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Ovunque ci porti
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Ovunque ci porti
E-book413 pagine5 ore

Ovunque ci porti

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Info su questo ebook

Affascinante. Sexy. Irresistibile.
Ovvero: un sacco di guai.


Brynne Calloway sa bene che tutto ciò che sembra troppo bello per essere vero di solito è rischioso. Fenton Abbott con la sua voce vellutata, il corpo di un Adone e un magnetismo senza uguali rientra in quella categoria. Ma che razza di vita è quella in cui non si osa nemmeno un po'?
Reduce dall'ultima delusione d'amore, Brynne decide allora di fuggire dalla realtà per qualche giorno, gettandosi tra le braccia di Fenton e godendosi quella che avrebbe dovuto essere un'avventura senza complicazioni.
Le cose, però, non vanno proprio secondo i suoi piani.
Fenton si rivela essere molto di più che un “gran bel rischio calcolato” e Brynne, sorpresa dai suoi modi e dal suo carattere, si troverà a dover far i conti con un cuore, il suo, che desidera molto di più che un'avventura.
LinguaItaliano
Data di uscita8 set 2021
ISBN9788855313322
Ovunque ci porti

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    Anteprima del libro

    Ovunque ci porti - Adriana Locke

    Capitolo 1

    Fenton

    «Digli che ho avuto il suo messaggio ieri e che non è necessario che me lo succhi, ma ringrazialo per l’offerta.»

    Prendo il carrello della spesa più vicino e incastro il cellulare tra l’orecchio e la spalla. Quasi scivola per via dei muscoli rigidi: tutta la schiena sta protestando, risultato della stanchezza dopo l’allenamento che si aggiunge allo stress dovuto al lavoro.

    Duke non cerca neanche di nascondere la frustrazione e lo sento sospirare. «Fenton, non è così.» La sua voce è carica di esasperazione. «Non ha chiesto di farti un pompino.»

    «Certo che no, ma voglio sentirlo quando dovrà negarlo.»

    «Sai una cosa? Dimenticati che ti abbia chiamato. Gli rispondo qualcosa io.»

    «Ecco, direi che questa è l’idea migliore che tu abbia avuto finora.»

    Duke sospira di nuovo, ancora più forte. Non c’è dubbio che io mi sia comportato da stronzo fin da quando l’ho assunto, ma lo avevo messo in guardia. Tutta la situazione è stata un vero casino fin dall’inizio. Non c’è niente di più frustrante del non essere in grado di risolvere un problema perché hai le mani legate mentre ti viene ricordato che il problema esiste. Lo so bene che esiste, ne sono molto consapevole e nessuno vuole risolverlo più di me.

    «Mi limiterò a dir loro che la situazione non è cambiata.»

    «Avrei potuto occuparmene io» replico stizzoso.

    «Lo so, lo so.»

    «Ma non me lo lasciano fare.»

    «Lo. So.»

    «Lo so che lo sai. Cerca di farlo capire anche a loro. Sto rispettando le regole in questo momento, ma inizio a perdere la pazienza con i loro...»

    «Fenton, devi rispettare le loro regole, altrimenti...»

    «Sto entrando nel negozio» lo interrompo. «La ricezione sarà pessima.»

    «Ci sentiamo presto» risponde Duke, come se fosse già pronto a porre fine alla conversazione. Quando riattacca infilo il telefono nella tasca dei pantaloni della tuta. Ho la mascella rigida, l’energia dell’allenamento mattutino ormai scomparsa.

    Ignoro gli occhi di un uomo dall’aspetto severo che studia le mele e dirigo il carrello a sinistra per evitare interazioni. Non so perché ho deciso di venire a fare la spesa proprio oggi. Avrei potuto aspettare altri tre giorni, fino al rientro dalle vacanze della mia governante.

    Abbandonate le mele e l’energia negativa dell’uomo arcigno, punto verso le banane. Devo ritrovare l’ottimismo che avevo cinque minuti fa, prima che Duke mi chiamasse dall’ufficio e mi rovinasse il sabato mattina.

    Le banane sono biologiche e perfettamente mature. Ne scelgo un casco e faccio per allontanarmi quando avverto uno strano brivido e una sensazione di disagio colpisce il mio subconscio. Mi fermo e mi guardo intorno. Non noto niente fuori dall’ordinario, solo persone che gironzolano e pensano ai fatti loro. Faccio per allontanarmi con il carrello quando individuo la causa: un pezzo di plastica nera sbuca da dietro un casco di banane, e le luci al soffitto che vi rimbalzano sopra hanno catturato la mia attenzione.

    Allungo la mano e tiro fuori un cellulare nero. Lo giro e osservo che non ha neanche un graffio. Premo il pulsante tondo in basso e lo schermo si illumina.

    Due splendide ragazze, forse un paio di anni più giovani di me, sui venticinque, mi fissano. La bruna indossa un bikini bianco striminzito e fa il simbolo della pace con le dita. È uno schianto. Ma è la bionda che attira la mia attenzione. È seduta a gambe incrociate sulla spiaggia, in short e canotta, i capelli sciolti sulle spalle. Il corpo è coperto, la posa di assoluto contegno, ma qualcosa che non so ben definire mi colpisce, tanto che non riesco a staccare lo sguardo da lei: gli occhi blu-verdi mi scherniscono, mi provocano in un modo che mi incanta. Mi sembra di cogliere una traccia di vulnerabilità dietro alla sua sicurezza, e questo mi fa venir voglia di sentire la sua voce, di sapere che cosa sta pensando.

    Sono talmente ridicolo che mi viene da ridere, eppure l’ondata di calore che mi corre nel sangue è innegabile. Mi guardo di nuovo intorno: nessuno sembra stare cercando un telefono.

    Torno a fissare lo schermo e i miei occhi cercano subito la bionda. Faccio scivolare il pollice sul display, lungo la curva del suo fianco.

    Dovrei portare il telefono in direzione, sarebbe la cosa logica e responsabile da fare.

    Ma resto dove sono.

    Perdere il telefono tra le banane non è un gran segno di responsabilità.

    Faccio un respiro e valuto le varie opzioni. Posso portarlo al banco informazioni e sperare che glielo diano se torna a cercarlo. Oppure... potrei provare a mettermi in contatto con lei.

    Continua a dirti che stai giocando al Buon Samaritano.

    Mi appoggio al banco dove è esposta la frutta e analizzo brevemente la situazione. Le probabilità che lei lo ritrovi al banco Assistenza Clienti non sono alte, forse cinquanta-cinquanta. Qualche ragazzo addetto a imbustare vedrà la foto dello schermo di blocco e se lo porterà in bagno per farsi una sega, sì, è molto probabile che accada proprio qualcosa del genere. Le mie chance di indovinare la password non sono grandiose, ma aumenterebbero di molto la sua possibilità di tornare in possesso del telefono.

    E mi consentirebbero di vedere quegli occhi dal vivo.

    Digito 0000.

    Sullo schermo appare Password errata.

    1234.

    Password errata.

    Con i gomiti comincio a spingere il carrello verso il banco dell’Assistenza Clienti, e intanto penso alle password possibili per fare un altro tentativo. Ho un’ultima possibilità prima di venire bloccato, e allora non avrò altra scelta se non abbandonarlo al commesso e alla sua pausa bagno.

    Opto per 1111, un’altra password strausata.

    Sento un click e lo schermo di blocco scompare: il telefono quasi mi scivola dalle mani da tanto sono sorpreso. Ha funzionato. La schermata iniziale ha uno sfondo dorato pieno di app in attesa di essere esplorate.

    Dovrei farlo oppure no?

    Sfioro la galleria con il pollice e vedo la prima foto.

    Dovrei, senza dubbio.

    Capitolo 2

    Brynne

    L’enorme e scandalosamente costoso divano color crema attutisce la mia caduta. Atterro a faccia in giù sui cuscini e mi lascio affondare nell’imbottitura di piuma.

    «Salterà fuori» mi rassicura la mia migliore amica, Presley Bradshaw, dall’altra parte della stanza. «Sarà qui da qualche parte, solo che non riusciamo a trovarlo.»

    «Abbiamo guardato ovunque.» La mia voce è soffocata e credo che Pres non possa sentirmi, ma sono troppo sconfortata perché mi importi.

    Su quel cellulare ci sono i ricordi della mia vita, soprattutto della mia vita prima che tutto andasse a catafascio. Foto dei falò in spiaggia con Presley e il nostro piccolo gruppo di amici. Messaggi di mio fratello prima che lasciasse il Paese per lavoro. La mia musica, i miei appunti, la mia vita intera è archiviata su quello stupido. Piccolo. Telefono.

    Tanto vale che io resti stesa qui finché non muoio.

    «Brynne. Terra chiama Brynne.»

    Con un gemito raccolgo energia sufficiente a rotolare su un fianco. Presley mi sta guardando con un sopracciglio perfettamente inarcato.

    «Che c’è?» borbotto.

    «Lo troveremo. Se non lo troviamo, ne prenderemo un altro.»

    «Non ne voglio un altro. Voglio il mio.»

    «Che ti importa? È un telefono, Brynnie. Te ne prenderemo uno più bello! Te ne comprerò uno come il mio e faremo finta che sia un regalo di compleanno.»

    «Non è per quello. Non ho fatto il backup delle mie cose.»

    Ci scambiamo uno sguardo e vedo il momento in cui si rende conto del mio dramma, perché cambia espressione.

    «Già.» Mi tiro su a sedere e mi trascino un cuscino in grembo, ne ho bisogno per scaldarmi l’anima e per trovare un po’ di conforto. Ma se c’è una cosa che so sul trovare conforto è che non sarà un cuscino a darmelo. Se fosse così facile, gli ultimi mesi non sarebbero stati così difficili da affrontare.

    Presley si siede al mio fianco. «Hai idea di dove puoi averlo lasciato? Pensa a quello che hai fatto. Qual è l’ultimo posto in cui lo avevi?»

    Stavo parlando con mia madre che mi aggiornava su Brady, in realtà solo per dirmi che non ci sono novità. Mio fratello è sparito quattro mesi fa e sono settimane che non si sa nulla di nuovo. Dicono che, quando si ha a che fare con i terroristi, il silenzio sia meglio delle minacce, ma non ne sono sicura. Forse il silenzio significa che non c’è più niente da discutere, ma non ho intenzione di dirlo a mia madre, e non solo perché potrebbe non reggere l’idea: non credo che riuscirei a dirlo a voce alta, il solo pensiero mi fa venire voglia di morire.

    «In quel caffè» rispondo. «L’ho infilato in tasca quando ho pagato il latte macchiato. Quello è l’ultimo posto in cui sono sicura di averlo avuto con me.»

    «Non dirmi che al bancone c’era il figo con la cresta e che ti sei fatta distrarre.»

    «Nooooo.» In realtà è andata più o meno così, o molto così. Ma non l’ho perso lì perché sono tornata a controllare... e ne ho approfittato per farmi dare il numero del barista con la cresta. Non ho intenzione di dirlo a Presley, però, perché si esalterebbe tutta e inizierebbe a progettare il nostro matrimonio, e in questo momento non ne ho bisogno. Quello di cui ho bisogno è il mio dannato telefono.

    Presley alza gli occhi al cielo perché sa che sto mentendo, poi si attorciglia i capelli in uno chignon in cima alla testa. «Parleremo dopo del signor Mohawk e scoprirò perché la tua faccia ha appena fatto quella cosa» commenta, agitando un dito nella mia direzione. «Per ora spremi le meningi. Che cosa è successo dopo che hai lasciato il caffè?»

    «Sono passata all’ufficio postale, sono andata all’Angel's Market, mi sono fermata a fare benzina e poi sono venuta a casa.»

    «Hai già chiamato tutti quei posti? Magari qualche brava persona l’ha trovato e lo ha consegnato.»

    «Ho chiamato dal tuo telefono mentre eri in doccia. Nessuno l’ha visto» sospiro. «Sono fregata.»

    La mia amica mi rivolge un sorriso triste, poi apre e richiude la bocca un paio di volte. Anche se non voglio sentire quello che ha da dire so che prima o poi dovrò farlo, quindi tanto vale togliersi il pensiero.

    «Che c’è?» le chiedo.

    «Non prenderla così.»

    «Così come?»

    «Come la stai prendendo.» Scuote la testa. «Con quell’espressione come se il mondo ce l’avesse con te. Perché non è così.» Cambia posizione, allontanandosi un po’ da me, non so se per darmi più spazio o per evitare che la strangoli. Sono entrambe idee valide.

    Voglio bene a Presley, ma la sua incapacità di non dire tutto quello che pensa a volte mi porta a odiarla... come in questo momento.

    «Il mondo ce l’ha con me, è proprio l’impressione che dà, Pres.»

    «Ascolta, la gente perde il telefono ogni giorno, non è una cospirazione.»

    «La mia vita è la prova lampante che l’universo odia certe persone. Un anno fa devo aver fatto qualche terribile torto al mondo, così ha deciso di fottermi.»

    «Smettila.»

    «Lascia che ti rinfreschi la memoria» replico, adirata. «Vengo accettata nel college dei miei sogni e, non appena finisce il fermo con i Marines, riesco a fare innamorare di me Grant McDaniels, il migliore amico di mio fratello nonché il ragazzo per cui ho avuto una cotta colossale per sei lunghi anni. Passiamo un anno stra-to-sfe-ri-co insieme, il migliore della mia vita, poi parte per l’Africa per qualche cazzo di lavoro e, quando torna, non è più quello di prima. Nel giro di quattro mesi lo becco con un’altra e Grant propone un lavoro a mio fratello. Tornano in Africa... e mio fratello scompare. Dulcis in fundo, sono costretta a lasciare gli studi per affrontare tutta questa situazione.»

    «So quanto sia stata dura per te, ero qui, l’ho visto.»

    «Allora dimmi come ho fatto a fare incazzare il karma.»

    «Non lo hai fatto. È solo un brutto allineamento astrale, non è una cosa personale.»

    «Oh, è personale eccome.» Mi alzo dal divano e mi volto verso di lei. «Come può non esserlo? La mia vita è passata da essere praticamente perfetta a un disastro totale nel giro di pochi mesi. Come fa a non essere personale?»

    «Le cose brutte capitano a chiunque, ogni giorno» è pronta a rispondere Presley. «Le persone che sopravvivono alla vita senza diventare dei completi stronzi sono quelle che riescono a vedere il lato positivo e ad andare avanti.»

    «Ci sto provando. Sto provando con tutta me stessa a restare lucida e a pensare che Brady tornerà a casa, e che tutta questa storia cambierà la nostra famiglia in meglio. Che guardare il mio ragazzo scoparsi una bionda sul pavimento del bagno può aver portato qualcosa di positivo nella mia vita. Ora come ora, però, la sensazione è che qualcuno mi stia punendo. Sono stata inghiottita da questa spirale negativa e non riesco a uscirne.»

    «Può esserci qualcosa di positivo per la storia di Grant, ma non per Brady.» Le labbra di Presley ora hanno una piega triste. «È un miracolo che tu non sia crollata del tutto. Voglio dire, è andato nello Zimbabwe ed è stato rapito, hai tutto il diritto di essere incazzata.»

    «E lo sono.»

    «Ma sono convinta che tutto andrà a finire bene. Brady è tosto, sveglio.» Si lascia quasi sfuggire un sorriso. «Ed è un gran figo.»

    «Presley...»

    La sua risatina fa breccia nel mio umore tetro.

    «Piantala» l’ammonisco, cercando di non scoppiare a ridere. So che lo sta facendo solo per stemperare la tensione, anche se in fondo lo pensa davvero: dopo averlo incontrato per la festa del Ringraziamento due anni fa, Presley mi ha fatto notare più volte che mio fratello è sexy come il peccato, e quando ha scoperto che è un medico è rimasta a bocca aperta. Almeno non gli ha chiesto di visitarla.

    «Proviamo a richiamare il tuo numero. Se non lo troviamo, andiamo dal gestore telefonico e ne prendiamo uno nuovo» propone, nel suo solito modo tranquillo. «Vediamo se riescono a disabilitare il tuo vecchio telefono da remoto, o qualsiasi tipo di magia possano fare.»

    Sto per controbattere ma la sua espressione mi blocca. «Okay» convengo, rassegnata. «Facciamo un tentativo.»

    Presley prende il telefono. «Dobbiamo andare da qualche parte per il weekend. Uso la carta di credito di mio padre dato che la mia è al limite, grazie alla svendita da Kitson su Melrose.» Si picchietta il labbro con il dito. «Cosa ne pensi di Tybee Island?»

    «Penso che tu sia pazza.»

    Non è la prima volta che glielo dico e lei si limita a ridere. Quando l’ho conosciuta in spiaggia, un paio di estati fa, non avrei mai immaginato che fosse così spensierata: si stava lamentando per una macchia di vino rosso sul nuovo bikini bianco e l’avevo scambiata per una stronza snob. Lei però mi ha fatto cambiare idea in fretta, poi mi ha offerto un bicchiere del vino responsabile del danno. Da allora siamo state inseparabili.

    «Non sono pazza, sono divertente. C’è un’enorme differenza.»

    Prima che abbia modo di continuare il telefono le squilla in mano, e una melodia bizzarra riempie la stanza.

    «Pronto?» Gli occhi le si illuminano mentre ascolta, e un lento sorriso le piega le labbra. «No, non ho perso il telefono, ma la mia amica sì.»

    «Qualcuno l’ha trovato?» Copro la distanza tra noi e mi piazzo proprio di fronte a lei. Le faccio segno che voglio altre informazioni ma lei agita una mano per zittirmi.

    «Sì, è stata una giornata fantastica in spiaggia.» Si fa aria al viso, gli occhi che le brillano maliziosi. «Io sono quella con il bikini bianco. Mi chiamo Presley Bradshaw, a proposito.»

    Continua ad ascoltare e mima Oh mio Dio con le labbra. «L’altra ragazza è Brynne Calloway. È suo il telefono che hai trovato.»

    «Dove?» grido. Sto quasi saltellando per la gioia, e dentro di me sto recitando una preghiera di ringraziamento per il fatto che un buon samaritano l’abbia trovato. Sto anche giurando che sarò una persona migliore, che farò di tutto per espiare i miei peccati e mangerò meno Snickers, qualsiasi cosa pur di far durare questa ondata di positività.

    «Certo» tuba Presley. «Assolutamente. Davvero gentile da parte tua. Non sappiamo dirti quanto lo apprezziamo. Ci saremo.» Chiude la chiamata e sospira con occhi sognanti. «Che figo pazzesco.»

    «Non puoi dirlo solo dalla voce.»

    «Aspetta di sentirla.»

    Alzo gli occhi al cielo. «La cosa importante è che abbia il mio telefono. Ce l’ha, vero?»

    «Sì! Sì, ce l’ha» ripete con una cantilena. «E ci sta aspettando all’Angel's Market.»

    «Sarà un senza tetto» osservo. Vado alla porta ed esco in strada, puntando verso la Mercedes di Presley. «Dobbiamo dargli una bella ricompensa.»

    «Be’, è un senzatetto con una voce che sembra cashmere» cinguetta Presley mentre si mette al volante. «E se di aspetto è figo la metà di quanto lo è di voce, sarò felice di stendermi davanti a lui come buffet di ricompensa.»

    Il sole del primo pomeriggio filtra attraverso il finestrino e riflette un caleidoscopio di colori dal cristallo che penzola dallo specchietto retrovisore.

    Quel calore non si limita a diffondersi attraverso il vetro: penetra anche nella mia pelle. È come se la Vitamina D mi affondasse nell’animo, evocando picnic e giornate pigre in spiaggia. Non sono ricordi di quest’ultima estate, però: l’ultima giornata che ho passato in spiaggia è stata con Presley, il pomeriggio in cui ho beccato Grant che mi tradiva.

    «Brynne.» Grant aveva detto il mio nome come se stesse solo provandone il suono, la voce calma, una strana contraddizione rispetto all’ansia nei suoi occhi. Non aveva neanche cercato di staccarsi dalla donna stesa sotto di lui, nuda, le labbra rosse piegate in un sorrisetto rivolto a me.

    «Che cosa stai facendo?» avevo gridato, la mano sulla bocca per non vomitare mentre, piena di orrore, l’avevo guardato scivolare fuori dal corpo di lei.

    Eppure non ero riuscita a staccare gli occhi dal disastro totale che avevo di fronte, con Grant che aveva gettato un asciugamano sul corpo di lei per cercare di coprirla in qualche modo. La mia vista era appannata da lacrime brucianti che si accumulavano senza riuscire a scorrere via.

    «Che cosa stai...» Mi ero bloccata prima di ripetere la domanda. «No, non rispondere.»

    Grant era rotolato via da lei ma non era venuto verso di me. Non aveva fatto alcuno sforzo per consolarmi, né aveva cercato scuse, non che avrebbe fatto alcuna differenza.

    «Vai a fare in culo» avevo sibilato.

    «È complicato» aveva detto Grant a quel punto, la stessa strana calma di prima nella voce.

    «No, invece è semplice» avevo replicato. «Sei lo stronzo più patetico che io abbia mai incontrato.»

    Avevo fatto dietrofront ed ero fuggita. Grant non mi aveva chiamato e io non mi ero voltata indietro.

    Allora non lo sapevo, ma quel giorno aveva segnato l’inizio di una valanga di tristezza nella mia vita.

    «Vuoi andare al mare dopo che abbiamo recuperato il telefono?» chiede Presley, strappandomi ai ricordi e captando in qualche modo la mia voglia di spiaggia. «Potremmo passare lì il pomeriggio, sarebbe divertente.»

    Faccio spallucce invece di risponderle, e la spallina del top magenta scivola giù. Il sole mi scalda e mi ritrovo a sporgermi di più verso la sua luce. Qualcosa nel modo in cui il sole riesce a farmi stare meglio, come ha sempre fatto da quando ero bambina e mi stendevo sul poggio dietro casa a leggere riviste, mi porta a rendermi conto di una cosa: Presley ha ragione, non posso farmi risucchiare di nuovo nel vortice dell’autocommiserazione. È facile scivolare in quella trappola, poi però uscirne è come cercare di tornare dall’inferno.

    Lancio un’occhiata alla mia amica e vedo che sta ballando sul sedile al ritmo di un brano alla radio. Voglio davvero riuscire di nuovo a catturare la sensazione di essere viva e felice di esserlo, ho solo bisogno che qualcosa funzioni da scintilla.

    «Sì, andiamo in spiaggia dopo» dico allora. Le parole hanno un buon sapore in bocca, così buono che mi raddrizzo sul sedile. «Compriamo del vino da pochi soldi, qualche piatto messicano e vediamo in che pasticci riusciamo a cacciarci.»

    «Affare fatto!» Presley è raggiante. «E che mi dici di Tybee Island? Ti va l’idea?»

    «Questa settimana lavoro,» la informo con voce lamentosa «e non posso mancare. Non posso chiedere aiuto ai miei genitori per la retta universitaria quest’autunno, hanno speso così tanti soldi per trovare mio fratello che non posso proprio considerarlo.»

    «Capisco.»

    «Potrei avere qualche giorno libero la prossima settimana, però, se davvero vuoi propormi una mini-fuga.»

    «Sì!» esclama, svoltando in una strada secondaria. «Lo prendo come un segno che la mia migliore amica è tornata.»

    «Ci sto provando.»

    Presley spegne la radio. «Sai, Brady non vorrebbe vederti avvilita. Vorrebbe che tu vivessi la tua vita e fossi felice.»

    «Lo vuole» la correggo, cercando di non rabbrividire. «Lo vuole, perché è vivo.»

    «Certo che è vivo.»

    Non riesco a evitare la paura che mi assale al pensiero che potrebbe essere vero anche il contrario, che esiste anche quella possibilità.

    Anche se Presley è diventata la mia migliore amica, Brady e io siamo sempre stati molto affiatati. Crescendo abbiamo cambiato scuola tre volte, eravamo sempre gli ultimi arrivati, così abbiamo finito con il passare un sacco di tempo insieme: giocavamo a scacchi e ai videogiochi, pescavamo, leggevamo libri. Il mio mondo non sarebbe lo stesso senza di lui, e le settimane da quando siamo stati informati che era stato preso da Nekuti, un’organizzazione terroristica africana, sono state le peggiori della mia vita. Vorrei solo che mi avesse ascoltato.


    «Non andare» gli avevo detto guardandolo negli occhi, immagine speculare dei miei. «Brady, non puoi. Non vale il rischio.»

    «Ma devo. Sento che è proprio quello che ho bisogno di fare.»

    «Perché lo Zimbabwe? Perché fin laggiù? Con Grant, poi! Qualcuno da cui mi hai consigliato di stare alla larga!»

    «È diverso.»

    «Perché?» gli avevo chiesto, fissandolo al di sopra delle tazze di caffè fumante che avevamo in mano. «Mi hai detto di non riprendermelo. Sei stato tu a dirmi che c’era qualcosa di strano in lui e che troncare la nostra relazione era la soluzione migliore. Perché sei ancora suo amico allora? E soprattutto, se quello che dici è vero, perché stai per seguirlo all’altro capo del mondo? Per la prima volta nella tua vita, Brady Stewart Calloway, quello che dici non ha senso.»

    «Grant non è una minaccia per me, Brynne. Sono suo amico da quasi dieci anni, e con me è lo stesso di sempre. Ma è vero, ha qualcosa che non va. Sei la mia sorellina ed eri la sua ragazza, tu sì che potevi farti male con lui.»

    «Tipo come?»

    «Tipo se ti avesse tradito, come ha fatto.» Gli occhi di Brady si erano fatti più scuri. «O se fosse rimasto coinvolto in qualcosa in cui non avrebbe dovuto essere coinvolto.»

    Un brivido mi aveva attraversato il corpo. «A che cosa ti riferisci?»

    Lui aveva alzato le spalle. «Non lo so. Potrebbe aver assistito a delle cose che lo hanno cambiato. Hai visto anche tu che non è più il ragazzo cordiale e alla mano che era un tempo. È sempre teso, calcolatore, introverso. Ti meriti di meglio, e lo dico pur essendo suo amico.»

    «E pensi che sia una buona idea andare nel luogo che forse lo ha cambiato?»

    «Io non vado come guardia privata: vado come medico. Il mio cuore mi dice di andare. È la mia vocazione, Brynne.»

    Avevo cercato di capire. Avevo apertamente appoggiato la sua folle idea, anche se mi sembrava un terribile errore. Gli avevo dato una mano con le pratiche burocratiche, lo avevo persino aiutato a preparare l’attrezzatura prima della partenza. Avevo sentito l’eccitazione nella sua voce, e la scintilla che aveva nello sguardo quando parlava della differenza che avrebbe potuto fare per la gente dello Zimbabwe, nei sei mesi in cui sarebbe stato via, era innegabile.

    Quando entriamo nel parcheggio dell’Angel's Market, non vedo nessuno che ci aspetta con un telefono in mano. Presley spegne il motore, scendiamo e ci dirigiamo verso l’ingresso principale.

    «Che cosa sappiamo dell’uomo del mistero, a parte il fatto che ha una voce che sembra cashmere?» chiedo a Pres che si sta calando gli occhiali da sole sugli occhi.

    «Si chiama Fenton e ci aspetta accanto alle banane.»

    È in quel momento che, all’improvviso, la memoria mi si riaccende. «Le banane! Ecco dove l’ho appoggiato» esclamo. «Ora ricordo! L’ananas ha fatto un buco nel bicchiere del caffè e sono dovuta andare a buttarlo nel cestino! Sì, scommetto che è proprio lì.»

    «Non c’è bisogno di scommettere» commenta Presley mentre le porte si aprono per farci entrare. «Lui ha detto che era lì.»

    «Sono così...»

    Un piccolo sussulto sostituisce il resto della frase.

    Capisco subito che è lui perché, comunque sia una voce come cashmere, quell’uomo ha l’aspetto di uno che ce l’ha. È alto, almeno un metro e novanta, con capelli corvini e pelle di un caldo colore olivastro. Indossa dei pantaloni neri e una T-shirt dello stesso colore che aderisce alle braccia muscolose e al petto ampio. È in piedi accanto alle banane e sta digitando su un cellulare bianco, che per fortuna non è il mio.

    «Dio mio» borbotta Pres mentre ci avviciniamo.

    Lui solleva lo sguardo, vede prima Presley, poi lo sposta e lo punta su di me.

    Lo scontro tra i nostri sguardi mi manda quasi al tappeto, tanto che inciampo, i passi all’improvviso incerti sotto l’intensità di quegli occhi. All’inizio mi sembrano azzurri poi, osservando meglio, mi rendo conto che sono grigi, un colore acciaio che non è né caldo né freddo, solo intenso.

    Non so che cosa pensare di lui, non riesco a decifrarlo perché è troppo bello, troppo maschio, troppo intossicante quando ci avviciniamo abbastanza da avvertire il costoso profumo di muschio della sua colonia.

    Poi sorride, le labbra piene si allargano verso le guance coperte da un velo di barba, e sono sicura che mi si piegheranno le ginocchia e finirò per terra in un imbarazzante mucchio di sostanza gelatinosa.

    Presley, sempre sul pezzo, si getta indietro i capelli prima di tendergli la mano. «Sei l’uomo che sto cercando.»

    Se fossi in grado di reagire alzerei gli occhi al cielo al suo doppio senso, invece mi limito a fissarlo come il personaggio di un cartone animato. Probabilmente ci sono dei piccoli cuoricini che mi escono dalle pupille ed esplodono proprio sopra la mia testa.

    «Potrebbe essere» risponde lui, guardandola.

    «Vuoi il mio nome o qualcosa del genere come conferma?»

    «Be’, mi hai detto che il telefono era della tua amica.» La voce è morbida e ricca proprio come l’ha descritta Presley. «Se è così, è il suo nome che dovrei farmi dire.»

    La sorpresa di Presley è pari alla mia. Si voltano entrambi a guardarmi.

    «Se me lo mostri, posso dirti se è il mio» borbotto.

    Il suo sorriso si fa ancora più luminoso. «Sono certo che sia il tuo. Ci sono le tue foto.»

    «Hai guardato le mie foto?» esclamo, avvertendo un calore sulle guance. «Non avevi il diritto di farlo!»

    «Come altro avrei potuto essere sicuro che venisse a riprenderselo la persona giusta?»

    Non ha tutti i torti, ma non sono comunque d’accordo. Non voglio litigare, però, non finché non ho recuperato il telefono. Si è trattato di un’invasione della mia privacy e dovrei essere offesa, o almeno far finta di esserlo, ma non lo sono. Neanche quando provo a scavare alla ricerca di quella reazione.

    «Grazie per averlo trovato e per avermi rintracciato. Posso riaverlo ora?» gli chiedo.

    Lui infila una mano in tasca, troppo vicino all’area dei genitali per i miei gusti, e lo recupera.

    «Grazie» sussurro. Nel prenderlo gli sfioro il palmo con la punta delle dita e il contatto mi manda dei brividi lungo la schiena.

    «È stato un piacere.»

    «Vorremmo sdebitarci» interviene Presley, battendo le ciglia davanti a lui. «C’è qualcosa che possiamo fare?»

    Lui le rivolge uno sguardo prima di riportare l’attenzione su di me. «Primo, cambia la password. È stato davvero troppo facile accedere alle tue informazioni, non penso sia necessario che ti spieghi quali avrebbero potute essere le conseguenze se fosse caduto nelle mani di qualcun altro.» Inarca le sopracciglia. «Scegli una sequenza casuale.»

    Arrossisco alla sua raccomandazione.

    «Secondo, mi piacerebbe portarti fuori a cena stasera.»

    Capisco che Presley sussulta per la sorpresa, ma né io né lo sconosciuto dall’aspetto esotico la degniamo di uno sguardo. Siamo in mezzo a un negozio affollato ma potremmo anche essere soli.

    «Non è necessario» sussurro.

    «A che ora posso passare a prenderti?»

    «Oh, io, ehm...»

    Sorride come se avesse appena ottenuto una piccola vittoria. Ogni pensiero coerente svanisce dalla mia mente, sostituito da visioni lussuriose del suo corpo slanciato nudo. Vista la sua espressione compiaciuta, mi chiedo se possieda qualche forma di telepatia e sia in grado di leggere nel pensiero. Presley mi si avvicina e mi dà un colpetto con il gomito.

    «Le sei possono andare bene per te?» insiste intanto lui.

    Non mi funziona più la bocca, le parole non

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