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Oraculum. La Voce Dei Cesari
Oraculum. La Voce Dei Cesari
Oraculum. La Voce Dei Cesari
E-book603 pagine7 ore

Oraculum. La Voce Dei Cesari

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Info su questo ebook

1460 d.C. - relegato nel suo esilio dorato in Irpinia, il marchese Valerio Orsini ha un sogno: riscattare
un'esistenza di menomazioni ed emarginazione, scalando le complicate gerarchie della politica
Romana e diventando Summus Senator della città per poi realizzare un sogno che rasenta l'impossibile.
Antemio sabini è invece un uomo umile, ridotto in miseria dai debiti e in cerca di un benefattore che salvi
lui e la sua famiglia dagli aguzzini. Ma è anche provvisto di un talento immenso e antico, che l'ha
traumatizzato e dal quale fugge ostinatamente. Nella città eterna, ambizione e disperazione s'incontreranno,
dando vita a un piano apparentemente folle in un'epoca contrassegnata dal dominio indiscusso del Papato.
Riportare in vita qualcosa di remoto e  fantastico, ridando a Roma Immortale la sua antica e incontestabile
centralità in un mondo che sembra ormai intenzionato a dimenticare.
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2021
ISBN9791220812061
Oraculum. La Voce Dei Cesari

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    Anteprima del libro

    Oraculum. La Voce Dei Cesari - Patrizio Corda

    ORACULUM

    LA VOCE DEI CESARI

    Patrizio Corda

    A mio padre

    I

    La prigione dorata

    Atripalda, Agosto 1460 d.C.

    Quando fu stanco di leggere, Valerio Orsini scostò gli occhi da quel rincorrersi di parole che avevano finito per renderlo irrequieto anziché cullare il suo spirito, e si guardò attorno. Occorse tutta la bellezza di quel paesaggio bucolico in cui era immerso, perché riuscisse a calmare quelle ondate d’insofferenza che avvertiva sempre più spesso. Si era a lungo vantato, con sottoposti, clienti e sconosciuti della sua vastissima cultura letteraria, che spaziava da Virgilio ai più remoti poeti dell’epoca feudale. Ma adesso, scopriva con suo grande sconforto che neppure la lettura era più sufficiente ad astrarlo dall’amara realtà dei fatti.

    La cultura era ben poca cosa, senza la possibilità di traslare sul piano concreto i suoi pur preziosi insegnamenti.

    Sospirando dalle sottili narici del suo naso aquilino, Valerio si sedette con maggior compostezza sulla panca di legno, recentemente verniciata. Intorno a lui, che stava seduto all’ombra di un leccio, erano bellissimi colli in fiore le cui sommità erano adornate da piante d’alloro, di mirto e di corbezzolo.

    Più in basso, sotto il colle nel quale aveva eretto la sua amata tenuta, erano una quantità di terreni coltivati. Molti di essi erano agrumeti, anche questi di sua proprietà e nei quali lavoravano, specie in quei mesi, decine e decine di giovani provenienti da Atripalda. Il cielo sembrava aver portato, assieme al suo azzurro terso e luminoso, un silenzio diffuso ma non tombale. Leggero e gradevole, appena sporcato dal costante frinire delle cicale.

    Per essere in piena estate, non faceva neppure troppo caldo.

    In lontananza, a prestare attenzione, si sarebbero riusciti a udire i richiami dei contadini e l’elegante scrosciare del fiume Sabato.

    La bella stagione, in Irpinia, era davvero quanto di più vicino vi potesse essere al Paradiso.

    Eppure Valerio si sarebbe divorato le sue stesse dita per il nervoso. E non era detto che non finisse davvero per farlo!

    Abbandonando definitivamente quella pregevole copia della Città di Dio di Agostino d’Ippona, regalo di un caro amico, scelse un’altra lettura per cercare di recuperare un minimo di contegno.

    Con le dita ossute e informicolate, afferrò dunque quella lettera della quale già conosceva il fastidioso contenuto, ma che perlomeno l’avrebbe tenuto ancorato alla realtà senza che il galoppare della sua fantasia contribuisse a frustrarlo ancora.

    Ma riuscì a leggerne a malapena due righe, prima di rimetterla da parte. Fu tentato di alzarsi in piedi e strappare qualche ramo dal leccio per sfogarsi, ma quasi ne fu mortificato. Povera, meravigliosa pianta: che colpa aveva, questa, delle sue disgrazie?

    Rimuginando, mentre le sue gambe iniziavano a tremare come ogni volta che pensava profondamente, Valerio provò a immaginare quel che sarebbe successo. Nel farlo, iniziò realmente a mordicchiarsi le dita. Sorprendendosi di quel gesto, soffocò un’imprecazione. Buon Dio, quant’era nervoso!

    Suo fratello Orso sarebbe tornato a breve. A lui, tutto era andato bene nella vita. E a giudicare dagli ultimi avvenimenti, quella buona sorte pareva destinata a perdurare senza ragione alcuna.

    L’incoscienza di Orso l’aveva premiato: questi infatti si era offerto come soldato di ventura alla corte d’Aragona, impegnata in una sanguinosa battaglia con gli Angioini. Tensioni e sospetti erano infine culminati nella recentissima e cruciale battaglia di Sarno, nella quale proprio gli Aragonesi avevano avuto la meglio.

    E quella vittoria, per riflesso, avrebbe finito per giovare immensamente anche all’audace Orso. Che questi avesse ben figurato in battaglia, o si fosse nascosto per tutto il tempo come fanno i vermi sotto la terra rivoltata dai volenterosi braccianti.

    Avvampando, Valerio confessò a sé stesso che non vi era neppure motivo di infuriarsi col fratello, in fondo. Non era certo colpa di Orso, bello e dall’energia straripante, se lui invece era venuto al mondo con la cagionevole salute di un ottuagenario.

    Perché in verità, così andava il mondo: a certi sventurati, ogni cosa era preclusa a priori. Ad altri, ogni porta risultava facile da aprire.

    E lui purtroppo faceva parte della prima categoria. Era nato nobile, Valerio; nobilissimo, essendo parte della celebre casata degli Orsini.

    Peccato che avesse rischiato di non venire affatto al mondo.

    Già dai suoi primi vagiti era stato più nelle mani dei medici che della madre. Leggero come una piuma e di un colorito malsano, quel neonato era stato dato per spacciato mille e più volte.

    I migliori dotti d’Italia si erano recati alla loro dimora, cercando di spiegare alla madre Orsina le ragioni di tanta debolezza.

    Ma nessuno aveva mai trovato l’esatta cura per il suo male.

    Solo col passare degli anni Valerio era migliorato, mettendo su un poco di peso ma risultando pressoché inadatto a qualsiasi attività.

    Incapace del minimo sforzo fisico, egli era cresciuto in un costante e obbligato ozio, che aveva combattuto con gli slanci della sua insaziabile mente. La sua adolescenza, invece che consacrata agli amori giovanili, era stata dedicata ai romanzi e alle poesie. Aveva accarezzato e concupito, nella sua intimità, i ritratti di quelle donne che gli autori del passato avevano tracciato con sublime maestria.

    Ma un nobile restava tale, e non poteva esser dimenticato. Per questo, raggiunta la maggior età, a Valerio era stato assegnato un ruolo. In quanto facente parte del ramo degli Orsini che erano conti di Nola, gli era stata commissionata l’amministrazione di alcune loro proprietà in Irpinia. E Valerio, pur essendo nel cuore un umanista, si era provato anche eccelso supervisore. Sorprendentemente, la famiglia aveva tratto consistenti e inattesi profitti grazie alle sue sagge decisioni in ambito commerciale.

    E questo, se solo si fosse accontentato, gli avrebbe fruttato la stima di chi abitava quelle terre e il rispetto dei propri pari.

    Ma a Valerio, ciò non sarebbe mai bastato.

    Aveva quarant’anni, per Dio, e cos’aveva combinato?

    Poco o nulla, a parte imbottire la sua testa di parole e pensieri altrui, che pur ammirava, e aver gestito qualche tenuta che avrebbe reso anche se affidata al più passivo degli amministratori!

    Il suo corpo, ossuto e già curvo, non l’aveva sostenuto in nulla.

    Quasi la sua mente avesse demandato per sé ogni energia, spogliandolo della vigoria giovanile e imponendogli di trascinarsi penosamente, dubitando persino di vivere il domani.

    Una persona comune si sarebbe accontentata. Ma lui si sentiva ai margini di quella famiglia potentissima, capace d’imporsi a Roma come nel resto della penisola. Perché avrebbe dovuto accettarlo, e fare atto d’umiltà? A che serviva l’umiltà, poi?

    Si entrava forse nella storia, facendone sfoggio?

    Valerio strinse i pugni per la rabbia. Sentì le nocche scricchiolare.

    Maledetto, caduco corpo. Sembrava fatto di legno già tarlato.

    Ritornò a pensare a quel valore tanto decantato, ma che per lui non era virtù. Suo fratello aveva azzardato, e ora avrebbe fatto ritorno ricco e forse con nuovi titoli nobiliari. Provò a pensare a quell’Irpinia bellissima ma arrendevole, bucolica eppure apatica.

    Nei secoli, chiunque era riuscito a conquistarla.

    Forse, essere riottosi o perlomeno avere amor proprio avrebbe evitato a quella brava gente tante angherie!

    Fu attraversato da un brivido, Valerio, al solo pensiero di diventare come quelle bellissime colline che lo circondavano. Un altro nome di passaggio, educato e anonimo, una vita senza gesta pietosamente aggrappata al buon nome della casata degli Orsini.

    Sospirò, scuotendo il capo.

    Una ciocca di capelli corvini, che portava più lunghi di quanto la decenza avrebbe concesso, gli ricadde sugli occhi nocciola.

    Riavviandosi la chioma, scorse uno stormo mentre attraversava il cielo limpido. Rondini. Creature di passaggio, come lui.

    Ma perlomeno, queste avevano scelto spontaneamente che cosa essere. Non come lui, incatenato al suo fisico gracile così come a quel podere immerso nel verde, che era sì suo ma che non avrebbe certo contribuito a farlo ricordare.

    Prostrato e ammutolito, Valerio si rese conto di invidiare terribilmente quei piccoli e graziosi uccelli.

    Loro avevano qualcosa che lui non avrebbe, forse, mai raggiunto.

    L’inestimabile e irrevocabile libertà di decidere del proprio destino.

    Coprendosi il volto con le mani e cercando rifugio nell’oscurità, Valerio indugiò nuovamente in quel pensiero a lui ormai noto.

    Avrebbe barattato volentieri ogni agio e ricchezza, persino il suo stesso titolo, per avere un simile lusso.

    II

    L‘inetto

    Roma, Agosto 1460 d.C.

    Il ceffone che colpì in pieno volto Antemio, già spalle al muro, ebbe l’effetto di far avvampare il suo ovale roseo. La chioma di riccioli biondi si mosse come un ramo d’ulivo scosso nei mesi della raccolta. Portandosi la mano alla guancia offesa, i suoi occhi cerulei si riempirono di lacrime: e non tanto per il dolore, ma per la vergogna. Avrebbe tanto voluto sparire.

    «Quando capirai che non stiamo giocando?» gli gridò addosso l’energumeno, per poi guardarsi intorno circospetto.

    Ma nessuno, gli confermarono i suoi compagni, stava passando.

    Nessuno ormai passava più nel Foro.

    Ed era esattamente una delle ragioni per cui Antemio Sabini si era cacciato in quella situazione.

    «Hai ancora due settimane di tempo» riprese l’aguzzino, alitandogli in faccia e ricoprendolo di saliva. «E poi ci prenderemo tutto quel che hai. Sempre che ti sia rimasto qualcosa…in caso non sia così, ci arrangeremo» ghignò, mostrandogli la lama arrugginita del pugnale che teneva sotto il farsetto consunto e macchiato.

    «Per pietà» piagnucolò lui, con voce tremula. «Così poco tempo non mi basterà mai…»

    «Avresti dovuto pensarci prima di chiederci tutti quei denari in prestito» si sentì rispondere. «Ricorda bene: tanti denari quanto è il tuo peso. Niente di più, niente di meno. Oppure…»

    Con un sibilo, il pugnale si avvicinò pericolosamente alla sua gola.

    Sentendo la sua vescica vacillare, Antemio iniziò a pregare.

    Oh, Signore, no…non una simile umiliazione!

    Il sorriso fatto di denti piccoli e seghettati di Basilio, l’uomo che era stato per lui salvezza e poi sventura, gli parve una commistione di disprezzo e compassione. Rifilatogli un sonoro spintone, il colosso senza capelli lo guardò un’ultima volta e poi gli diede le spalle tra le risate dei suoi scagnozzi.

    «Allora facciamo quattro settimane. Sì, un mese. Guarda quanto sono clemente!» lo dileggiò allargando le braccia spesse come tronchi d’albero. «Ma se cercherai di fregarci o proverai a fuggire… non hai forse famiglia, Antemio Sabini? »

    Sgranando gli occhi, Antemio tese le braccia e fece per chiedere pietà. Ma ridendo sguaiatamente, il gruppo di criminali lo lasciò solo con quel terrore che l’attanagliava.

    Scivolando a terra con la testa tra le mani, li guardò allontanarsi.

    Un mese. Solamente un mese.

    Come avrebbe fatto a racimolare tutto quel denaro?

    Per poco non se l’era fatta addosso per la paura. Perlomeno, il buon Dio gli aveva risparmiato quella figuraccia. Ma nonostante ciò, Antemio non poté fare a meno di sentirsi patetico.

    Guardò il Foro, blasonato e disadorno, evitato persino dai raggi del sole estivo, come se la sua nobiltà non contasse più nulla. Oramai, nel luogo che era stato il cuore di Roma non si aggiravano che pastori, mendicanti e qualche scaltro venditore di false reliquie.

    E lui aveva ben pensato, un solo anno prima, di aprire una locanda nei suoi pressi credendo potesse essere una buona idea.

    Alla Buona Sorte , l’aveva chiamata. Bella beffa!

    Aveva messo in quell’attività tutti i suoi risparmi, racimolati in trent’anni di affanni e saltuari lavori come garzone. Ma il vero danno l’aveva fatto in seguito. La sola clientela della locanda, ben presto, s’era composta di beoni e individui poco raccomandabili.

    Pur di vedere qualche soldo entrare, Antemio aveva permesso loro di organizzarvi bische clandestine. La bramosia l’aveva tradito, facendolo poi sprofondare nel baratro. Pur di tenersi stretti quei pochi clienti e attratto dalla prospettiva di un guadagno rapido e facile, Antemio si era fatto coinvolgere in quegli stessi, pericolosi svaghi. E ben presto, essendo poco avvezzo ai trucchi e alle illusioni che li contraddistinguevano, aveva contratto un debito sempre più grosso. Indispettiti dalle sue insolvenze, molti avevano smesso di frequentare la locanda. E lui, allora, si era visto costretto a chiedere denaro in prestito pur di aggrapparsi alla speranza di riparare ai suoi errori. Non vi era riuscito.

    Non sapeva neanche più quanto dovesse a Basilio e ai suoi. Questi gli aveva parlato di tanto denaro quanto egli pesava. Angosciato, Antemio si disse di non voler scoprire quale fosse il suo peso.

    A capo chino e trascinandosi stancamente, costeggiò proprio la locanda. Quattro mura ammuffite, con l’ingresso e le finestre già sbarrate da tempo. Tutta la sua vita poteva esservi riassunta, come un gigantesco fallimento.

    Lasciandosi dietro il Foro, pregustò sadicamente l’amaro istante in cui avrebbe fatto ritorno alla sua misera dimora. Allora avrebbe dovuto sostenere lo sguardo della moglie Adriana e delle figlie Maria e Sabina. Quella donna l’aveva sostenuto per quindici anni, da quando, giovinetti, s’erano reciprocamente invaghiti.

    Ma per quanto ancora avrebbe pazientato, accettando di servire qualche acida nobildonna per compensare il suo bighellonare?

    E quelle amorevoli adolescenti, che pur l’amavano, fino a quando avrebbero accettato di avere un buono a nulla per padre?

    La verità era che lui ci aveva provato, con tutto sé stesso.

    Ma la vita non gli aveva sorriso. Gli aveva dato l’ambizione onesta delle persone semplici, ma negandogli qualsiasi acume negli affari.

    Forse da quel suo squilibrio interiore erano nate tutte le disgraziate decisioni che aveva preso in trent’anni di vita.

    Scivolando per le strade semivuote, dopo diverso tempo si ritrovò nel rione Borgo, là dove era la loro casa. Ovviamente questa non gli apparteneva, bensì era di proprietà del padre di Adriana, che pur disapprovando la loro unione non si era sentito di lasciarli senza dimora. Non c’era che dire, era proprio un buono a nulla.

    Immobile dinanzi all’uscio di casa, e oppresso dal terrore di condannare alla miseria tutti i suoi affetti, Antemio non trovò il coraggio di entrare. Confessò a sé stesso, e a nessun altro, la sua codardia. Quanto avrebbe voluto sprofondare nelle tenebre, in quel momento! Solo lì, nel buio più assoluto, avrebbe trovato la brutale onestà e il coraggio che mai aveva posseduto.

    Ammettendo ciò che veramente era, e la ragione per cui non riuscisse a trovare una soluzione a quel dramma.

    Semplicemente, lui non era niente . Né valeva niente.

    III

    Il sogno di Valerio Orsini

    Atripalda, Agosto 1460 d.C.

    Era arrivato a tre soli giorni dalla sua lettera, come un fulmine a ciel sereno. E nel pieno rispetto di quel suo proverbiale modo di abbattersi su ogni luogo e circostanza, attirando ogni attenzione su di sé, Orso Orsini aveva scosso la tenuta dalle fondamenta.

    Valerio l’aveva accolto – cos’avrebbe dovuto fare, dopotutto? – con gli onori che si spettavano a un valoroso di ritorno da una campagna vittoriosa. Ma era rimasto disgustato dalla piaggeria degli inservienti, degli stallieri, delle frotte di umili che curavano la sua villa. Orso aveva avuto un sorriso e un gesto affettuoso per tutti, come se aver sperimentato gli orrori della guerra l’avesse reso più buono e misericordioso. Aveva ostentato umiltà anche alla sua tavola, rifiutando un banchetto di cui sapeva d’esser degno preferendo una semplice zuppa di ortaggi.

    Aveva bisogno di purificare le interiora, aveva detto, dopo tante celebrazioni e il troppo gozzovigliare. E Valerio aveva obbedito.

    A dire il vero, Orso non portava i segni di alcuno scontro. Non un graffio era su quel viso allungato, cotto dal sole, reso ombroso dalla fronte e il mento prominenti. I suoi occhi azzurri erano guizzanti, per nulla fiaccati dal viaggio, e i suoi capelli fulvi erano la consueta cascata di ciuffi mossi e indistricabili.

    Guardandolo mangiare con esasperante lentezza, Valerio aveva pensato che quell’umiltà fosse una messa in scena. Bastava osservarne l’abbigliamento, con gli stivali in cuoio e la spada che pendeva dalla cintura. Per non parlare della pellanda damascata, rossa con ornamenti bianchi che rimandavano ai colori di famiglia.

    Era evidente che suo fratello, più grande di appena tre anni, volesse rendere chiara e nota la sua ascesa ai più alti onori.

    «…proprio così, fratello mio» disse questi sedendosi più comodo, riprendendo un discorso che Valerio non aveva interrotto né avviato. «Ferdinando d’Aragona ha vinto, surclassando Giovanni d’Angiò. Un trionfo decisivo che ha permesso di scacciare l’arrogante invasore. Lo scettro di Napoli è nuovamente saldo nelle sue mani, e la nostra famiglia ne gioverà grazie al mio apporto con cospicui donativi e nuovi titoli».

    In verità, Orso era stato inizialmente dalla parte degli Angioini.

    La sua scaltrezza e il suo opportunismo gli avevano permesso di cambiare schieramento giusto in tempo. Ma dimostrandosi meno ardito e sfacciato di lui, Valerio preferì non dir nulla.

    Meglio non irritare il permaloso e prepotente rampollo degli Orsini di Nola. Adagiò le mani giunte di fronte alla bocca, e annuì.

    «Chissà che nuovi scontri non siano all’orizzonte» continuò Orso, agitando la mano frivolamente. «Dopotutto, questa penisola è così volubile…pensa, a Roma già si parla del prossimo Summus Senator , che sta per essere eletto».

    Gli occhi di Valerio si spalancarono all’improvviso.

    Anche se col passare dei secoli il ruolo del Senatore, unico amministratore civile della Città Eterna, aveva perso quasi tutto il suo potere in favore del Papato, si trattava ancora di un titolo prestigioso e ambito. Oltretutto, per tanto tempo questo era stato esclusiva proprietà della famiglia Colonna, altra potentissima casata che era per definizione in competizione con gli Orsini. Una questione del genere, dato l’amore platonico di Valerio per l’Urbe e la cultura Latina, non poteva certo risultargli indifferente.

    Eppure, Orso scrollò le spalle come se avesse perso fin troppo tempo a parlare di facezie.

    «Oh, ma che dico! Cosa vuoi che importi a te, fratello mio, di queste cose?» disse, più a sé stesso che a lui. «Tu stai bene qui, nelle placide campagne d’Irpinia, a compiacerti della tua saggia amministrazione! Le sordide trame di chi insegue il potere non lusingano il tuo fine animo di letterato!»

    Detto questo, Orso gli sorrise beffardo, orgoglioso del suo eloquio davanti a una persona infinitamente più dotta di lui. Dunque si concesse un bel sorso di vino rosso, prodotto anche questo dalle vigne di proprietà familiare ad Atripalda.

    Valerio, ancora, tacque. Sorrise appena, ma quella cordiale espressione di circostanza non mascherò il suo turbamento.

    Ma che ne sapeva, Orso, di quello che provava? Cosa poteva sapere, lui, di un’esistenza vissuta ai margini, lontano da ogni gratificazione e onore a causa di quel corpo da larva?

    Forse egli pensava che si accontentasse di vivere in quelle terre intrise di bucolico tedio, ma non era così. Dentro di sé, Valerio era un vulcano d’energie e di idee inespresse. Sentiva di meritare di più. E sapeva, nel profondo, di volere di più.

    La sua dignità nobiliare era indiscutibile, e avrebbe dovuto compensare quel corpo scheletrico e fallace. I suoi sogni, che trascendevano le sue reali possibilità fisiche, meritavano rispetto.

    Per tutta la sua vita Valerio aveva visto altri vivere quello che egli aveva sognato per sé, ascendendo a onori e ricchezze che a lui erano stati preclusi quasi d’ufficio.

    Lo storpio non poteva cercare la gloria in guerra.

    Né poteva viaggiare in lungo e in largo, aspirando a una carriera di diplomatico. Le privazioni di una vita da ecclesiastico, poi, l’avrebbero stroncato prima ancora di iniziare. Non vi era niente, stando a sentire i suoi illustri parenti, che egli potesse fare. Se non appassire lentamente, esposto al sole d’Irpinia.

    Ma quella cultura, quei libri in cui era sprofondato fin da adolescente avevano foraggiato in gran segreto le sue ambizioni.

    L’avevano convinto di poter ugualmente aspirare al massimo.

    Dopotutto, non era stato così anche per il grande Claudio? Quell’uomo irriso ed escluso da ogni carriera politica, curvo e balbuziente, si era infine provato un lodevole imperatore.

    E questo, ben millequattrocento anni addietro.

    Non volendo soggiacere alla rabbia di fronte al fratello, e scegliendo invece di volare sospinto dai suoi sogni, Valerio pensò proprio a quella Roma avvizzita e povera, nella quale presto boriosi aristocratici avrebbero brigato per la carica senatoriale.

    Conosceva bene la sua dignità immortale, che il tempo aveva sbiadito ma non cancellato. E la sentì simile alla sua.

    Non sarebbe forse stato fantastico risorgere e riscattarsi insieme?

    Di colpo, Valerio sentì di desiderare Roma. Ma anche molto altro.

    IV

    Drammi nel buio

    Roma, Agosto 1460 d.C.

    Era successo esattamente ciò che si aspettava. Vedendolo rientrare, pallido, a capo chino e con gli abiti sgualciti, la moglie gli aveva rivolto uno sguardo di pura riprovazione. Le figlie, che tanto le assomigliavano nei tratti gentili, i lunghi capelli corvini e la carnagione olivastra, erano parse compatirlo. Antemio aveva biascicato qualche scusa, millantando un mal di testa, e aveva evitato di cenare con loro. La verità era che vedendo la poca brodaglia nei piatti, il cuore gli si era stretto.

    Il poco che la moglie guadagnava era bastato a mettere in tavola cibo per tre. E lui non si sentiva degno di consumare quel cibo, sottraendone parte alla sua prole. Si era quindi disteso in cerca di un sonno che sapeva bene non sarebbe mai arrivato.

    Poche ore dopo, Adriana si era distesa accanto a lui ma non gli aveva rivolto parola. Sapeva benissimo che ormai la locanda era perduta, ma non aveva idea dei guai in cui lui si fosse cacciato.

    Nell’oscurità, Antemio ne osservò i contorni sinuosi mentre era distesa su un fianco. E l’amore leggero e complice della gioventù gli parve tanto lontano da essere un’illusione.

    Era una situazione tremenda, la sua, che rischiava di coinvolgere anche i suoi affetti più cari. Non avesse trovato in tempo il denaro utile a saldare i debiti di gioco, certamente Basilio e i suoi tirapiedi si sarebbero accaniti sulla sua famiglia. E lui sarebbe morto, se non violentemente, per il crepacuore vedendo le sue figlie costrette a esercitare chissà quale riprovevole professione per rimediare alla sua follia. L’ultima di una lunga serie.

    Per tutta la sua vita, Antemio non aveva fatto che arrancare.

    Si era sempre arrangiato, non avendo potuto godere di una buona istruzione. Aveva lustrato calzature, lavorato al mercato, pulito stalle come garzone. Nella sua insipida mediocrità, quell’umile impiego era stato quello in cui si era più distinto. In cambio di un giaciglio accanto ai cavalli si era prestato a questo o a quel padrone, mostrando uno spirito volenteroso che gli aveva permesso di mettere qualche spicciolo da parte.

    L’onesta famiglia di Adriana, conosciuta in un giorno di primavera mentre perdeva tempo nel Foro, l’aveva sempre disprezzato.

    Ma la forza dell’amore era stata più forte anche dello scetticismo, e su di questa si era retta la sua piccola famiglia. Il desiderio di provvedere ai bisogni di moglie e figlie aveva poi spinto Antemio, dopo tanti dubbi e affanni, a crearsi qualcosa da sé.

    Così la locanda aveva preso vita dopo che aveva rilevato il locale a un’asta, essendo il suo anziano proprietario deceduto senza eredi.

    Quello che sarebbe dovuto essere l’inizio per lui, una sorta di redenzione, si era tramutato nell’inizio della fine.

    Ma poteva davvero maledire la sorte, se era stato lui il solo artefice della sua disgrazia?

    S’irrigidì all’improvviso, quando un ululato del vento gli parve ridar vita alle minacce di Basilio. Vide nella sua mente il pugnale, ma questa volta la lama non si fermò. Penetrò nelle sue carni.

    Antemio iniziò a sudare freddo, mentre la notte gli propinava una raggelante e fedele collezione dei suoi giorni più cupi.

    Prossimo alle lacrime, strinse i pugni.

    Perché doveva finire a quel modo?

    E dire che la sua esistenza, in principio, era stata felice o perlomeno speculare a quella di tanti altri bambini. Spensierata, fatta di piccole soddisfazioni, orfana di angosce e paure.

    Solo crescendo si era scoperto un uomo inutile, privo di qualsiasi talento ma roso dal desiderio di arricchirsi senza averne diritto.

    Perché a quel mondo, per fare fortune era necessario eccellere in qualcosa. Che fosse pure il malaffare.

    Cercò di allontanarsi dalla tristezza, provando a farsi cullare dai ricordi d’infanzia. Ma con suo enorme dispiacere, rammentò a sé stesso che proprio in quella fulgida stagione della vita era iniziata la sua discesa agli inferi.

    Sino agli otto anni, era stato un bambino comune. Non esposto ai lussi dei nobili, ma comunque felice e capace di accontentarsi di poco. Fino a che un giorno d’autunno, all’esterno delle mura pericolanti di quella Roma ormai misera e spopolata, era stato incuriosito dal volo di uno stormo di uccelli.

    Con le sterpaglie fino alle ginocchia, aveva indicato quelle creature che danzavano nel cielo plumbeo, indifferenti verso quel paesaggio smorto fatto di strade dissestate e terreni incolti.

    Poi, era stato abbrancato da una ferma e fredda angoscia. La consapevolezza che qualcosa stesse per accadere si era diffusa in lui, e allora voltandosi verso i genitori e gli zii aveva parlato.

    E aveva dato voce alla sua stessa rovina.

    Quelle parole distorte echeggiarono nella sua mente, e per un istante Antemio ebbe paura d’impazzire.

    Troppo era il dolore del presente, perché potesse indugiare anche in quello del passato. Digrignò i denti, e spalancò gli occhi per sfuggire a quella visione terribile.

    Ritrovò l’oscurità silente della sua stanza umida e piccola.

    La quiete era interrotta solo dal palpitare del suo cuore straziato.

    Avrebbe voluto piangere, Antemio.

    Ma togliere il riposo alla moglie con i suoi pietosi lamenti sarebbe stato l’ultimo sfregio a quella donna così paziente.

    Si rassegnò dunque a tacere, stringendo le lenzuola come a voler cercare un appiglio. Lasciò che nelle sue orecchie risuonassero i richiami di quegli stessi uccelli che aveva indicato ventidue anni prima, i latori demoniaci della sua intima tragedia.

    Gli occhi della mente diedero loro fattezze grottesche e orripilanti, non più quelle di innocui volatili ma bensì arpie pronte a ghermirlo trascinandolo nell’abisso.

    Antemio rimase immobile e si dimenò al tempo stesso.

    Cercò di combattere con tutte le sue forze, nella speranza che il domani potesse offrirgli una soluzione alterna a quell’eternità di disperazione. Lo fece fino a che le tenebre non s’imposero.

    E allora, stremato e schiacciato dal dolore, perse i sensi.

    V

    Lo sprono del Cesare zoppo

    Atripalda, Agosto 1460 d.C.

    Perché doveva sentirsi in colpa per aver provato il desiderio di avere di più? Aveva forse nuociuto a qualcuno, nel farlo?

    Piuttosto, aveva fatto del male a sé stesso soffocando i suoi istinti per gran parte della propria vita, rinnegando la sua stessa indole.

    A chi doveva rendere conto, ormai?

    Intorno a sé, Valerio aveva il vuoto. E non inteso come opprimente solitudine, ma bensì come la totale libertà di prendere la direzione a lui più congeniale, anche in virtù delle incredibili ricchezze che aveva saggiamente accumulato senza farci niente.

    Quel corridoio, pavimentato con lastre di marmi policromi e abbellito dai muri color ocra, era solenne e vuoto come la sua stessa esistenza. Ascoltò il suono dei suoi passi strascicati protrarsi in echi voluminosi ed esasperanti.

    Ben poca cosa erano le statue silvestri, e i quadri che aveva appeso ovunque dopo averli cercati e acquistati nei più piccoli e grandi mercati d’Italia. E perdevano di valore anche le migliaia di libri che aveva letto, riletto e custodito meticolosamente, cibandosene con una voracità quasi disperata. A che servivano tutta quella cultura e quelle nozioni, se chi vi accedeva era privo della volontà di farne il miglior uso possibile? A quel modo, avrebbe provato di non aver imparato un bel niente. Si era solo limitato a immagazzinare una mole spropositata di parole e aneddoti.

    Chi avrebbe mai deluso, compiendo l’azzardo?

    Né il padre, né la madre erano più al mondo. Questi se n’erano andati sereni, confortati dalla certezza che quel figlio disgraziato avrebbe comunque condotto un’esistenza dignitosa, protetto dal buon nome della casata. Del fratello, poi, gl’importava ben poco.

    Nessuno, in verità, si era premurato di favorirlo o accrescere la sua reputazione. Perché allora non provvedere da sé?

    Aveva un sogno, Valerio. E aveva i mezzi per realizzarlo, o quantomeno per provarci. Che vi fosse riuscito o meno, poi, era del tutto relativo. Perlomeno avrebbe esalato l’ultimo respiro sapendo di non avere rimpianti, di non essere vissuto e morto in quel guscio d’apatia rifuggendo ogni rischio.

    Sospirando, avvolto nelle sue più comode vesti domestiche, Valerio si guardò attorno. Alla sera, la villa si svuotava. Era rimasto solo lui, nel cuore della notte, a vagare come un’anima in pena per quei corridoi ampi, luminosi. E tristi.

    S’interrogò, col cuore dolente, sulla sua vita. E capì che erano molte di più le cose che s’era rifiutato di fare, che quelle che aveva osato fare. Quell’approccio conservativo, figlio dei timori e delle restrizioni che tutti gli avevano imposto in virtù della sua cagionevole salute, aveva finito per nuocergli più del male oscuro che l’aveva reso fragile come un castello di carta.

    Ma ora, era lui il solo depositario della propria vita.

    A quarant’anni suonati era diventato impossibile da ignorare il richiamo dello spirito, l’esortazione a far di sé qualcosa di più di un debole e poco noto rampollo. Desiderava farsi finalmente uomo.

    Scivolò silenzioso come il fantasma in cui tempo e immobilismo l’avevano trasformato, i capelli lunghi e lucidi dopo averli a lungo lavati e asciugati. Evitò, alla sua sinistra, la svolta per il proprio studio che ospitava una libreria che avrebbe fatto impallidire tante biblioteche comunali. Accolse quel rifiuto scuotendo il capo.

    Chi l’avrebbe mai detto che avrebbe provato disprezzo per il suo più amato diletto?

    Andò invece nella direzione opposta, imboccando un corridoio che portava al giardino posteriore. L’uscita era bloccata dal sontuoso cancello nero in ferro battuto. Ma era proprio quel passaggio intermedio ad interessarlo. Assieme a ciò che conteneva.

    Appassionato sì di cultura Latina, ma anche di arte, Valerio aveva dato vita negli ultimi anni a una straordinaria collezione di busti.

    Alcuni, per suo vezzo, erano stati anche commissionati, risultandogli introvabili. Oh, quanti volti illustri intorno a lui!

    Li salutò col pensiero: Virgilio, Catullo, Cicerone, Seneca e altri sublimi poeti e pensatori dei tempi andati.

    Ma anche tanti uomini politici di spicco: Augusto, Marco Antonio, Tiberio, Marco Aurelio, Settimio Severo. A Valerio, contemplandoli, parve di respirare l’aria di un mondo antico, in cui gli uomini mai avevano temuto di farsi fautori del proprio destino.

    Ne convenne specchiandosi nello sguardo immortale di Giulio Cesare, che pareva concentrato su qualcosa di indefinito, ben oltre la comprensione dei mortali. Lui sì, si disse, che aveva osato!

    Sarebbe stato un buon esempio per lui, che aveva permesso alla poesia e alla vita agreste di diluire il suo spirito d’iniziativa.

    «Farei forse bene, o Divo Giulio?» gli chiese implorante.

    Ma fu qualcun altro a reclamare la sua attenzione. Pochi passi più in là, Valerio trovò il busto di Claudio Cesare. L’imperatore letterato, amante della storia antica, che seppe prevalere sulle sue menomazioni fisiche rivelandosi eccelso reggente.

    Zoppo, gobbo, balbuziente, impacciato. Eppure anche divulgatore, uomo giusto e magnanimo, conquistatore di interi regni.

    «Dovrei forse seguire le tue orme e aggrapparmi al tuo esempio, amico mio?» mormorò Valerio, quasi vergognandosene.

    Il volto di Claudio, non di certo bello ma che pareva assorto, restò immobile. A smuoversi, invece, fu la mente di Valerio.

    E con portentosa velocità, questa lo espose a un’idea incredibile.

    Più che una trovata una suadente fantasia, tanto spinta da risultargli sconveniente. Portandosi la mano alla bocca per lo sgomento, egli mugolò indietreggiando.

    Eppure, sentì che questo era realmente ciò che voleva.

    Desiderava il titolo di Senatore a Roma, e sognava d’inserirsi in quel mondo che si reggeva sulle trame del potere.

    Ma se mai vi fosse riuscito, perché fermarsi?

    Risollevando lo sguardo, sconvolto, gli parve che Claudio lo stesse fissando. Con un’espressione di subdola malizia.

    Sentendosi pericolosamente vicino a qualcosa di troppo incredibile per essere accettabile, Valerio lasciò il corridoio.

    La lasciva blasfemia di quel pensiero lo fece rabbrividire. Ma seppe anche sedurlo con dolce persistenza.

    Come nessuna donna od opera d’arte aveva mai saputo fare.

    VI

    Pegno d‘amore

    Roma, Agosto 1460 d.C.

    I muggiti delle vacche in lontananza, ancor prima che quanto gli era intorno, gli annunciarono che non era molto distante dall’area dei Prati. Di fronte ad Antemio apparvero le decine e decine di campi coltivati della zona, animata fin dal primo mattino da contadini e chi, come lui quel giorno, era in cerca di una giornata di lavoro come bracciante. Più lontano, all’orizzonte, erano i vigneti, e ancora più distanti le pendici del Monte Mario. Nei suoi pressi si snodava la Via Francigena, percorso scelto da frotte di pellegrini che ogni anno si recavano nell’Urbe. Perché in effetti, pensò Antemio, malgrado il paesaggio assai poco urbanizzato si era ancora entro le mura di Roma. O quel che ne rimaneva.

    Un tempo, quei pascoli che ora erano insidiati da ampie zone paludose erano stati proprietà imperiale. Infatti, nel tempo erano stati chiamati sia Orti Domiziani che Prati di Nerone.

    A giudicare dalle storie di quei due imperatori, titoli tutt’altro che lusinghieri.

    Quel futile divagare della sua mente lo allontanò per un poco dalle sue ansie, mentre avanzava in nell’atmosfera lattiginosa ma già asfissiante così tipica delle mattine estive Romane. Angosciato dai debiti, Antemio si era risolto a far qualsiasi cosa pur di placare il bieco appetito di Basilio e compagni. Sperava che anche qualche moneta gli potesse fruttare del tempo supplementare entro il quale restituire la gigantesca somma dovuta.

    Sul percorso sterrato vagavano anche altre persone: tanti ragazzi, ben più giovani di lui, cantavano e camminavano con passo baldanzoso felici di poter guadagnare qualcosa. Lui, invece, sembrava un condannato al patibolo. E aveva solo trent’anni.

    Si mormorava che il Papa ambisse a riqualificare quella zona negli anni futuri. Magari costruendovi l’ennesima basilica.

    L’idea lo rattristò: quei campi, in tal caso, avrebbero smesso di dare lavoro a centinaia di umili, senza contare che i lavori avrebbero spogliato l’Urbe spopolata di quel duro ma amabile angolo verde.

    La camminata, dopo qualche minuto, lo portò ad ascoltare i richiami del suo stomaco affamato. Sospirando, e rassegnandosi a razionare ulteriormente il poco che possedeva, armeggiò nella sua sacca consumata in cerca di una mezza galletta da addentare.

    La sua mano, però, afferrò qualcosa di spesso e freddo, estremamente consistente. Aggrottando la fronte sotto i riccioli sporchi e stopposi, Antemio estrasse l’oggetto.

    E quanto vide gli spense il respiro in gola. Portandosi la mano al petto tambureggiante, ammirò quell’oggetto meraviglioso.

    Un piccolo pendente, che culminava con una graziosissima Croce Cristiana in Oro, al centro della quale era una pietra smeraldina.

    Non gli occorse che un battito di ciglia per ricordare a chi appartenesse, e cosa esso rappresentasse.

    Ricordò Adriana, bellissima e radiosa nel giorno dello sposalizio, portarlo al petto. E lo sguardo sdegnoso della madre alla cerimonia.

    A lei era appartenuto quel gioiello stupendo, di sublime fattura, dal quale la figlia non s’era mai voluta separare.

    Per generazioni, la famiglia di Adriana l’aveva custodito. Da solo valeva più del resto della sua dote, anche della casa in cui vivevano.

    Non ci fu bisogno che Antemio si chiedesse perché lei l’avesse riposto nella sua sacca, quel giorno. Era ormai palese.

    Anche lei sapeva. E stava cercando, con quel immenso sacrificio, di aiutarlo. Senza badare ai pastori e ai braccianti intorno a lui, che lo guardavano straniti, Antemio crollò sulle ginocchia.

    E nella polvere, pianse di vergogna e gratitudine.

    Solo dopo diversi minuti, sospirando, riprese il cammino.

    Promettendo a sé stesso che già quella sera sarebbe andato al Foro. Sicuramente, lì avrebbe trovato il temuto Basilio.

    E questi, bramoso com’era, sarebbe stato estremamente felice di quanto avrebbe ricevuto.

    VII

    La luce del mondo

    Campania Settentrionale, Settembre 1460 d.C.

    Com’era bello, il mondo tutt’intorno! E com’era pericolante la terra sotto i suoi piedi, ora che aveva compiuto il grande passo!

    Si agitava senz’altro la paura, nel gracile animo di Valerio.

    Eppure egli non si era mai sentito tanto vivo, carico di energie fisiche e nervose, smanioso di vedere cosa il futuro riservava.

    E come se la natura fosse fiorita attorno a lui, nutrendosi della sua vitalità a lungo assopita, gli parve di vedere ogni cosa avvampare, farsi più vivace e rigogliosa. I colli adibiti a vigneti portavano alle sue narici l’aroma delicato delle foglie, mentre dalle aree più pianeggianti giungeva il pungente profumo degli agrumi.

    Gli uccelli cinguettavano deliziosamente, e il sole di mezzogiorno non era accecante e tedioso come al suo solito. Era una carezza leggera, quasi materna, che filtrava attraverso fitti i rami dei cipressi che costeggiavano quel viale ghiaioso che la sua carrozza andava percorrendo.

    Persino i rumori delle ruote che calpestavano le pietre e i continui sobbalzi gli erano graditi. Affacciandosi di nuovo e lasciando che l’aria gli scompigliasse i capelli, Valerio sorrise. Ebbe l’impressione che il suo volto stesse arrossendo di felicità.

    Qualcosa scorreva dentro di lui, da capo a piedi, un’energia roboante e che non intendeva certo contrastare.

    La ritrovata voglia di vivere, di aggredire il presente e far suo il futuro, di mettersi in gioco senza pentirsene mai.

    Stava andando a Roma!

    Portò alla sua bocca della frutta fresca di stagione, pasto che da sempre gli era stato consigliato dalle torme di medici e presunti tali che l’avevano preso in cura. Costoro, pur ostentando i loro ventri dilatati, l’avevano sempre dissuaso dal mangiare carne.

    Nelle viscere degli animali si poteva nascondere qualche morbo oscuro, potenzialmente letale per il suo fisico già debole.

    Ne rise sguaiatamente, tra sé e sé. Per come si sentiva quel giorno, non avrebbe certo disdegnato un bel pezzo di carne arrosto da mettere sotto i denti. Alla faccia della loro saccenteria!

    Si sentiva leggero, Valerio. Leggero e forte, come il vento che soffiava e investiva gli uomini piccoli e impotenti, obbligati a piegarsi al suo volere. E questo per un motivo assai semplice.

    Non gli importava più del parere di nessuno, se non del suo.

    In fondo, chi poteva dirgli cosa fare?

    Aveva accumulato migliaia di libbre d’oro e d’argento, senza mai spenderle. Era ora che investisse nella cosa più preziosa al mondo: le sue stesse e più intime aspirazioni.

    Nelle notti precedenti aveva continuato a sognare l’Urbe, che pur sapeva in uno stato desolante. La prolungata lontananza del Papato, provocata dallo scandalo Avignonese, aveva pesantemente afflitto quella che era stata la culla della civiltà Latina a lui tanto cara.

    Eppure, per le strade di Roma si poteva ancora respirare l’odore del potere, precluso ai più umili ma che diverse nobili famiglie ancora si contendevano, risolute e sospettose, affinché non fosse il Papa ad avere la definitiva supremazia politica.

    Sopra quella città che ricordava un museo aperto, Valerio aveva volato libero e soave come un uccello, librandosi sulle centinaia di monumenti dei quali aveva solamente letto o udito.

    Poi, il sole si era offerto a lui. Di un bagliore indescrivibile, l’aveva cinto col suo tepore venendogli incontro.

    E allora lui l’aveva ghermito, tendendo il palmo aperto della mano destra fino a che non era stato sul punto di farlo suo. Quell’estasi aveva sempre preceduto un brusco risveglio, di quelli in cui realtà e fantasia riescono a rimanere visceralmente attaccate per diverso tempo, turbando e affascinando l’animo umano.

    Non si era voluto staccare da quelle visioni, Valerio, e allora aveva tentato di dare ad esse un significato. Aveva vagato per i giardini in fiore, accarezzando gli arbusti e spiando gli animali selvatici quando questi abbandonavano i loro nascondigli. Stringendosi al petto quella natura che sapeva di dover abbandonare, si era detto che la luce del sole non poteva essere che Roma Immortale.

    Questa, che era parsa condannata al tramonto in favore di altri potenti domini, ancora risplendeva e ammaliava gli uomini.

    E alla luce degli avvenimenti politici degli ultimi anni, non ultimo il tracollo dell’impero d’Oriente per mano degli Ottomani, sembrava voler azzardare un’ultima e prodigiosa rinascita.

    In molti ne erano convinti, confortati anche dall’impulso dato dal ritorno del Papa nelle terre di sua proprietà.

    In un simile contesto, ribollente d’energie sotterranee e di premesse che facevano sperare in una rivoluzione culturale ma non solo, Valerio aveva sentito di poter fare la sua parte.

    Ci avrebbe messo tutta la sua buona volontà, a lungo accantonata per troppo zelo verso la casata. Ma avrebbe fatto uso anche delle sue smodate ricchezze e dello stesso buon nome degli Orsini, se necessario. Se Roma voleva un Summus Senator , avrebbe potuto trovarlo in un colto e forse stravagante nobiluomo di campagna.

    E se non avesse voluto, lui avrebbe fatto in modo di farle cambiare opinione assicurandosi il suo consenso col denaro sonante.

    Meglio aveva fatto il fratello Orso ad andarsene prima che lui decidesse. Che continuasse pure a fare il tirapiedi degli Aragonesi!

    La sua assenza gli aveva permesso di decidere più a cuor leggero.

    Nessuno, ripeté a sé stesso guardando gli alberi, poteva più dirgli

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