mi sono rovinato da solo, e se mi metto a compiangermi faccio solo un gesto da idioti.

    Chiudo fuori dal mio cervello le emozioni che solitamente è la musica a farmi nascere e, camminando lesto, lascio alle mie spalle una scia di aule piene di suoni, strumenti musicali d'ogni specie e studenti che provano al di là di porte ben chiuse.

    Scendo la maestosa scalinata come se ci fosse un incendio che brucia alle mie spalle.

    E quasi mi metto a correre quando arrivo in prossimità dell’uscita, e all’improvviso sono oltre le porte a vetri, e mi ritrovo nell’assolata Claremont Avenue, nell’Upper West Side di Manhattan, a guardare il cielo e a sentirmi, improvvisamente, come in prigione, anziché libero. A sentirmi come se mi avessero appena privato di tutto l’ossigeno, del cibo, dell’acqua.

    Guardo su, quel cazzo di cielo schifosamente azzurro, le nuvole bianche. Vedo le punte degli alberi mettere le prime gemme.

    Sento gli occhi inumidirsi, le palpebre pungere, il cuore fermarsi. «Perdonami, papà,» sussurro piano al vento. Che gli possa portare le mie parole.

    E mi rendo conto che, ormai, non ho più niente da fare, lezioni da seguire, regole a cui sottostare. Me ne rendo conto solamente ora che sono stato espulso. La Manhattan School of Music mi dava tantissimo, e io ho gettato tutto al vento come un vero idiota.

    E allora, per non sprecare completamente questo evento, tanto ormai non c’è più nulla che io possa fare, o dire, per poter tornare indietro, senza altri sbattimenti me ne vado a casa di Mike, a fare ciò che evidentemente mi riesce meglio: sballarmi, fare il coglione, perdermi per non pensare.

    Raggiungo casa sua con un taxi anziché prendere la Cadillac Escalade, quell'assurdo SUV che mia madre si ostina a tenere credendo forse che, grazie a quel barcone, io possa essere con lei un poco più mansueto. Certo, come no.

    Testa di cazzo sono, testa di cazzo rimango. Con o senza macchina da ottantamila dollari.

    Mike deve aver fatto festa fino a poche ore fa, a giudicare dallo stato pietoso in cui si trova l’appartamento, già dall’ingresso: bottiglie vuote, cartoni di cibo cinese sparsi qua e là, vestiti gettati sul pavimento. Non commento poiché mi rendo conto che se non abitassi con mia madre – anche se lei praticamente non c’è mai – e non avessimo i domestici, vivrei nella stessa maniera disordinata di Mike. Probabilmente le uniche cose a essere sempre in ordine sarebbero i miei spartiti e Leipreachán.

    Attraverso il corridoio alla ricerca del mio amico. Lo trovo: Mike, in jeans e maglietta, è sprofondato in una delle poltrone del living – del suo appartamento ho una copia delle chiavi, perciò mi sono aperto da solo – intento a rollarsi una canna guardando un porno alla tv.

    E Mike è sempre una certezza perché mi vede, nota il mio cipiglio corrucciato ma non chiede nulla. Il bello di Mike è che non indaga, non domanda e non fa sembrare che tu possa avere una coscienza, o un vago buonsenso seppellito da qualche parte.

    Con lui, coscienza e buonsenso sono morti e sepolti da un pezzo.

    Mike mi saluta appena, distratto dall'orgia sul video, mentre mi tende la canna, senza pensare di chiedermi se ho saltato la scuola, considerata l’ora (le dieci e mezza del mattino), poi, spegnendo il televisore – con il commento: «Questi film alla fine sono tutti uguali» – senza troppi sbattimenti o convenevoli mi dice che questa sera potremmo cambiare territorio di caccia e andarcene a Brooklyn.

    Mi siedo sul divano in pelle rossa, allungando le gambe e lasciando la custodia con Leipreachán su un mobiletto accanto; fisso Mike negli occhi celesti fumando la paglia come se quest’erba fosse ossigeno puro.

    L’ossigeno che mi è appena stato tolto.

    Alzo le spalle. Non me ne importa un cazzo di questa sera, dopo aver praticamente gettato il mio futuro nel cesso.

    «Dài, Ju. Così lasci un po’ perdere quelle troiette della Juilliard che ti fai di solito. Tanto te le sei scopate quasi tutte. Che poi uno come te in un attimo si può dragare l'intero corpo di ballo. Scommetto pure cento dollari che sono delle gran ninfomani. Ballerina non fa rima con puttana?» e ride sguaiato mentre gli ripasso la canna.

    Mike fa un paio di tiri, poi me la ripassa. Cazzo, mi conosce proprio bene: senza chiedermi nulla ha capito che oggi, per me, la giornata è cominciata davvero di merda.

    E fumo e mi godo l’erba e sorrido a pensare alle ragazze della Juilliard, che fiche che sono… E non me le sono scopate tutte solamente perché non mi sono mai fatto quelle dai diciotto anni in giù. Non sono mica un pervertito pedofilo. Un bastardo figlio di puttana sì, ma sempre con una certa morale piuttosto alta.

    E no, ballerina non fa rima con puttana. Ballerina fa rima con gran pezzo di fica.

    Mike ride ancora, bevendo Absolut direttamente dalla bottiglia, pescata da un cestello pieno di ghiaccio posato sul tavolino. Shottini per sciacquarsi la gola.

    Do ancora un paio di tiri alla paglia, prima di ripassarla a Mike, e dopo mi lavo pure io la bocca con la vodka fredda che scorre svelta giù lungo l’esofago come se fosse un ruscello in montagna.

    «Okay,» acconsento, per Brooklyn. Tanto cosa m’importa, ormai, della mia vita?

    Appena maman saprà che sono stato espulso da scuola, ci penserà lei a farmi a fettine.

    E a Brooklyn la caccia è proficua: mentre io ero nei bagni a farmene una, Mike ha rimorchiato una bellona in vena di festeggiamenti piuttosto spinti – era l’addio al suo nubilato, quello dove Mickey l’ha rimorchiata – e che dice tutta allegra che non vuole fermarsi a un solo ragazzo. Mi pare d’aver capito che, per quella lì, se ce ne sono due è ancora meglio. Mike e io torniamo con la bellona al Village.

    E il giorno dopo, quando mi sveglio rintronato a casa di Mike – il sole già fastidiosamente alto che luccica oltre le ampie finestre prive di tendaggi – avverto un gran mal di testa a martellarmi le tempie, il solito buco nel cuore che appare dopo serate – nottate – inconcludenti come questa appena passata e una vaga sensazione di come io abbia appena commesso l’ennesima stronzata.

    Posso essere un incredibile genio della musica classica quanto mi pare, ma a vedermi ora… sembro solo un inutile tossico. Ora non mi sentirei neppure in grado di suonare una scala sui tasti numerati di una pianola per bambini.

    Dal comodino afferro il mio telefono per controllare l’ora, e i miei occhi stanchi si posano sul calendario e mi ricordo all’improvviso, e il ricordo mi fa male come un pugnale nel cuore: oggi è il 25 marzo, stasera c’è il concerto e domani è un anno che mio padre non c’è più.

    Guardo Mike e la bellona, sfatti e addormentati a pochi centimetri da me. Siamo nel lettone king size di Mike, ammassati in un groviglio di lenzuola, cuscini schiacciati e nudi corpi sudaticci. La spalla della tipa a sfiorare la mia, i lunghi capelli scuri aperti a ventaglio sulla federa, a solleticarmi fastidiosamente una guancia. Ancora il vago odore dolciastro del suo profumo scadente a stuzzicarmi le narici. Il viso con il trucco sfatto, a macchiarle la pelle. Le ciglia spesse e incrostate di mascara scuro. Il braccio di Mike abbandonato sul pallido petto nudo, e lui che le russa appiccicato all’orecchio.

    Sembrano due strafattoni, pieni di alcool e droghe.

    Provo un senso di nausea e, quasi disperato, penso che io non sono molto meglio di loro.

    Esco da queste lenzuola umide e stropicciate, i piedi scalzi sul pavimento freddo trovano un secondo di sollievo. Seduto sul materasso, cerco la forza per alzarmi e andare via invece di pensare a svegliare Mike per farmi, insieme a lui, un paio di righe. Dovrebbe avere ancora qualcosa, o ce la siamo sparata tutta ieri sera, prima d’uscire per andare a Brooklyn a far danni? E chi se lo ricorda.

    Poco male: Mike più tardi andrà sicuramente a fare rifornimento.

    Ora devo solo rimettermi un poco in sesto, riconnettermi con il presente e levare le tende, che è tardi e devo prepararmi, mentalmente e fisicamente, per questa sera, per mio concerto da solista alla Carnegie Hall. Come al solito, come sempre, tutti si aspetteranno grandissime cose da me. Tutti impazienti di vedere il fringuello di ventitré anni e il suo incredibile Leipreachán. Tutti in fremente attesa del loro re. Lo so, sono un bastardo arrogante. Ma è la verità: io sono il re e loro i miei sudditi, quando sono sul palco di una sala concerti, in un teatro o in una stanza piena di melomani.

    Ci saranno pure un sacco di pezzi grossi, presidenti e benefattori di Enti e Fondazioni e voglio essere al top. Oltre che esserci i pezzi grossi della Filarmonica che mi fanno una corte spietata già da un bel pezzo.

    Per fortuna posso permettermi il lusso di essere perfetto anche se mi preparo all’ultimo momento. Quando ho Leipreachán fra le mani sono sempre al top, ma questa sera non voglio rischiare. Già che sono stato espulso da scuola, poi… Fortuna che il rettore Kirby e tantomeno quelli delle alte sfere non vogliono assolutamente alcuna cattiva pubblicità per il proprio istituto, per cui sono sicuro che la cosa non salterà fuori troppo facilmente, e neppure tanto presto.

    Sono una testa di cazzo, ma il mio talento – e il mio inestimabile strumento – sono difficili da reperire altrove. Lo so.

    Scommetto che il vecchio Kirby si è già pentito d’aver dato ascolto a colui che ha deciso la mia espulsione.

    Cazzo, perché ci penso ancora, poi!

    Dài, diamoci una mossa.

    Perlustro con lo sguardo la stanza illuminata da questo fastidiosissimo sole, e tento di inquadrare i miei vestiti in mezzo a quelli dei miei due compagni di letto, in mezzo alle svariate bottiglie vuote che campeggiano ancora sul pavimento. I boxer li ritrovo a pochi centimetri dai miei piedi, accanto al reggiseno di pizzo della bellona, sul tappeto nero, mentre i pantaloni li avevo già tolti sul divano insieme alla maglietta, e infatti li ritrovo lì, attorcigliati a quelli di Mike e al miniabito della tipa, una roba leopardata che farebbe venire un colpo alla mia stilosissima sorellina.

    Cazzo, non devo pensare a Jas in questi momenti: ho appena dato il peggio di me, e mi sento ancora di più una merda irrecuperabile.

    Afferro boxer, jeans e maglietta e li infilo veloce, senza preoccuparmi di fare troppo silenzio. È chiaro che i due, dopo che io sono sparito in bagno ieri notte dopo il pompino che la tipa mi ha fatto, mentre Mike le faceva altro, ci hanno ancora dato dentro con un bis senza di me, e adesso sono persi in un sonno pesantissimo e artificiale che li farà risvegliare, pure loro, con un male alla testa epico e la bocca come un gabinetto della Stazione Centrale. Allaccio ai piedi gli anfibi, recupero il giubbotto e infine la cosa più preziosa, la custodia nera che ho lasciato qui da Mike ieri sera – se posso Leipreachán non lo porto mai in giro per locali, preferisco abbandonarlo nel soggiorno del loft del mio amico – e me la squaglio, che tanto continuare a stare qui non risolvo un cazzo, anzi.

    E arrivo a casa che fortunatamente è vuota a parte i domestici, ma i soldatini di mia madre riesco a evitarli, e mi rinchiudo in camera mia dove, nel mio bagno privato, mi infilo rapido sotto alla doccia bollente dopo essermi lavato a lungo denti e bocca con dentifricio e collutorio. Uscito dalla doccia, un poco rigenerato, ancora nudo mi passo il rasoio sulle guance, a rendere il mio viso perfettamente liscio, ché a mia madre verrebbe un colpo se vedesse il figlioletto suonare alla Carnegie Hall in una maniera non del tutto consona, dato che già porto i capelli lunghi e spettinati e questo le fa accapponare la pelle, poi, a malapena vestito – sui boxer bianchi indosso solo dei pantaloni neri – afferro Leipreachán e lo suono, lo suono, lo suono fino a non sentire più spalle e collo.

    E infine, poco dopo le otto di sera, il mio cellulare riceve un messaggio. È Jasmine: lei e nostra madre sono già da Caviar Russe, il ristorante russo, e mi stanno aspettando. Rispondo a mia sorella, scrivendole che le raggiungerò a breve per la cena e andare poi, tutti insieme, alla sala da concerto sulla Settima Strada come l'allegra famigliola felice che non siamo, da quando papà non c'è più.

    Mi sbrigo, e in un attimo sono pronto per uscire di casa – ai pantaloni scuri che già indosso aggiungo calzini, camicia bianca e sneakers nere al posto delle Church’s, e sopra a tutto la giacca del completo – quando un secondo messaggio fa trillare il mio iPhone. È di Emily.

    E la sorpresa attraversa tutti i miei pensieri sballati. Ci sarà anche lei, questa sera.

    E il mio cuore fa un balzo e una capriola. È vero, l’ho invitata io, ma non credevo venisse, in realtà. E invece…

    All’idea di rivedere colei che è stata la mia fidanzata, ora ex fidanzata che abita a San Francisco, mi scende un brivido di elettricità lungo la spina dorsale, mi sento più vivo che mai, mi sento vivo solo come quando creo la musica e lei nasce grazie alle mie dita. Tutto sarà meraviglioso.

    Con il batticuore, esco di casa.

    E il giorno dopo, invece che con le mie gambe e pieno di aspettative, da questa casa esco steso su una barella in pieno stato d’incoscienza, dritto verso l’ospedale in codice rosso. Con mia sorella che urla disperata.

    ***

    È settembre.

    La primavera, l’estate… passate, finalmente. E, con esse, anche la mia permanenza in un Centro di riabilitazione nel Montana dove sono andato dopo l’overdose, per ripulirmi.

    Sono passati sei mesi, da allora, anche se il tempo mi è sembrato dilatato così tanto che in realtà mi pare siano passati due anni; mi sento cambiato, forse lo sono.

    E ora che sono tornato dalla Comunità da pochissimi giorni, ecco che sono già pronto a ripartire: ho nuovamente le valigie pronte e un aereo di linea United che mi aspetta all'aeroporto di Newark.

    Mi sento un’altra persona. Sono un'altra persona.

    E non tutto è andato perduto, poiché il rettore Kirby e la MSM mi hanno dato la possibilità di non perdere l’anno scolastico, e il master, anche se per sfruttare questa seconda occasione dovrò cambiare scuola, Paese.

    Ma è un sacrificio che sono disposto a fare più che volentieri, se servirà a redimermi almeno un poco da tutto il male che ho fatto, da tutto il male che ho dato anche se, lo so benissimo, la mia anima marcia non si scollerà mai da me completamente. E forse, questo, è un bene, se potrà servirmi da monito e non rifare mai più gli stessi schifosi errori del passato.

    Mia

    Danzare è la cosa che amo di più al mondo.

    Lo so, questa pare essere una frase scontata, un pensiero banale.

    Quasi tutte le bambine amano danzare, e rispondono la ballerina alla domanda che cosa vuoi fare da grande?

    Vuoi mettere il fascino del tulle, i tutù bianchi, i nastri delle scarpette da punta, le coroncine sulla testa acconciata a treccioline minuscole e il viso truccato da sembrare una bambolina di fine porcellana?

    Ma io amo davvero ballare. Sto male se non posso farlo, sono triste quando non danzo. L’abbigliamento e l’aspetto fisico sono solamente una cosa secondaria.

    La danza è nel mio cuore e il mio cuore batte per la danza.

    Sono nata in una fattoria nel Kent – proprio nata qui, mia madre non ha fatto in tempo a correre all’ospedale, le si sono rotte le acque e mi ha dato alla luce sul tavolo da pranzo – e da bambina, quando avevo appena tre anni e mia sorella cinque di più, anziché essere insieme a lei nella piccola stalla ad aiutarla ad accudire i nostri pony e a lucidare i loro finimenti, ero da qualche parte – in cortile, in cucina, vicino al recinto delle pecore, ovunque purché ci fosse spazio – a fare dei passi di danza buttati a casaccio, visti una volta sola a uno spettacolo di balletto alla tv. Ed essermene innamorata perdutamente.

    Dicevo perfino che da grande avrei ballato di fronte alla Regina.

    I miei genitori coltivano e vendono verdura, e vendono anche il latte delle nostre pecore e le uova delle nostre galline (e mamma gestisce anche un B&B) e all’inizio non erano molto felici per me, così fissata con la danza, così insistente nel voler andare in una scuola a imparare a ballare come si deve, anziché essere come Carly, amare la campagna e amare il più inglese degli sport: l’equitazione. Ma io ho paura dei cavalli, lo confesso. Oh, li adoro, sono animali stupendi, ma un filino troppo irascibili per me.

    Io preferisco le forme armoniose della danza, comandare un corpo che è il mio e non quello di una creatura gigantesca.

    Così, alla fine – avevo suppergiù quattro anni –, i miei genitori mi hanno iscritto alla minuscola scuola di danza del paese, e la mia insegnante era la signora Butter. Una donna tanto tonda e morbida quanto era stata secca e spigolosa da ragazza. Butter come burro, di nome ma non di fatto: quella donna nell’insegnare ballo è tutt’altro che soffice, ma è stato un bene, quello.

    Le parole che ripete ogni giorno sono: Una ballerina comincia la sua giornata sulle punte, e la finisce sulle punte. Ovvero: la fatica inizia appena scese dal letto e termina solamente quando è l'ora di andare a letto.

    È vero.

    La signora Butter mi ha fatto capire che la danza è bellezza e armonia intrisa di profonda fatica e assoluta devozione. I nostri pensieri devono sempre essere per il danzare: c'è spazio per ben poco altro nella vita di una ballerina perché la danza ti nutre e ti consuma al tempo stesso, ma ti ripaga infine, anche se la strada è molto lunga e faticosa e non sempre facilmente percorribile. Per ogni obiettivo raggiunto, se ne prospetta un altro subito dopo, e raggiungere la perfezione è impossibile, ma è questo ciò che fa andare avanti lo spirito di una ballerina. Amo questo tipo di fatica, adoro sentire l’adrenalina scorrermi nelle vene, i muscoli tendersi, il continuo perfezionarsi, la concentrazione. Sentire il mio cuore che batte, sentire il mio corpo faticare per darmi ciò che gli sto chiedendo, sempre di più.

    Alzarmi sulle punte, girarmi su me stessa dritta come un fuso, fare dei salti che sono come volare, eseguire tendu e battement alla perfezione, insieme a tutte le altre figure classiche del balletto. Tendere il piede in un'unica lunga linea dritta dall’anca all’alluce.

    E finalmente è giunta l’ora, il mio sogno di fare della danza il mio unico scopo nella vita si sta per avverare come nella più bella delle favole: ho l’opportunità di studiare balletto classico al Clifton Conservatoire of Music and Dance, a Londra, grazie proprio alla signora Butter che mi ha fatto avere un provino la primavera scorsa, perché ha visto qualcosa di speciale in me, un talento che, se coltivato giorno dopo giorno, senza alcuna distrazione, potrà darmi tantissime soddisfazioni. Mi ha detto che, se m'impegnerò seriamente, potrò fare della danza il mio mestiere, anche se chiamarlo mestiere è enormemente riduttivo. E quando a inizio estate dall’Accademia mi arriva la lettera che sono stata accettata per il loro triennio, con una borsa di studio e un posto in uno dei loro dormitori, non mi pare vero. Dopo tutta la fatica che ho fatto per imparare, perfezionarmi e dare tutta me stessa alle lezioni e al provino, e rinunciare praticamente a tutto, posso dire che sto per toccare la cima. Sto per mettere piede all’interno di una delle Accademie di Danza più prestigiose e importanti del Paese.

    E nel frattempo continuare anche con il liceo, e diplomarmi.

    Non mi importa della fatica, del tempo che non avrò più, del doppio impegno. A me interessa solo danzare, e se posso farlo solo così, con tutti questi sacrifici, mi sta benissimo.

    Il Clifton, sono sicura al mille percento, sarà la cosa più bella e eccitante che mai mi capiterà nella vita.

    Il passo successivo all’ammissione è quello di convincere i miei genitori a mandarmi a vivere lontano da casa, ma neppure così tanto, alla fine: un’ora di macchina, forse meno, e solo poco di più con il treno. Posso benissimo tornare alla fattoria ogni fine settimana. Il problema però è: come incastrare il liceo con l’Accademia?

    Mamma e papà sono dell’idea che la vita là fuori – secondo il loro pensiero, chiaro – è troppo pericolosa. Per loro Londra è sinonimo di rischio costante e i dormitori dell’Accademia qualcosa di innominabile. Sono sicuri? Di notte le porte sono ben chiuse a chiave? Sono solo femminili o promiscui?

    Insomma, un posto decisamente non adatto a un'ingenua ragazzina di campagna come posso essere io.

    Ma alla fine capiscono quanto sia davvero importante per me studiare danza in modo serio e cedono, dandomi il permesso di frequentare l’Accademia, e proseguire il liceo come privatista. So di poter contare sui miei genitori, sono persone meravigliose – anche Carly ci ha messo del suo, aiutandomi a convincerli a mandarmi a studiare in città. Le sarò grata per sempre.

    L’unica cosa non sindacabile, per poter andare a Londra, è che non andrò a stare al villaggio degli studenti, ma abiterò presso la vecchia zia di un’amica d’infanzia di mamma, cosicché io possa essere tenuta sott’occhio. Oh, ma non per sfiducia da parte dei miei genitori nei miei confronti, ma perché sono davvero preoccupati che la loro figlia più piccola possa vivere da sola, per di più minorenne, in una metropoli come Londra.

    Ma devo dire una cosa in loro onore: i miei genitori, acconsentendo a mandarmi al Clifton, ci hanno visto lungo: hanno compreso che se dovessi restare a casa, nelle campagne vicino a Dartford, Kent, sarei infelice per sempre. Certo, finito il liceo mi iscriverei alla North Kent College, per laurearmi in qualcosa che non mi darebbe le stesse soddisfazioni che avrei di sicuro con la danza, e nel frattempo continuerei a studiare ballo nella scuola del paese, a seguire i corsi della signora Butter. Tuttavia dovrei dire per sempre addio a una possibile vita professionistica nel balletto, e il massimo a cui potrei aspirare sarebbe sostituire in futuro proprio la signora Butter e insegnare danza a un branco di ragazzine dai quattro ai vent’anni anni (o poco di più), e a qualche adulto nei corsi serali, per il resto della mia vita, rimanendo per sempre inchiodata in campagna in una pelle che non è la mia.

    ***

    E tutto questo accadeva due anni fa.

    Ora il terzo e ultimo anno al Clifton è arrivato e con esso – ancora non riesco a crederci – il mio tanto sospirato trasferimento al villaggio degli studenti, a vivere per conto mio e pelle a pelle con altri studenti danzatori come me, quasi come in una serie tv – serie tv che peraltro non guardo mai, per mancanza di tempo.

    A giugno mi sono diplomata al liceo con il massimo dei voti. Ho passato l'estate a esercitarmi ancora, e ancora, nella danza.

    E settembre arriva sulle punte, e non potrei essere più felice di così. Il dieci ho compiuto diciotto anni e la mamma mi ha organizzato una festa incredibile, invitando praticamente tutto il paese, e poi ha detto, con gli occhi a stelline, che se ho pensato che quella è stata una festa grandiosa, allora aspettare di vedere quella che mi organizzerà il prossimo giugno, quando – ne è sicura al mille percento – sarò una diplomata della Clifton Academy!

    Ancora non riesco a credere che tutto questo stia accadendo a me. Ora penso di capire cosa ha provato Cenerentola quando, calzando la scarpetta di cristallo, ha realizzato che quel prezioso oggetto era unico e perfetto per lei. Come una scarpetta da punta perfettamente modellata.

    L’Accademia ha riaperto i battenti dopo la pausa estiva. Domani il treno mi porterà a Londra e la mia nuova fantastica vita da maggiorenne inizierà nel migliore dei modi. Sono gasata a mille, euforica e impaziente, e nulla potrà distrarmi dal mio impegno a diventare una ballerina indimenticabile.

    STAGIONE AUTUNNALE

    capitolo uno

    Julian

    Cammino svelto lungo la via affollata, la testa bassa, il passo sicuro. Non guardo nessuno, non sento niente. Sento solo la musica che aleggia ancora nella mia testa dopo le lezioni di oggi.

    La musica abita in me, mi sostiene e mi dà ossigeno.

    La musica incendia il mio animo, e mi fa stare meglio. Sempre.

    Sono appena uscito da scuola, e prima di tornarmene a casa faccio una puntatina nel West End, in Denmark Street, per andare al negozio Angel Music – dove vedo un vinile di Morrissey che manca alla mia collezione di dischi vintage e me lo prendo – e dopo per fare un salto al Music Room a prendere un arco nuovo e un barattolo di Hidersine, che l’ho quasi finito.

    Amo questa zona di Londra e questa via così popolare e importante per l’industria musicale britannica, con tutti i suoi negozi specializzati, gli uffici di editoria musicale e gli studi di registrazione. È stato papà a farmi conoscere questa strada quando ero poco più di un bambino e da allora, evidentemente, non ho smesso d’amarla.

    Raggiungo la tube station di Tottenham Court Road per prendere la metro e tornare a casa. Se non fossi così affamato mi fermerei alla stazione per eseguire qualche Movimento – è più forte di me: adoro suonare in ogni dove. Mi piace pensare di essere come mio padre quando ha iniziato a esibirsi in pubblico a diciassette anni, quando suonava nei locali e, qualche volta, anche per strada. Mi piace l'idea che mi possano ascoltare anche quelle persone che non possono permettersi di andare a teatro, per il concerto di un'orchestra sinfonica –, ma sono quasi le sette di sera e piove, tanto per cambiare, e oltre che di cibo ho anche voglia di una bella doccia bollente: del sole non si intravede manco un minuscolo raggio e mi sento intirizzito fin nelle ossa! Il termometro digitale della stazione annuncia quindici gradi.

    Sbuffo. Che cliché: essere a Londra da neppure tre giorni ed essersi beccati la pioggia per… tre giorni. Naturalmente. È oggi è pure lunedì: che combinazione scontata, pioggia più inizio settimana. Come a dire: se il buongiorno si vede dal mattino…

    Salgo sul vagone dalle porte rosse, trovo un posto su uno dei sedili in plastica gialla e mi volto per guardare fuori dal finestrino sporco. Il muro costeggia il vagone della linea underground, e mi perdo nella musica che ancora mi riecheggia nella testa.

    Alla stazione di Ealing Broadway scendo, per cambiare e dall’underground passare alla Docklands Light Railway, la metropolitana leggera. Alla fermata di Shadwell guardo il cielo: il pesante color ferro non promette nulla di buono neppure per domani. Vabbè, chissenefrega. Se l’essermi trasferito qui deve implicare anche l’avere il bel tempo in continuazione, tanto valeva se me ne restavo in America, e dalla costa Est trasferirmi semplicemente in quella Ovest. A poche ore di volo da New York e da… mia madre.

    Naaa. Preferisco mille volte Londra e la sua pioggia, piuttosto che Los Angeles, il sole perenne e la consapevolezza d’avere mia madre a poche miglia di distanza. Praticamente alle costole.

    Qui, nella cara vecchia Europa, invece le miglia di distanza fra di noi sono decisamente più consistenti e, tolte le rare volte le quali lei è a Parigi, di solito è lontana da me parecchie ore di volo – considerati tutti i suoi impegni di lavoro –, il che è un bel vantaggio.

    Capiamoci: voglio bene a mia madre, e che cazzo, è pur sempre mia madre, ma è il comportamento che ha tenuto qualche anno fa con mio padre che me l’ha fatta detestare un po', e anche se poi lui l’ha perdonata, e sono tornati insieme dopo il divorzio, lei comunque resta per me la donna che lo ha mollato, facendolo rimanere di merda per anni e, soprattutto, lasciandolo da solo quando lui ha scoperto di essere malato.

    Inoltre fra me e mia madre non scorrono più buoni rapporti anche per ciò che è successo l’anno scorso, per quello che ho fatto e per ciò che è accaduto in seguito, ovvero l’espulsione dal Conservatorio di New York e l'overdose, e per come lei lo ha scoperto.

    Per ciò che ero diventato anche per colpa sua.

    Non so se è più incazzata con me per quei motivi, per essere stato espulso dalla scuola – ovvero: come buttare nel cesso una brillante carriera –, perché ero diventato un drogato oppure, semplicemente, perché assomiglio parecchio a mio padre.

    E non solo fisicamente. Spesso, quando è infuriata, mi sputa addosso che sono uguale a lui. E lo dice con gli occhi lucidi. Cazzo, lo so che le manca. Lo so che lo amava, che lo ama ancora. Ma lo ha lasciato comunque, lo ha mollato perché lui era una fottuta rockstar e lei ne aveva le tasche piene di rimanere a casa da sola – in una penthouse di due piani che dà su Central Park – con due marmocchi da guardare per dieci mesi all’anno, quando lui girava il mondo per i concerti o per altri impegni legati al lavoro. Anche se lei, in verità, da sola con due marmocchi c’è rimasta molto poco considerato che era una super top model dell’agenzia Élite e a casa avevamo governanti, babysitter e simpatiche ragazze alla pari che si occupavano di me e di mia sorella Jasmine al posto suo.

    Mia madre e mio padre si conobbero qui a Londra, quando lui era solo uno sconosciuto cantante di pub mentre lei, già modella di discreto successo, faceva servizi fotografici per alcune riviste di moda. Poi la fama, quella autentica, scoppiò prima per lui, e in seguito anche per lei – fama che le fruttò un contratto con parecchi zeri presso la suddetta agenzia Élite – e insieme si trasferirono in America, salutando definitivamente l’Europa, tranne per quelle rare volte che tornavano per andare a trovare i rispettivi genitori: lui a Londra e lei a Parigi.

    Va detto che mia madre proviene da una famiglia parigina di nobili origini, piuttosto facoltosa, e i nonni non erano stati per nulla felici di quella unione. Sostenevano che la loro unica figlia non poteva di certo legarsi per sempre con quel misero cantante di strada, e che si stava gettando via. E infatti Jasmine e io i nostri nonni materni li conosciamo poco o niente. Loro non volevano avere nulla a che fare neppure con noi, i loro unici nipoti.

    Ma erano anime gemelle, i miei genitori, impossibili da separare, e neppure l’ostracismo di Monsieur e Madame D’Harcourt vi riuscì; mio padre lottò con le unghie e con i denti per difendere il loro amore dalle malelingue della gente. Scrisse per lei la sua canzone più famosa, Magnetic, una vera dichiarazione d’amore, e in seguito gliene dedicò molte altre. Lei era la donna che avrebbe amato fino alla fine dei suoi giorni. E così è stato.

    Ma poi lei lo ha lasciato. Si è messa con un coglione.

    Lui ha scoperto di essere malato.

    Lei è tornata sui suoi passi.

    Ma era troppo tardi.

    Mia madre è tornata da mio padre che le viole stavano sbocciando. Mio padre è morto poche settimane dopo.

    E io e mia sorella Jasmine ne siamo usciti devastati, ma se Jazz è riuscita a superare il lutto, io ho combinato solo delle cazzate, una dietro l’altra e sempre peggiori, fino all’ultima, quella che, alla fine, mi ha condotto qui.

    Basta, mi impongo di pensare ad altro. Ho fatto tutto il viaggio in treno elucubrando sulla parte triste del mio passato, piuttosto che concentrarmi sul presente e sulle belle ragazze inglesi che mi circondano. Una di loro, seduta a pochi metri da me su questo vagone sferragliante, ha i capelli viola, un piercing al labbro e un vestito così corto, nero, e le gambe così nude che mi chiedo come faccia a non ammalarsi. Le ragazze di Londra, autoriscaldanti.

    Faccio rimbalzare lo sguardo dalle belle gambe della pollastrella, e dalle pesanti stringate Dr. Martens che ha ai piedi, al paesaggio che mi circonda: stiamo attraversando Canary Wharf, il che significa che ho ancora un quarto d’ora di viaggio e sono arrivato.

    Quando torno a posare gli occhi sulla pollastrella, che ha notato come le lumavo le gambe, lei indica con il mento la custodia nera che tengo in grembo. «Sai suonarlo o lo usi solo per rimorchiare?» ammicca. Ha un forte accento cockney.

    «So suonarlo. E lo uso per rimorchiare,» e le faccio un sorrisetto sghembo. Lei, del mio accento, non può dire nulla. Sia io che Jazzy, infatti, non abbiamo l’accento tipico americano grazie sia alle scuole private che alle già menzionate governanti e baby-sitter, rigorosamente europee, e grazie anche a una madre perfezionista perfino sulla nostra parlata. Tutto questo ai fratelli Anderson ha tolto qualsiasi cadenza e influenza possibile.

    La ragazza stira le labbra in un sorriso divertito. «Oh, oh. E lo suoni spesso?»

    «Sì. Quando non sto scopando,» ribatto, e lei scoppia a ridere.

    Quindi, ultimamente, lo sto suonando sempre, considerato che ormai sono ben sei grassi mesi che non scopo più.

    Esatto.

    Piuttosto deprimente.

    La pollastrella mi fa un sorrisone, mostrandomi un secondo gioiello che le orna la lingua e dice, maliziosa: «Oh, bel ragazzo, se tu fossi un articolo che mi interessa non mi farei scrupoli a non farti suonare, anzi, mi farei suonare volentieri da te,» e aggiunge, un secondo dopo: «ma hai qualcosa di troppo e due colline in meno.» Alzando le sopracciglia bionde si indica le tette.

    «Recepito il messaggio. Peccato. Ma se cambi idea, pupa, sono a disposizione,» e le faccio un occhiolino. Ride.

    Nei pressi della mia fermata, Greenwich, il distretto della città dove abito, mi alzo dalla scomoda seggiola del vagone, saluto con un bacio volante la bella ragazza che ricambia con un sorriso tutto denti e fossette e piercing, raggiungo l’uscita e all’apertura delle porte balzo giù dal treno con lo zaino a tracolla e la custodia sotto il braccio. Esco dalla stazione e la folla mi travolge, con i loro impermeabili e ombrelli fradici che mi urtano, bagnandomi, e mi ritrovo pure io sotto a una pioggia che nel tempo del viaggio è diventata torrenziale, e come un cane scuoto la testa a levarmi di dosso i pensieri cupi che mi hanno preso durante il tragitto in treno, fortunatamente mitigati dalla ragazza cockney.

    Non voglio più pensare a mio padre nei giorni della sua malattia. Non voglio più pensare al Julian che sono poi diventato, al baratro in cui ero sprofondato. Per fortuna gli unici appigli che avevo, la musica e mia sorella, quelli che mi hanno salvato l’anima e la vita, sono ancora accanto a me.

    Morirei, senza.

    Voglio pensare a mio padre quando ancora stava bene, quando era forte e vitale e cantava dai palchi degli stadi di mezzo mondo, infiammando le folle e facendo impazzire persone di ogni età.

    Mio padre era un cantante diventato famoso a soli vent’anni, e morto a quarantatré per una grave forma di leucemia.

    Attraverso la strada trafficata schivando un paio di taxi, che mi strombazzano dietro come a mandarmi a fanculo, e corro mentre la fredda pioggia inglese mi si rovescia addosso, come secchiate buttate direttamente sulla testa. E dall’uscita della stazione al primo riparo che scovo – un androne in pietra grigia di un elegante palazzo – passano diversi minuti e così molto in fretta mi ritrovo con i capelli bagnati e gocciolanti sul viso e il giubbotto fradicio che sembro appena uscito da una nuotata nel Tamigi. Ma fortunatamente l’oggetto in assoluto più importante per me è ben celato sotto al giubbotto, ben asciutto nella sua custodia di pelle nera foderata di velluto rosso. Protetto come un pisello nel baccello.

    Arrivo a casa che sono le otto di sera passate da un po’, e la mia fame è decisamente aumentata: il primo giorno nella nuova scuola chissà perché mi ha messo addosso un appetito da lupi. Decido di ordinare al giapponese un sacco di roba, ma me la faccio portare più tardi, così ho tempo di farmi la doccia in attesa dei viveri.

    Abito da solo, posso fare e gestirmi come cazzo mi pare. Anche se ho fame posso decidere di cenare alle nove e andarmene a dormire a notte fonda, se mi va. Come se potessi scegliere, poi: ormai sono quasi due anni che prima delle due e mezza/tre del mattino non riesco ad addormentarmi. Gli strascichi della vita balorda che ho iniziato a fare quando mio padre è morto. Non dormo un cazzo la notte, riposo poco o niente durante il giorno. Mi consola il fatto che domani ho lezione alle undici – seguendo i corsi per il master, ho degli orari piuttosto flessibili; fortunatamente mi hanno espulso dal MSM dopo essermi già laureato – e posso prendermi il lusso di poltrire almeno fino a alle nove, se mi va.

    Cosa che poi non succede. In preda alla mia solita febbre musicale, alle sette del mattino sono già sveglio come un grillo a suonare il Primo movimento del Concerto per violino opera 64 di Mendelssohn, e le note, come sempre, escono dal mio prezioso Leipreachán, il Guarnieri del Gesù che mio padre mi regalò al mio settimo compleanno, in occasione del mio concerto di debutto con la New York Philharmonic.

    Mia

    La sveglia a forma di usignolo trilla, ma non fa il suo lavoro poiché io sono in piedi già da un bel po’, talmente sono agitata. La data di domani, quattordici settembre, è segnata in rosso sul calendario del Royal Ballet, appeso al muro sopra al comò. Ho il batticuore perenne al pensiero che da domani la mia vita cambierà ancora, grazie anche alla stanza che mi aspetta al villaggio degli studenti del Clifton, e tutto è pronto anche se vedo, rovistando nel mio capiente borsone blu, che all’appello mi manca ancora il kit per cucire le scarpette da punta. Cavoli, non voglio andare a Londra con una borsa raffazzonata perciò, quasi a rotta di collo esco dalla mia cameretta e scendo le scale di casa per andare a cercare mia madre, a chiederle se ci ha pensato lei.

    La trovo in cucina, dove entro come una furia affannata. Mamma è sempre stata mattiniera, ma in campagna è difficile essere altrimenti, con tutte le cose che bisogna fare prima che il nostro galletto, che ho chiamato Paco, canti a squarciagola!

    Ma sono già le otto passate, e l’alba è passata da un bel pezzo.

    «Mamma, sei mica passata dalla signora Kitty per prendere il kit da cucito?» le chiedo trafelata, appoggiandomi con le mani e il busto al pesante tavolo in noce. Alcune ciocche di capelli sfuggono alla treccia che mi sono fatta questa mattina dopo la doccia, e mi solleticano il viso e le labbra. Le scosto con stizza.

    Se non fosse che le ballerine classiche vengono meglio sul palco se hanno una chioma lunga ben acconciata, me li sarei già tagliati.

    Mamma smette di montare la panna e mi guarda con espressione colpevole.

    «Oh, no, tesoro. Scusa, mi è passato di mente.»

    Vabbè. Ho una buona scusa per uscire di casa. Sorrido alla mamma, rubando una mora dalla ciotola posata accanto al cartone vuoto della panna liquida. «Non importa, vado io fino in paese, a prenderlo.» Mamma ricomincia a muovere energicamente il frullino a manovella con il quale monta la panna.

    «Scusa, devo ricominciare altrimenti mi si smonta, e poi con cosa la preparo la tua torta di buon viaggio verso Londra?» esclama radiosa mentre torna a girare la piccola manovella e a far muovere le fruste con forza e velocità, e far gonfiare come una nuvola il liquido bianco nella ciotola di vetro.

    Ridacchio. «Allora, mamma, ti perdono questa dimenticanza solo perché mi stai facendo una torta. Ci vediamo dopo.»

    «Mia!» Sono già sulla porta d’uscita della cucina, senza passare per l’ingresso principale della casa, quando mamma mi chiama.

    «Dimmi.»

    «Prendi la macchina?»

    «Mhmm… In realtà pensavo di no. Pensavo di più alla bici, considerato che non piove.» Affondo le mani nelle tasche della mia felpa rosa con i lustrini. «Hai bisogno che la prenda?»

    «Mi faresti un piacere, tesoro.» E il frullino per montare la panna si ferma nuovamente. «Potresti passare dai Thorton a prendere un po’ di quelle loro formaggette di capra?»

    Sbuffo, poiché non ne ho assolutamente voglia. Non per i Thorton in sé, la famiglia è okay, ma perché il loro figlio minore, Bradley – di due anni più vecchio di me – è colui che si è preso la mia verginità quando avevo sedici anni, e fu una cosa piuttosto deludente, e l’idea di vederlo mi manda la pancia sottosopra. Oh, ma non per via delle famose farfalle nello stomaco e tutte quelle cavolate lì da teenager da commedia americana, ma perché rivederlo mi scatena sempre il ricordo di quanto sia stata triste e insoddisfacente, in tutti i sensi, la mia prima volta, e ora che sono così super gasata all’idea che domani mattina partirò per Londra per l’ultimo anno all’Accademia, non ho voglia di farmi guastare tutto questo entusiasmo rivedendolo.

    Ma la mamma non sa che è stato Bradley, la mia prima volta.

    E non mi metto di sicuro a dirglielo ora.

    Così metto su la mia faccetta più gentile, e annuisco. Per andare dai Thorton bisogna fare un pezzo in salita e in effetti, con la bicicletta, non è del tutto l'ideale. Meglio l'automobile. «Okay, ma’. Rosa Thorton te le ha già preparate?»

    «Sì. Ha detto che ne metteva via qualche forma. Chiedi a lei.»

    Cielo, grazie! Almeno posso evitare di parlare con Bradley. Anzi, magari sono fortunata e lui è via, per i pascoli o a farsi un giro per la brughiera con il fidato setter Break.

    Prendo la nostra piccola utilitaria rosso ciliegia per andare in paese, e per recarmi alla fattoria dei Thorton. La macchina è vecchiotta e scalcagnata, ma funziona ancora alla grande, quantomeno per fare quelle poche miglia che separano casa nostra dal centro di Bean.

    Il paese è minuscolo, ma possiede tutto quello che serve: il minimarket, una libreria grande come un francobollo, il bar-pasticceria di Sandy e la merceria – oltre che una scuola elementare e l’enorme stanza a essa appiccicata dove la signora Butter tiene le sue lezioni.

    Parcheggio la macchina lungo il bordo del parco – chiamarlo così è una esagerazione, nemmeno fosse Central Park, ma anche se piccolo è carino da matti, con il bel lastricato al centro che è l’ideale per ballare – e mi avvio su per il marciapiede verso la merceria.

    Quando entro nel negozietto dell’ottuagenaria signora Kitty il tintinnio del campanellino alla porta si fa sentire con vigore. Nella stanza la luce illumina centinaia di minuscoli granelli che danzano leggeri nell'aria.

    Sui vetusti scaffali ci sono metri e metri di stoffa dei più svariati colori che ha un inconfondibile odore polveroso; a lato, piccoli scomparti custodiscono rocchetti di filo e bottoni di ogni forma, materiale e colore. L'odore antico di questo negozio mi investe il viso e mi riempie l’olfatto.

    E poco dopo la signora Kitty, che anche se anziana è ancora piuttosto arzilla, fa la sua comparsa dietro al pesante e vissuto bancone in legno, usurato da anni e anni di onorato servizio. È qui che mamma ha comprato la stoffa per confezionare il primo tutù della mia vita, quando ero una bimbetta di soli quattro anni. Il primo di una lunga serie.

    La proprietaria del negozietto mi vede e mi fa un gran sorriso. «Mia! Cara ragazza, pronta per Londra?» Si posiziona di fronte a me, al di là del bancone e mi sorride materna. «E che bella che è stata la festa di compleanno che ti ha organizzato la mamma! Lisa è così fiera di te, come tutti noi in paese.»

    «Grazie, signora Kitty.» Arrossisco un poco a queste belle parole. Poi mi riprendo, allegra: «Sì, sono prontissima per Londra! E a questo proposito sono venuta a ritirare quei kit da cucito…»

    «Sì, i tuoi soliti, quelli per le scarpette. Li ho qui, pensavo venissi tu, o la mamma, a ritirarli in giornata. Oppure Carly, ho visto che sta così bene, la gravidanza procede a meraviglia!»

    «Sì, sta finendo il primo trimestre ed è al settimo cielo.»

    «Che bello. Comunque, ecco qui il tuo set per cucire,» e mi porge il kit, racchiuso in una elegante busta in lana cotta grigio perla, decorata a fiori in rilievo, e colma di tutto ciò che mi serve per il rammendo delle scarpette da punta, più alcuni metri di nastro rosa, in modo da averne a sufficienza per un po’ di tempo.

    «Grazie.» Sbircio all’interno del sacchetto di seta all'interno della busta in lana; mi pare tutto a posto. Ma la signora Kitty non può sbagliarsi in questo, poiché è lo stesso kit da cucito che la signora Butter le commissiona da più di venticinque anni, per sé o per le proprie allieve fra cui io, fino a ora.

    «Quanto le devo?»

    «Nulla, cara. È un regalo che ti faccio per questo tuo ultimo anno in Accademia. Sei così piena di talento, siamo tutti orgogliosi di te.»

    Sento di arrossire a queste sue belle parole. «Grazie, signora Kitty.»

    «Arrivederci cara, e in bocca al lupo per Londra!»

    Ringraziandola ancora, e salutandola con la mano, esco dal negozietto e, prima di raggiungere la macchina per andare alla fattoria di Bradley, faccio una piccola deviazione e mi dirigo alla scuola di danza.

    Dovrebbe esserci una lezione.

    E infatti è così: lì, a sgambettare come forsennate, ci sono tre ragazzine di dieci anni, che appena mi vedono smettono di fare le piroette nei loro minuscoli tutù rosa e mi corrono incontro.

    Sarah Butter le segue con un dolcissimo sorriso stampato in viso.

    «La mia ballerina più promettente!» esclama, mentre le tre bimbette mi saltellano attorno, entusiaste ed eccitate ad aver così vicino una vera ballerina. Mi adorano. Be’, io adoro loro. Sono fantastiche, e così determinate nel balletto, anche se poco portate. Ma non importa, loro se la spassano ed è questa la cosa più importante, per queste ragazzine. Se non puoi farne un mestiere, allora la danza falla divertendoti!

    La mia ex insegnante mi mette le mani sul viso. «Mia, non puoi immaginare la gioia che ho nel cuore in questo momento. E il tuo ultimo anno all'Accademia sarà indimenticabile. Goditelo, e pensa al fatto che sarai studentessa ancora quest'anno. Dopo non lo sarai più: sarai una professionista.»

    Mi sciolgo. «Oh, signora Butter, lo spero tantissimo!» È così: il mio cuore batte all'impazzata a un pensiero del genere.

    «Sì, tesoro. Sono sicura. Te lo prometto,» e, stringendomi le guance sotto ai palmi freschi, mi sorride piena di calore, sicura al cento percento di ciò che ha detto.

    E se mai avrò successo, molto lo dovrò a lei, al suo spingermi ogni giorno a dare e fare di più, a spingermi oltre i miei limiti, a non cedere mai alla debolezza e non piegarmi di fronte alle difficoltà.

    «Ricorda, Mia: se vuoi ballare ai massimi livelli, l'impegno che ci metti non è mai abbastanza.» Ha ragione. E non la deluderò.

    E dopo aver salutato la mia cara ex insegnante di danza, e aver ricevuto in regalo dalle piccole allieve un nuovissimo paio di scarpette da punta, torno alla macchina e vado, seppur controvoglia, alla fattoria dei genitori di Bradley.

    E la fortuna non mi aiuta.

    Brad è lì, nel cortile, intento a guardare poco convinto un rimorchio per le mucche. Forse perché la ruota posteriore è completamente sgonfia?

    Parcheggio a lato dello steccato che delimita il laghetto delle oche. Brad si volta verso l’auto e quando vede che sono io quella che scende dalla Austin rossa – e non, magari, mia madre o Carly – cambia completamente espressione, e mi viene incontro con un sorrisone.

    «Mia, ciao! Sei passata per quelle formaggette? O per salutare me?» E alza le sopracciglia in modo fastidiosamente allusivo.

    Reprimo una smorfia.

    «Formaggette,» dico solo.

    Bradley mi fa un sorrisetto a tre quarti. «Scusa, pupa, se non sono passato alla tua festa, l'altra sera, ma a Grays c'era una rassegna di caproni Golden-Guernsey e non potevo perderla. Sai, caproni da monta...» e alza ancora le spesse sopracciglia biondicce, ma ha un tic per

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