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E-book241 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Mentre la Francia intera sembra essersi quasi lasciata alle spalle l’incubo del terrorismo, dopo l’attacco al Bataclan del novembre 2015 e la strage di Nizza del luglio 2016, Parigi sembra non trovare ancora pace. 
Nonostante il 2018 segni un record assoluto di frequentazione turistica che sembra far ben sperare, nell’autunno di quello stesso anno cominciano le proteste dei Gilet Gialli.
È in questo clima di incertezza generale che scompare una ragazzina di 11 anni, Lily. Non è solo la polizia ad essere interessata al suo ritrovamento. 
Béatrice Blanchard, una giovane interprete, ancora non sa che di lì a poco la sua vita cambierà completamente. Quando viene ritrovato il corpo senza vita di Lily, per Béatrice comincia un percorso ad ostacoli per trovare l’assassino e al tempo stesso la redenzione per non essere riuscita a ritrovare la piccola sana e salva.
Finché non accade qualcosa di inaspettato che costringerà Béatrice a scoprire una verità che farà fatica ad accettare...
LinguaItaliano
Data di uscita5 mag 2021
ISBN9791220800600
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    Anteprima del libro

    Gioca con me - Nicoletta Bertacchini

    Nicoletta Bertacchini

    Gioca con me

    Gioca con me

    Nicoletta Bertacchini

    © Rudis Edizioni

    All rights reserved

    Editor-in-chief: Daniele Dell’Orco

    1A edizione – aprile 2021

    www.rudisedizioni.com

    rudisedizioni@gmail.com

    PREFAZIONE

    Altro non era se non un gioco. Un folle, sottile, sadico e subdolo gioco per mettere alla prova l’animo umano. Quei corpi indifesi e soli non sapevano che non avrebbero dovuto lasciarsi sopraffare dall’istinto. E le loro menti avrebbero dovuto restare lucide. Forse non avevano mai realmente pensato alle loro paure più oscure, perché avrebbero dovuto? C’era sempre stato qualcuno accanto a loro, i loro genitori.

    Non c’era motivo di preoccuparsi, qualsiasi cosa loro l’avrebbero allontanata, sarebbero stati protetti. Ma ora non c’era nessuno. Nessuno che potesse farli sentire al sicuro. Erano fuori dal loro habitat naturale, lontani da casa e dalle cose che conoscevano. Nessuno poteva aiutarli, e avrebbero dovuto affrontare tutto da soli. Sarebbero riusciti a essere forti?

    Avrebbero saputo gestire le loro emozioni? Sarebbero riusciti a vincere le loro paure?

    CAPITOLO I

    «Lily, la cena è pronta. Vieni a tavola», così Anne chiamava, dalla tromba delle scale, la figlia che era chiusa in camera sua.

    «No, non ho fame, non scendo!» rispose Lily quasi urlando.

    «Forza Lily, vieni giù, altrimenti mi costringi a venire a prenderti» le rispose la madre, che ormai conosceva bene quella prassi. Anche quella sera c’era qualcosa che non andava, ma quella volta lei già sapeva di cosa si trattava.

    Poco dopo si sentirono dei leggeri passi sulle scale e la bambina arrivò in sala da pranzo.

    «Ma che bello vederti, finalmente!» esclamò il padre, con un sottile tono ironico nella voce. Cercava di non intervenire mai per non peggiorare le cose, provava solo a stemperare l’atmosfera che si era già fatta cupa.

    I piatti erano già pieni ma Lily sembrava non voler decidersi a mangiare.

    «Dimmi Lily, come mai non hai fame neanche oggi? È successo qualcosa di grave o di brutto?» cominciò Anne, rompendo quel silenzio pesante. Si rivolse alla figlia con un tono gentile, lo faceva sempre. Provava a essere delicata, sperando che così l’avrebbe messa a suo agio e avrebbe ottenuto qualche risposta. Ma quel giorno il suo umore era peggiore del previsto.

    «Non ho fame e non voglio mangiare. Ho di nuovo preso una nota a scuola» ammise lei, palesemente seccata.

    Anne lasciò che fosse François a parlare.

    «E come mai ti hanno dato una nota?» chiese il padre, anche se tutti già conoscevano la risposta.

    «Avevano organizzato uno di quei tornei scolastici di atletica con esercizi alle spalliere e io non volevo partecipare.» Calò il silenzio, nessuno dei due disse nulla.

    «Ma insomma, perché devono sempre farci fare questi tornei dove qualcuno vince e qualcuno perde? Sono dei giochi stupidi e inutili! Io non sono capace e quindi non voglio nemmeno partecipare!» continuò lei, aspettando che qualcuno dei due dicesse qualcosa, in fondo lo facevano sempre. Ma questa volta si guardarono e decisero di non intervenire, volevano sentire tutto quello che aveva da dire senza interromperla.

    «Non possono fare qualcosa dove non ci sia competizione? E poi perché devono obbligarmi a partecipare? No, no e no! Se non me la sento non lo faccio!» disse la bambina, che stava evidentemente perdendo le staffe.

    Finalmente Anne decise che era arrivato il momento di dire qualcosa, ma non fu così gentile come era stata in precedenza.

    «Ma santo cielo, lo capisci che così fai solo del male a te stessa?». Era stata un po’ brusca e lo sapeva, ma anche la sua pazienza non era infinita. Provò a essere più specifica, abbassando leggermente il volume della voce: «La scuola organizza delle attività ed è giusto che tutti debbano partecipare. Fanno dei tornei anche per coinvolgere nei giochi tutti gli studenti. E quindi è giusto che ti attribuiscano una nota se tu ti rifiuti di partecipare. Vincere o perdere non è importante, quello che conta è stimolarvi. Poter far emergere le vostre capacità, farvi provare attività nuove, farvi scoprire che vi piacciono e farvi imparare cose che ancora non sapete fare. Quello che devi capire è che anche se una cosa non ti piace devi farla e impegnarti, o almeno provarci.

    Non puoi partire sempre pensando di non farcela. Come pensi di aver imparato ad andare in bicicletta? Di certo non sapevi farlo, ma noi ti abbiamo fatto provare e riprovare, finché non ci sei riuscita. Quindi mettici passione e voglia di fare, e vedrai che sarai in grado. La paura di provarci e di fallire non deve fermarti, devi correre il rischio. Credimi, ti stupiresti di te stessa, scoprendo quante cose sai fare che non avresti mai pensato».

    Lily teneva gli occhi bassi e sembrava che quelle parole le stessero solo scivolando addosso. Tante volte aveva provato ad alzarsi a metà discorso, e si era presa una bella sgridata e anche qualche punizione. Così, memore di quelle volte, aspettò che la madre avesse finito e poi si alzò da tavola per tornare in camera sua. François provò a iniziare una frase, ma si interruppe subito, capendo che sarebbe stato inutile. Quindi nessuno la fermò. Anne aveva ripetuto quelle parole almeno un centinaio di volte, ma sapeva che anche quella volta non sarebbero servite a niente. Erano delusi e sconfortati.

    Lily in fondo non era una bambina cattiva, era solo un po’ capricciosa e apatica. Non metteva passione in quello che faceva, niente sembrava interessarla particolarmente. Sapeva solo stare sul divano, guardare la tv o giocare con il telefonino. I suoi genitori cercavano di educarla al meglio, evitando che crescesse viziata, provando a spiegarle perché non era possibile fare tutto ciò che lei voleva, o almeno non solo, ma che invece doveva impegnarsi davvero in qualcosa. Provavano a iscriverla a semplici corsi scolastici, sperando che potessero in qualche modo incentivarla. Ma niente, riusciva sempre a farsi espellere o a prendere una nota di demerito perché non voleva partecipare alle attività organizzate. Avrebbero voluto che dimostrasse loro di essere decisa, determinata e caparbia, e invece si mostrava sempre distratta, svogliata e superficiale, risultando quindi totalmente inaffidabile.

    Lei proprio non riusciva a capire il motivo di tutti i NO che loro le riservavano, credeva ce l’avessero con lei. Dal canto suo, vedeva due genitori che la indirizzavano a fare cose che a lei non interessavano, e quindi diventava conseguenza naturale il fatto che non si impegnasse. Inoltre, non si sentiva apprezzata né tantomeno motivata. E non riteneva fosse colpa sua. Si sentiva sempre spinta a mettersi alla prova, come fosse quasi istigata alla competizione.

    Forse perché pensavano che così avrebbe imparato a combattere, a lottare, avrebbe saputo affrontare meglio gli eventi della vita.

    Ma lei evidentemente non era quel tipo di persona che veniva stimolata in tal senso. Tutto ciò che ottenevano era che lei si sentisse oppressa e ossessionata, quasi come fosse in gabbia. Cresceva sempre di più in lei l’ansia da prestazione, aveva ogni volta più paura del giudizio degli altri e temeva il confronto, non sentendosi mai all’altezza della situazione. Non riusciva a trovare nulla di giusto in sé stessa e in ciò che faceva, era profondamente scontenta di tutto, e invece di aprirsi e parlare con qualcuno si chiudeva sempre di più. Anche in casa era diventata sempre più schiva. I suoi genitori la vedevano giusto la mezz’ora che lei si concedeva a cena, e dieci minuti la mattina prima che uscisse per andare a scuola. Tra una chiacchiera e l’altra su come era trascorsa la giornata scolastica e le solite discussioni, i discorsi davvero interessanti e pieni di argomenti cominciavano a scarseggiare.

    E se non fossero loro il problema, se fossi io? Perché non provavo a impegnarmi nelle attività quotidiane? Perché non dimostravo di valere qualcosa invece di dire sempre che non ero capace? Perché sceglievo di lasciar perdere senza nemmeno provarci? Perché mai non davo loro ascolto quando semplicemente mi dicevano di comportarmi meglio ed essere più gentile? Perché mai non credevo loro quando mi dicevano che se fossi risultata inaffidabile nessuno mi avrebbe mai dato retta nella vita? Perché facevo finta di niente quando dicevano che avrei dovuto mettere in quello che facevo passione e interesse, invece del mio solito menefreghismo? Perché mai non parlavo con loro quando sapevo bene che erano pronti ad ascoltarmi?

    Perché mai pensavo che non mi capissero quando probabilmente erano gli unici che avrebbero potuto farlo? Perché pensavo non mi volessero bene quando hanno dedicato tutta la loro vita a me? Perché mai sono stata così sciocca e ingenua?

    Questi erano i pensieri che scorrevano nella mente di quella ragazzina appena undicenne che, fino a poco prima, tanto disdegnava la sua vita e i suoi genitori.

    Perché se prima si sentiva in trappola in casa, adesso in trappola c’era davvero. In una trappola per topi, forse costruita apposta per quei ragazzini come lei che non riuscivano ad apprezzare le fortune della loro vita. Non sapeva in che luogo si trovasse e non ricordava come ci fosse arrivata né perché.

    Era un luogo scarno, freddo e inospitale, quasi completamente buio.

    C’era una sola lampada in un angolino in fondo alla stanza che emanava una luce soffusa e che le permetteva di notare che le pareti erano di un beige caldo, quasi sabbia, le era sempre piaciuto quel colore.

    Dall’altra parte della stanza c’era una grande porta chiusa con un lucchetto, inutile tentare di aprirla. Senza particolari idee, provò a urlare, chiedendo aiuto, ma come risposta udì solo l’eco delle sue parole che tornavano indietro. Quindi capì che nessuno avrebbe potuto sentirla.

    Non riusciva a capire nient’altro ed era confusa. Sapeva solo che era lontana da casa, dai suoi genitori, in un posto sconosciuto e senza alcun riferimento. E chissà chi l’aveva portata lì e quando sarebbe tornato. Chissà cosa le sarebbe successo dopo. Solo ora che non vedeva via d’uscita cominciava a riflettere seriamente sulla sua vita. Solo in quel momento capiva che tutto ciò che i suoi genitori facevano era per lei, perché crescesse con un po’ di sale in zucca e tanto coraggio nel cuore. Se ne rendeva conto solo allora, nell’esatto istante in cui, di quel coraggio che tanto ostentava, non ne rimaneva nemmeno un briciolo.

    Attendeva dicembre solo per compiere 12 anni, perché ogni anno che compiva era un passo in più per diventare grande e andare finalmente a vivere da sola. Lo diceva spesso, ma erano solo parole, anche perché non sapeva realmente cosa stesse dicendo. La prassi sarebbe stata la stessa di ogni compleanno, lei che si lamentava con i suoi genitori perché ciò che le avevano regalato non era quello che voleva.

    Ultimamente era diventata anche più insolente del solito. Non solo non ubbidiva, ma faceva tutto quello che era in suo potere per contraddirli; li ascoltava solo per poi comportarsi in maniera diversa da come le era stato chiesto. In quel momento improvvisamente le sembrava tutto così chiaro.

    Chissà, forse era troppo tardi per rendersene conto: nessuno era lì per aiutarla. In quel momento in cui aveva proprio bisogno di LORO, le due persone che più la conoscevano sulla faccia della terra, forse le uniche che avrebbero potuto infonderle forza, non erano lì. E chissà cosa avrebbero pensato. Forse addirittura che lei fosse scappata volontariamente, perché qualche volta, in momenti di rabbia, l’aveva persino detto. Per la sua testardaggine forse si era giocata la possibilità di riscattarsi, la possibilità di dimostrare loro qualcosa.

    Era in preda alla disperazione. Forse i suoi genitori non avrebbero mai saputo che anche lei in realtà li amava, li amava tanto.

    Avrebbe voluto riavvolgere il nastro, tornare indietro.

    Avrebbe solo voluto chiedere scusa e dire loro che sarebbe stata più ubbidiente e accondiscendente, e che avrebbe smesso di fare la bambina ribelle senza alcun motivo. Ma sapeva bene che non era possibile. La sua mamma non era lì e non poteva sentirla. Qualsiasi bel pensiero o bella parola sarebbero rimasti inascoltati. Era talmente in collera con sé stessa che non le uscivano nemmeno le lacrime. Aveva gli occhi rossi, gonfi e stanchi. Era inutile ormai continuare ad affliggersi, era davvero esausta… aveva bisogno di riposare un po’. E proprio quando stava per riuscire a chiudere gli occhi, un rumore di chiavi che giravano nel chiavistello la riportò bruscamente alla realtà e le fece capire che qualcuno stava arrivando.

    CAPITOLO II

    François Bonnet e Anne Turandot credevano che quella sarebbe stata una giornata come tutte le altre. Si alzarono come sempre di buon mattino. Era una fresca giornata di inizio novembre e il cielo era coperto, ma ancora non pioveva. Lily Caroline sarebbe andata a scuola da sola, come tutte le mattine, in fondo aveva solo seicento metri da percorrere e le sarebbe servito per cominciare a responsabilizzarsi, cosa che sembrava ancora lontanissima da raggiungere.

    «Lily, prendi l’ombrello, che oggi potrebbe piovere», queste le ultime parole che Anne rivolse alla figlia prima che uscisse. Poi fu il turno di François che salutò la moglie e uscì, avviandosi verso la fermata della metro, per dirigersi al suo studio da geometra nel centro di Parigi, proprio accanto al Musée d’Orsay. Infine uscì anche lei per andare ad aprire il negozio che aveva in gestione sugli Champs Élysées . Tra qualche cliente da servire, qualche chiamata per le nuove vetrine che avrebbero dovuto allestire e ancora qualche sguardo alle nuove collezioni presentate dagli stilisti solo un mese prima alla famosa settimana della moda di Parigi, la mattinata passò velocemente.

    Tutto come di consueto fino a poco dopo le 13.30, quando Anne cominciò a chiamare la figlia al cellulare, senza ottenere risposta. Quante volte le ho detto di avvisarmi non appena fosse rientrata a casa? È incredibile quella ragazzina, non mi ascolta mai. Quando cambierà? Mentre questi pensieri le si affollavano nella mente, Anne, come presa da un gesto istintivo, continuava a telefonare a ripetizione, ma puntualmente partiva in automatico la segreteria telefonica.

    C’era qualcosa di strano. Così, dopo un’ora di chiamate a vuoto, decise che avrebbe chiamato la scuola per chiedere conferma che la figlia fosse andata via da lì poco prima. La scuola però le disse qualcosa che non si aspettava.

    «Lily non è venuta oggi a scuola, ma non ci siamo preoccupati, abbiamo pensato fosse ammalata e che sarebbe ritornata domani.»

    Non poteva fargliene una colpa, poteva succedere, se qualcuno si ammalava, mancava da scuola e portava la giustificazione il giorno successivo. Ringraziò e chiuse la telefonata. Anne non sapeva cosa pensare, non sapeva se essere impaurita o essere furiosa. In un secondo le passarono davanti agli occhi tutte le litigate fatte nei giorni precedenti e gli scontri continui. Ma non poteva perdersi in cose inutili, doveva chiamare François. Questi, non appena ricevette la chiamata di Anne, si precipitò da lei lasciando il suo studio e annullando tutti gli appuntamenti che aveva fissato per quel pomeriggio.

    Erano entrambi sconvolti ma non era il momento di lasciarsi andare, dovevano essere lucidi. Provarono a ipotizzare cosa potesse essere successo. «Che abbia voluto fare una bravata e allontanarsi da noi, andando da qualche amica o amico?» provò a supporre il padre.

    «Sì, potrebbe essere, in fondo è sempre stata un po’ ribelle, e non vuole mai darci retta, ma addirittura sparire così senza nemmeno andare a scuola? Non ti sembra un po’ esagerato?» gli rispose lei, quasi infastidita dall’idea che potesse davvero essere successa una cosa simile.

    Dopo un attimo di silenzio, François si rivolse ad Anne in modo un po’ brusco. Le disse che forse erano stati troppo duri con Lily, che forse l’avevano davvero esasperata e la ragazzina non ce la faceva più. Anne sapeva che lui non ce l’aveva con lei, perciò sapeva anche che non avrebbe avuto senso controbattere. Sicuramente lui era affranto quanto lei e non si perdonava di non averla protetta. Lui si accorse del gesto di Anne, lo apprezzò e quasi si scusò con gli occhi per le cose appena dette. Non ci fu bisogno di altre parole e si abbracciarono. Era il momento di essere solidali e farsi forza l’un l’altro. Furono d’accordo sul fatto che, per qualsiasi motivo si fosse allontanata, sarebbero andati a denunciarne subito la scomparsa, volevano sapere cosa era successo alla loro bambina.

    Al commissariato di Goutte d’Or del XVIII arrondissement, nei pressi del famoso quartiere di Montmartre, la giornata stava trascorrendo liscia come l’olio. Fino a quel momento c’era stata solo qualche denuncia per furto e poco altro. Ed era un bene, visto il particolare periodo in Francia. Dal 2016 le forze dell’ordine quasi non avevano tregua. Solo qualche mese prima, nel maggio 2018, c’era stato un assalto in strada, un uomo con un coltello si era scagliato sulla folla nel quartiere dell’Opéra, con i ristoranti e le brasserie affollate come di consueto il sabato sera.

    L’allerta terrorismo era sempre molto alta ed erano tutti parecchio preoccupati. In quell’atmosfera, quella giornata così apparentemente normale diede loro la speranza, purtroppo vana, che forse presto avrebbero tutti potuto tornare a casa dalle mogli, dai figli o semplicemente dal proprio cane o nel proprio angolo di intimità personale. Si accorsero però presto che quella giornata aveva ancora qualcosa in serbo per loro.

    Infatti, quel pomeriggio, completamente bagnati da una pioggia incessante che aveva da poco iniziato a cadere violentemente, entrarono un uomo e una donna, di corsa e piuttosto agitati e trafelati.

    Li accolse un agente al centralino, per capire di cosa si trattava e indirizzarli.

    «Siamo qui per denunciare la scomparsa di nostra figlia» dissero all’unisono.

    L’agente capì subito che non sarebbe stato qualcosa di veloce, così li indirizzò all’assistente capo del dipartimento. César Portrand si occupò di svolgere le procedure di routine, prese i loro dati personali e raccolse la deposizione dettagliata dei fatti, o almeno di tutto ciò che potevano riportare. Prima di congedarli, chiamò il capo dipartimento, Jérôme Gauthier, per informarlo della cosa. Non appena questi venne messo al corrente, riportò la notizia a César che avrebbero cominciato immediatamente l’indagine, e gli disse di non mandarli subito a casa, dovevano avere da loro ulteriori informazioni. Jérôme era molto bravo nel suo lavoro, in soli sette anni era

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