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La voce del puparo
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E-book244 pagine3 ore

La voce del puparo

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Info su questo ebook

Torino, 1901. Le voci parlano di un disertore piemontese fidanzato con la figlia del grande Kruger, presidente dello stato boero. Che siano vere? Un grattacapo per il sottosegretario Jung. Bisogna indagare e di corsa. Ma il viaggio verso il Sudafrica è un'odissea a cui pochi sopravvivono. Fortuna sua, è rientrato dal Siam l'agente perfetto: spietato, determinato ma soprattutto disperato. Bisognerà tenere duro per uscire dal Transvaal vivi e con un po' di verità tra le mani.
LinguaItaliano
Data di uscita23 apr 2021
ISBN9791220333702
La voce del puparo

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    Anteprima del libro

    La voce del puparo - Matteo Marchisio

    pochi

    I- Cose segretissime

    Il cappuccio si spostò per un attimo.

    L’uomo intravvide una carrozza. Una Brougham, nera, senza marchi, legno opaco. Le sospensioni a balestra erano schiacciate, lucide di grasso.

    Un vetturino tarchiato, con un dito infilato nel panciotto fumava tenendo il mozzicone all’interno del palmo tra anulare e pollice.

    Rivolse all’uomo e ai due civich che lo stavano reggendo sottobraccio un’occhiata decisa.

    Uno dei civich rallentò il passo, tirandogli brutalmente giù il cappuccio che si era spostato abbastanza da liberargli gli occhi.

    Nel compiere quel gesto lo graffiò con le unghie, provocandogli un lungo taglio sottile dal naso al labbro superiore. Alcuni peli di barba gli si infilarono nella ferita.

    Ripiombò nell’oscurità in cui era rimasto da quando l’avevano tolto dallo stanzino in cui lo avevano incarcerato.

    I due lo sollevarono e si sentì tirare nella vettura.

    Partirono al trotto.

    L’acciottolato era lineare, segno che stavano muovendosi per le vie dei quartieri più antichi, con il porfido levigato. Colse qualche bisbiglio nell’abitacolo della carrozza, l’odore acre di aliti acidi e quello di tabacco da masticare.

    Gli parve che le voci fossero diverse da quelle dei civich che lo avevano trasportato.

    Tornò con la memoria alla cella, diversa da quelle note a tutti nel piano interrato della caserma, molto più simile a una stanza di un postribolo: letto, comodino e catino con acqua.

    Era chiaro che i civich stessero usando locali non ufficiali delle Torri Palatine dimostrando l’aumento di potere del corpo.

    I civich, voluti dal conte Verde, Amedeo VI, avevano la truppa prelevata dai sottufficiali dell’esercito sabaudo e i graduati scelti tra i discenti della piccola nobiltà o della borghesia rampante del torinese. Nei secoli l’organico degli addetti all’ordine entro mura della cittadella di Torino, ribattezzata la Mandorla per la forma del perimetro difensivo di origine romana, era aumentato fino a prendere la forma di un piccolo esercito che operava esclusivamente per il Municipio.

    Il pomeriggio precedente l’uomo aveva varcato la soglia delle Torri Palatine, tramortito e in stato d’arresto.

    Era stato sospinto attraverso porte sbarrate che portavano in profondità in edifici all’apparenza civili, segno che quella parte di caserma si era sviluppata ramificata nel quartiere invece di rimanere relegata all’elegante palazzo ottocentesco noto come Torri Palatine, rivisitato durante la Restaurazione per volere di Carlo Felice, in cui il corpo aveva sede dal 1725.

    L’acciottolato su cui sta stava muovendo la carrozza si fece irregolare: tante pietre di varie dimensioni, terra battuta e sempre meno lastroni di pietra o porfido.

    L’andirivieni di Omnibus con le loro ruote di ferro più large e spesse del normale, che mordevano l’acciottolato era l’unico suono di vetture. Neanche un Landò o quegli stupidi calessini e padovanelle dei borghesi in centro.

    Il suono pasticciato di mucchi di foglie marce schiacciate e un vago sciabordio lo convinse che dovevano essere nei paraggi di Borgo Dora.

    La vettura si fermò.

    Mentre uno dei cavalli nitriva per una frustata, fu spinto fuori e di nuovo preso per le ascelle.

    Dall’eco di passi che rimbalzavano su soffitti alti capì di essere in un edificio.

    Aumentò il peso allungando le gambe perché fosse più complicato trascinarlo, rendendo le braccia due appendici molli. Dovevano avere imboccato scale per un piano superiore, perché le punte delle scarpe rimbalzavano su scalini di pietra.

    La scalinata doveva essere di marmo, con gli spigoli degli scalini levigati.

    I due si fermarono, ansimando.

    Il cappuccio si spostò tanto da fargli percepire un po' di mondo attraverso i punti dove il cotonaccio era mangiucchiato dai tarli.

    In basso notò scarponcini da uomo, usati ma di ottima fattura e pantaloni neri con una banda rossa parallela alla gamba. Realizzò di essere passato nelle mani di Carabinieri Reali.

    L’uomo li sentiva ansimare e all’odore di corpi poco lavati e abiti che non vedevano una risciacquata da secoli si aggiunse l’afrore di sudore fresco.

    –Giuda faus, ‘u peisa s’bastard…⁶– grugnì uno.

    L’uomo gioì, rendendo le gambe ancora più molli.

    Non percepiva più le braccia, preda di formicolio gelido.

    I due carabinieri strinsero la morsa agli avambracci e sotto le ascelle, e ripresero a camminare.

    Di colpo fu messo a sedere, ma la stretta rimase salda.

    Regnava un senso di vuoto artificioso.

    Dalla serie di suoni umidi di labbra mosse per comunicare solo con il loro movimento, comprese che dovevano esserci altri individui.

    Mollarono la presa e l’uomo dimenticò ogni cosa, subendo il dolore del sangue che fluiva di nuovo nelle appendici.

    Due paia di tacchi sbattuti anticiparono l'uscita dei portantini.

    Quando il cappuccio gli fu rimosso si ritrovò in una sala anonima.

    Qualche scansia di mogano con faldoni di carta legati con nastrini di cotone, piastrelle di cotto sul pavimento e una scrivania di legno con poche decorazioni.

    L’uomo era seduto su una sedia dalle imbottiture consumate, borchiata da chiodi dalla testa dorata che trattenevano rimasugli di velluto.

    Uno sconosciuto di mezza età sedeva compito su uno scranno oltre la scrivania, soppesando il cappuccio che fino a poco prima gli aveva coperto la testa.

    Fissò l’uomo negli occhi.

    Lo sconosciuto aveva il fisico asciutto, una barba folta ma curata sul viso e i capelli di pochi centimetri. L’abito civile era poco vistoso per il miscuglio di colori che coinvolgevano varie tonalità di grigio scuro, ma di fattura sublime.

    Posò l’indice su un plico di fogli, portandolo verso di sé, poi umettò lo stesso indice e voltò la prima pagina.

    Lesse in italiano, con l’accento torinese che si mostrava giusto per le sibilline.

    –Tenete d’artiglieria Bartolomeo Martinengo. Nato a Fossano il quindici agosto del…

    Lo sconosciuto aspettò una reazione nell’arrestato, che non arrivò.

    –Siamo con l’uomo sbagliato? – chiese, come se ci fossero altre persone nella stanza.

    L’uomo fissò lo sconosciuto.

    –1866 – scandì lentamente.

    Lo sconosciuto riprese la lettura.

    –Diplomatosi tenente del 5º Reggimento artiglieria terrestre Superga alla scuola di specializzazione di Pinerolo nel luglio1891. Poi addetto militare accreditato presso l’ambasciata del Regno in Egitto, Cina e fino a una settimana fa…

    –Siam – borbottò Bartolomeo.

    Lo sconosciuto posò la pagina, infilandosi una sigaretta in bocca.

    L’accese, sfiorando con lo stesso zolfanello il foglio con le generalità di Bartolomeo.

    Mosse la carta affinché le fiamme aggredissero la celluloide e lasciò cadere quello che rimaneva della pagina sul pavimento.

    –Il rientro non è stato dei migliori – commentò lo sconosciuto.

    –Vero. Ad ogni modo: non ci conosciamo o sono in errore? – rispose Bartolomeo.

    –In effetti ha ragione. Sono l’ingegner Alfonso Marchetti-Contini, piacere.

    Bartolomeo si lasciò andare sullo schienale, aspettando che le cose procedessero come voleva lo sconosciuto.

    Per il momento si sarebbe accontentato dell’identità che gli aveva rivelato senza obiezioni.

    Da quando era tornato dall’ambasciata del Regno nelle Filippine, Bartolomeo aveva messo piede in casa una sola volta, considerando che la seconda era culminata con il suo arresto.

    Santina non l’aveva accolto come sperava, ma in fondo non era mai successo.

    Il solito sguardo vuoto, le solite mezze parole. L’aveva penetrata con un miscuglio di rabbia e senso di solitudine, lei come sempre aveva subito distaccata e supina mentre lui le schiacciava la testa sul pavimento. In quei momenti gli veniva sempre da ridacchiare. Lei, nulla.

    Non aveva mai, ma mai, dal giorno in cui l’aveva montata per la prima volta, fatto nulla che non fosse rivolgergli un’occhiata genericamente ebete, sofferente, con i sudori che colavano dalle tempie. Bartolomeo aveva ricevuto ogni tipo di espressione durante le scopate della sua vita, tranne da sua moglie.

    Quella volta, mentre cercava di abbottonarsi la camicetta, Santina aveva fatto qualche gesto e smorfia, fornendogli la ragione che cercava per schiaffeggiarla ancora un po’. Ogni volta gli sembrava di scopare una che sta cacando una pigna, due schiaffi di richiamo erano giustizia pura.

    Era uscito di casa a nemmeno due ore dal suo arrivo ufficiale.

    Il giorno dopo l’aveva trovata sul divano, intrisa di deiezioni non più contenute.

    I vicini erano entrati per la puzza, urlando al tentato omicidio e lui era finito in cella di sicurezza. Bartolomeo aveva sempre odiato la famiglia Bergman, sia per la assoluta mancanza di cortesia, sia in quanto membri della fazione ebraica.

    Qualcuno dietro di lui si mosse e Bartolomeo mise a fuoco un uomo.

    Doveva essere vicino all’età dell’ingegner Marchetti ma il corpo obeso, con il ventre prominente che sembrava voler distruggere camicia, panciotto e giacca, i baffi alla Vittorio Emanuele e i pochi capelli totalmente grigi gli davano un’aria molto più anziana.

    –Commendatore Jung – si presentò accompagnando le parole con un piccolo scatto della testa che ricordava l’accenno di un inchino. Prese posto nello scranno accanto a Marchetti.

    –Jung mi sembra un cognome giudeo – scandì Bartolomeo guardando in controluce una mano, studiando il bordo irregolare delle unghie.

    Jung strabuzzò gli occhi e gli si strozzò qualcosa in bocca.

    –Come osa? Prima di tutto si saluta il grado, poi la persona. Inoltre, come ufficiale di un paese civile, dovrebbe rispettare ogni uomo bianco e cristiano. Si scusi immediatamente – schioccò Marchetti con tono nasale.

    –Quanto astio immotivato. Era così, per dire. Tra i miei tanti pregi, ho quello di avere un fiuto naturale per i giudei. Avete sentito di quel Dreyfus che ha tradito nell’84? Un ufficiale ebreo fa già scandalo da sé. Che fosse d’artiglieria, per di più, è materiale da barzelletta. Sembra che i giudei abbiano una rete tra i potenti d’Europa, quale uomo di stato devo proteggere il Regno.

    –Lei lavora di fantasia – sbottò Marchetti.

    –Ma no, no. Davanti a una possibile minaccia diretta, l’intervento tempestivo scavalca perfino l’educazione, che peraltro non si deve alle zecche giudee – proseguì Bartolomeo scuotendo le spalle, fissando un punto a caso del soffitto.

    –Il suo atteggiamento è sconcertante. Ammesso che lei sia autorizzato a esprimere la sua opinione sul capitano Dreyfus, non è questa la sede adatta. Scriva a un quotidiano le sue riflessioni, magari le stampano e qualcuno ci si potrà pulire il culo – spiegò Marchetti, passando l’indice nel colletto inamidato per allargarlo di qualche millimetro.

    Bartolomeo fece vibrare le labbra schizzando saliva.

    –Ho i brividi. Mi spaventano di più i bottoni del panciotto del suo amico. Se partono e uno mi colpisce, ci rimango secco in questo ufficetto – rispose Bartolomeo sogghignando –Ad ogni modo lo farei, ma la stampa occidentale, lo sanno tutti, è giudea. Nessuno le pubblicherebbe, neanche per passarsele tra le natiche– aggiunse ancora, agitando la mano di taglio.

    –Non sono ebreo, devo calarmi i calzoni o vuole credere a un commendatore del Regno, tenente? – rispose Jung mostrando una dentatura irregolare in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso.

    –No, non serve. Mi scusi eccellenza. Comandi – borbottò Bartolomeo, gonfiando le labbra e guardando Marchetti e Jung di sottecchi.

    –Conosce il capitano Camillo Ricchiardi? – gli chiese Marchetti.

    Bartolomeo spostò lo sguardo da uno degli interlocutori all’altro.

    –Solo di fama.

    –Non credo. Avendo tre anni più di lei, tenente carissimo, dovreste averlo incontrato al Ginnasio nella vostra cara Alba, era ospite del Convitto Parrocchiale all’epoca, e poi a Pinerolo, qualche annetto dopo. – ribatté l’ingegnere sorridendo.

    La Scuola d'Applicazione di Cavalleria aveva fondato il concetto di equitazione moderna, figlia del metodo naturale del capitano Caprilli. Fondata nel 1823 con sede a Venaria Reale e spostata a Pinerolo nel 1849, per volere di Carlo Felice, accoglieva i membri della corte sabauda e allievi, ufficiali e sottufficiali, dell’esercito di Sardegna. Da Pinerolo uscivano i miglior cavalieri d’Europa, atleti di livello olimpionico in grado di dominare competizioni e campi di battaglia grazie all’assoluta sintonia con il proprio animale.

    Bartolomeo alzò il labbro inferiore, facendo spallucce.

    –Lo saprebbe riconoscere dunque? – lo incalzò Jung.

    –Si

    –E intrattenere una conversazione con lui?

    –Si

    –Ovviamente ai tempi della scuola non le avrà mai rivolto la parola. Lei, carissimo tenente Martinengo, era un parvenu di quel mondo. Anche io non avrei parlato con il figlio di contadini, entrato al Ginnasio come elemosina parrocchiale tanto era disgraziata la sua famiglia, all’accademia ufficiali grazie a uno zio e rotolato alla scuola di perfezionamento di Pinerolo, ça va sans dire, per caso – spiegò l’ingegnere, controllando con un occhio chiuso cosa albergava sotto le unghie della mano destra.

    Bartolomeo strinse gli occhi, cercando un contatto visivo che non arrivò da nessuno degli interlocutori.

    Ricordava la solitudine di quegli anni, la fame e la miseria di quando viveva con i suoi genitori, il freddo e la costante minaccia di ritornarvi quando era ospite del Convitto di Alba, dove ogni frase che gli veniva rivolta sembrava un regalo obbligato a un ospite non voluto.

    Alla scuola militare l’invidia verso i compagni di corso benestanti, con la pancia piena e il futuro già scritto lo aveva permeato fin da subito, penetrando così a fondo da diventare una struttura fondante del suo io, la madre della rabbia sottesa che lo animava.

    La rabbia degli invidiosi lo aveva fatto sopravvivere.

    La rabbia lo aveva fatto picchiare più forte negli spogliatoi e sopportare le piaghe per le ore di equitazione quando era a Pinerolo, devastanti perché in quanto figlio di pezzenti usava le selle dell’istituto invece di quelle di famiglia fatte a mano, come gli altri cadetti.

    La rabbia non lo aveva fatto impazzire quando non dormiva per evitare che lo prendessero di notte per incularlo.

    La rabbia gli aveva infuso la pazienza per aspettare il momento giusto per beccare i compagni di corso, prima della nomina a tenente: uno per uno, al buio per e rompere nasi, dita e orecchie.

    La rabbia gli aveva fatto imparare ogni cosa a memoria, in ogni ciclo scolastico: non era intelligente ma aveva sfondato la soglia minima di ogni concorso a testa bassa.

    La rabbia lo aveva messo in luce con gli istruttori giusti.

    Dopo l’accademia e il diploma a Pinerolo si era precipitato al servizio del Regno che lo aveva riempito di complimenti, abiti raffinati, roba da mangiare.

    Al Regno serviva gente in grado di fare cosa serviva, quando richiesto, senza domande.

    Bartolomeo aveva abbracciato la rabbia dell’invidia: l’aveva salvato e gli stava dando una vita inimmaginabile in cui gli si chiedeva di fare quello che il suo animo bramava.

    Vendetta, il più violenta possibile, verso il mondo.

    La rabbia lo aveva fatto sgozzare, stuprare e torturare chiunque fosse necessario ad acquisire ogni minimo avanzamento di carriera tra gli ufficiali del Regno dimenticati nelle ambasciate di paesi a settimane di piroscafo.

    Bartolomeo scosse le spalle.

    –Per ora lei è accusato di avere portato la moglie, Santina Spremulli, in coma per percosse. Un conto è battere la moglie, un conto è ucciderla. Le assicuro che le sue sorti dipendono esclusivamente dalla sua sincerità verso di noi, ça va sans dire – aggiunse Marchetti unendo i polpastrelli di entrambe le mani, fissando Bartolomeo negli occhi.

    Bartolomeo chiuse i pugni pervaso dalla rabbia, incurante di chi fossero davvero gli sconosciuti.

    In pochi secondi fu paonazzo.

    –Mi hanno fregato fin dal principio, quando erano andato a prendere moglie a Carini. Me l’avevano venduta come una Venere del Sud. In realtà mi sono ritrovato con un’asina sporca e indolente.

    –Secondo il medico era preda di una profonda commozione cerebrale. Forse erano giorni che non aveva comportamenti sociali degni di tal nome – spiegò Marchetti alzando le spalle.

    –E allora? Tutti sanno che le femmine del Sud si offendono facilmente. Credevo ce l’avesse con me. Ho provato a farmi dire qualcosa, ma rimaneva con gli occhi sbarrati su quel divanetto di merda. Neanche a schiaffi ha parlato – argomentò Bartolomeo.

    –Stando ai fatti, tenente, un uomo del suo talento non ha capito che la moglie era una demente catatonica a causa di un aneurisma e l’ha picchiata il giorno stesso del suo ingresso nel suo appartamentino. Senta questa: il 20 gennaio 1897, il colonnello Fracchia sparò alla moglie, fedifraga confermata, durante un processo per separazione. Un processo privatissimo, si capisce. Il cavalier Adami, mio amico personale e all’epoca giudice conciliatore, seppur noto a tutti come persona integerrima ma flessibile, dovette condannarlo in direttissima, nonostante gli eccessi della donna fossero noti e il temperamento del Fracchia fosse sempre stato esemplare in battaglia e nella vita politica. Le ripeto, non si faccia strane idee sugli sviluppi positivi che può avere la sua situazione.

    Bartolomeo

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