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Sacrificio
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E-book470 pagine6 ore

Sacrificio

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Info su questo ebook

La mia vita è cambiata per sempre, la notte in cui mio marito è morto.
Mi sono rimasti solo un cuore spezzato, un mucchio di bollette e nostra figlia, Everleigh. Non voglio fare affidamento su nessuno, men che meno su Crew Gentry. È stato il mio primo amore, la persona che mi ha quasi distrutto e l’uomo che mi ha deluso ogni volta che ho avuto bisogno di lui.
Quando però vengo travolta da un altro tragico evento, Crew potrebbe rivelarsi la mia unica speranza.

La mia vita è cambiata per sempre la notte in cui mio fratello è morto.
Mi sono rimasti il senso di colpa, un mucchio di errori e poco altro.
Mi prendo cura di Julia Gentry, la vedova di mio fratello, ma anche l’unica donna che abbia mai amato, e della loro figlia. So che lei non vuole il mio aiuto, ma lo avrà comunque. Le devo almeno quello.
Quando si trova a dover affrontare un’altra tragedia, e mi viene data l’opportunità di rimediare, la afferro, disposto a ogni sacrificio.
 
LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2020
ISBN9788855312042
Sacrificio

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    Anteprima del libro

    Sacrificio - Adriana Locke

    Capitolo 1

    CREW

    Il fango misto a neve scricchiola sotto i miei stivali e il mio respiro fluttua allontanandosi da me.

    Chino di più la testa e con una mano tiro fuori il cappuccio della felpa da sotto la giacca, per coprirmi meglio. Con l’altro braccio tengo il sacchetto di carta, sperando che non si rovesci nulla sull’asfalto bagnato. I resti dell’ultima nevicata sono ammucchiati sotto gli alberi e ammassati all’ombra dei grandi complessi di condomini che incombono.

    Il quartiere è pieno di vita, nonostante il freddo pungente. La gente siede sotto i portici delle case bifamiliari e fuori dagli appartamenti; alcuni fumano roba che di sicuro non è tabacco. Il fumo esce dai camini delle poche case singole della zona. Molte sono fatiscenti, quasi marce fino alle fondamenta.

    Digrigno i denti.

    Odio il fatto che vivano qui.

    Intravedo l’abitazione. C’è una sedia di legno posizionata a destra della porta, con sopra un cuscino sbiadito a strisce rosse e gialle. I gradini del portico sono malmessi; devo evitare il secondo perché sul lato destro c’è uno squarcio che divide il legno e sono abbastanza sicuro che, se lo calpestassi, sprofonderei. Faccio una smorfia e prendo mentalmente nota di chiamare il suo padrone di casa: al pezzo di merda potrà anche non fregare nulla di questo posto, ma lo sistemerà.

    Ci penserò io.

    Busso alla porta con le nocche. È dannatamente freddo, anche per Boston a fine febbraio; il clima ideale per una dura giornata di lavoro al porto, a scaricare le merci. Nel pomeriggio l’aria si era scaldata un po’, ma, ora che il sole sta calando, il freddo penetra attraverso il mio giaccone Carhartt. Mi porto le mani alla bocca e le strofino, soffiando per riscaldarle.

    Busso di nuovo, diventando impaziente. Sento della musica oltre la porta, quella roba di John Mayer che lei ha sempre amato.

    Un forte trambusto – qualcosa tipo un pezzo di legno che sbatte su qualcos’altro, seguito da un urlo – giunge dall’appartamento accanto. Infreddolito e irritato, giro la maniglia per farla scattare, sperando che lo sbatacchiare della porta la costringa a smettere di fare quello che sta facendo per venire ad aprirla. Contraggo la mascella quando si apre senza problemi. Un frammento di vernice dell’anta cade sulla piastrella sottostante.

    Cosa diavolo le è saltato in mente?

    Entro, abbasso il cappuccio e scruto la cucina. La musica proviene dal suo telefono sul bancone e una pentola bolle sui vecchi fornelli a gas. Noto che il lavandino è pieno di piatti e non è da lei; di solito è precisa quando si tratta dei dettagli, si prende cura di tutto ciò su cui può avere il controllo. Può essere fastidioso da morire, ma credo che sia una specie di reazione a tutta la merda che non è in grado di controllare nella sua vita.

    Appoggio il sacchetto sul tavolo, facendo traballare il cestino di mele posato sopra. Quando sbuca da dietro l’angolo, i suoi occhi castani si spalancano mentre afferra lo stipite della porta: ovviamente non mi aspettava.

    «Maledizione, Crew!» esclama Julia, stringendosi il petto con una mano. Le sue spalle si rilassano e dalle labbra le sfugge un piccolo sospiro. Sono cautamente ottimista sul fatto che, forse, è sollevata di vedermi, ma la cosa dura poco.

    Raddrizza le spalle e socchiude gli occhi. Non so di preciso quale effetto dovrebbe avere su di me, ma è un bene che non mi importi per niente.

    «Chiudi a chiave quella cazzo di porta» ringhio, ricambiando il suo sguardo. «Sei fortunata che sia entrato io e non uno stronzo degli appartamenti dall’altra parte della strada.»

    «Che fortuna che sia tu.» La sua voce è intrisa di sarcasmo e scuote la testa, mentre le sue lunghe ciocche nere oscillano da una parte all’altra. Va verso i fornelli e spegne la musica.

    Colpisco il sacchetto di carta con il dorso della mano, facendola sussultare.

    «Ti ho portato delle cose.»

    «Smettila di portarmi cose

    Mi volta le spalle, prende un coperchio e lo sbatte sulla pentola. So che non è felice di vedermi, non lo è mai.

    Peggio per lei.

    «Dov’è la Scimmietta?» chiedo.

    «In soggiorno.»

    Le sue parole escono piatte, ma ci sono abituato. Non mi aspetto niente di più da lei.

    Non posso.

    «Everleigh! Vieni qui, tesoro» la chiama.

    È una cosa così naturale una madre che chiama sua figlia per cenare, sembra proprio un momento normale di una vita ordinaria. E anche se conosco la verità, e so che le apparenze possono ingannare, mi godo lo stesso questo momento illusorio. Mi accontenterò di quello che posso ottenere.

    Pochi secondi dopo sento il rumore di piccoli piedi che arrivano correndo in cucina. «Zio Crew!»

    Mi piego su un ginocchio mentre viene verso di me, con i capelli neri che ondeggiano dietro di lei.

    «Zio Crew!» grida di nuovo e si lancia all’impazzata tra le mie braccia, premendo il viso sulla mia giacca fredda. Afferro la cerniera e la tiro giù, per paura che il metallo gelato le punga il viso.

    Le mie labbra trovano la sua fronte mentre mi avvolge le braccia attorno. La stringo forte, pettinandole indietro i capelli e respirando l’odore della gomma da masticare che ormai associo alla mia nipotina. «Come stai, Scimmietta?»

    «Sto bene» ridacchia, tirandosi indietro e guardandomi trepidante. «Mi hai portato qualcosa?»

    «Everleigh Nicole!» la rimprovera Julia. «Le buone maniere!»

    «Ma è zio Crew.» Sbatte le ciglia verso sua madre che, in risposta, alza gli occhi al cielo. «Mi hai portato qualcosa, vero?» Mi guarda di nuovo, con un gran sorriso da una guancia all’altra.

    Non potrei mai dire di no a questa bambina. Potrebbe chiedermi la cazzo di luna e troverei un modo per prenderla.

    «Dai. Lo sai che ti ho portato qualcosa.»

    Everleigh ridacchia e saltella su e giù con le braccia incrociate davanti alla sua maglietta di Campanellino. Prendo il sacchetto e frugo in mezzo alle provviste, estraendo un libro da colorare e una scatola di pastelli. Non ho proprio idea di quali siano le immagini, ma era l’unico che avevano in negozio.

    «Sìììì!» strilla, tenendoli in alto in modo che Julia possa vederli. «Grazie! Ti colorerò qualcosa di bello e potrai appenderlo in casa tua.»

    «Prego.» Continuando a guardarla, le faccio un cenno col capo per farle capire che la nostra routine è ancora valida. Cerca di farmi l’occhiolino, ma riesce solamente a sbattere entrambi gli occhi alcune volte. Devo metterci tutto l’impegno possibile per non ridere.

    Non appena Julia gira le spalle, le faccio scivolare in mano una caramella gommosa Laffy Taffy alla banana, e lei mi dà un bacio sulla guancia. Fa del suo meglio per tornare di nascosto in soggiorno, per evitare di essere beccata con le caramelle prima di cena.

    La guardo allontanarsi. I suoi lunghi capelli scuri, simili a quelli della madre, le arrivano quasi alla vita. Assomiglia molto a Julia: ha lo stesso viso a forma di cuore con gli zigomi alti e gli stessi modi aggraziati.

    Nonostante ciò, in Everleigh c’è tantissimo di mio fratello. È alta, come Gage, e sovrasta la maggior parte dei suoi amici di cinque anni. Anche gli occhi sono dello stesso colore, come il cielo sopra il porto in una giornata molto limpida. Ma quello che di mia nipote mi ricorda maggiormente mio fratello è la sua anima. Proprio come Gage, Ever è molto giudiziosa per la sua età, è incredibilmente intelligente e più matura di quanto probabilmente lo ero io a vent’anni.

    Mio fratello l’amava tantissimo.

    Faccio un sospiro, mi appoggio al frigorifero malconcio, e lo sento adattarsi al mio peso.

    Julia mi ignora, mentre lavora ai fornelli. Si è legata i capelli e posso vedere la tensione nelle sue spalle, e la postura di sfida. Faceva così anche ai tempi del liceo, quando veniva a casa mia dopo aver litigato con i suoi genitori di merda. Odio vederlo adesso, tanto quanto lo odiavo allora.

    L’unica differenza è che ora non ho nessuno da incolpare se non me stesso.

    «Stai bene?» le domando, chiedendomi se mi risponderà, perché a volte lo fa e a volte no.

    Questi due anni, da quando i nostri mondi sono crollati, sono stati difficili, ma siamo arrivati a una specie di tacito accordo. Io ho accettato il fatto che mi odierà per il resto della sua vita, lei ha accettato che non me ne andrò. Con il passare del tempo abbiamo fatto progressi: lei non minaccia più di chiedere un ordine restrittivo e io non mi arrabbio per il suo rifiuto di collaborare. Faccio solo quello che ho intenzione di fare e lei sbuffa, ma lo accetta. È un miglioramento.

    «Jules?» chiedo di nuovo, guardandola con cautela. Di solito non faccio pressioni, lascio la roba che ho portato e me ne vado. Oggi però sembra più abbattuta. So che, forse, durante questa settimana lui le mancherà anche più del solito, perché è così anche per me. Ciò mi fa venire voglia di andare a bere qualcosa, ma non posso lasciarla senza assicurarmi che sia tutto a posto. Le devo almeno questo. «Stai bene?»

    La vedo posare il cucchiaio e abbassare la testa, e mi preparo a una reazione qualsiasi.

    «Alla grande.» La sua voce è così bassa che quasi non riesco a sentirla. Afferra il bancone da entrambi i lati dei fornelli e resta ferma.

    Mi mordo il labbro e la osservo, aspettando che mi dia qualche indizio su ciò che sta pensando, ma non mi dà uno spunto per continuare. «Hai bisogno di qualcosa?»

    «No, Crew» dice voltandosi. «Non mi serve niente.» I suoi occhi sono accesi, infiammati da un’emozione che non riesco a definire. «E non avevo nemmeno bisogno di cambiare le gomme stamattina.»

    «Di cosa stai parlando?» chiedo, fingendo di non sapere. So che si incazzerà con me, ma non è che avessi scelta: non potevo rischiare che portasse in giro Everleigh con gli pneumatici lisci.

    «Quindi non hai mandato Will nel mio ufficio, stamattina, a prendere la mia macchina? Carino da parte sua chiedermi le chiavi davanti a metà reparto. Bella mossa. Come avrei potuto discutere con lui senza fare una dannata scenata?»

    Scrollo le spalle.

    «Smetti di farlo. Per favore. Posso prendermi cura di me.»

    Siamo in una situazione di stallo, con gli sguardi ci scambiamo una conversazione che nessuno di noi due vuole avere. Mi sta dicendo che non è la ragazzina che conoscevo una volta. Non che non lo sappia. Potrà anche essere cresciuta, ma la donna in cui si è trasformata ha moltissimo a che fare con le decisioni che ho preso io.

    Ci sono così tante cose che vorrei cambiare, se riuscissi a capire come. Ma non ci riesco.

    «Come sta?» chiedo, indicando con la testa il soggiorno e provando a cambiare argomento.

    Julia sospira e la stanchezza è evidente sul suo viso. «Così così. Stamattina non si sentiva bene, quindi è rimasta con la signora Bennett.»

    «Olivia? La vicina di casa?»

    «Sì. Stasera però sembra stare meglio.» Accenna un sorriso, poi abbassa lo sguardo sul pavimento. «Ever adora quando vieni, quindi sono sicura che stasera sarà felice. A lei, piaci.»

    L’insinuazione è come un pugno nel petto.

    «Ultimamente, lui le manca molto.»

    Nelle nostre conversazioni di solito non parliamo mai di Gage, a meno che non stiamo già litigando. Il fatto che l’abbia nominato mi sorprende e non mi sento a mio agio. Non so come prenderla. Sento la mascella contrarsi per la frustrazione e mi scervello per cambiare di nuovo argomento. «Perché fa così freddo qui?»

    Il sorriso di Julia scompare e si tira la felpa, nervosa. «Non me ne sono resa conto.»

    «Come puoi non rendertene conto?» Vado verso il termostato dall’altra parte della stanza e lei si schiarisce la gola.

    «L’impianto di riscaldamento non funziona bene. All’inizio di questa settimana ho chiesto al padrone di casa di venire a dare un’occhiata.»

    «E non è ancora stato qui?» La guardo e lei scuote la testa. «Verrà stasera.»

    Tiro fuori il cellulare dalla tasca.

    «Crew, non farlo. Per favore. L’ultima volta che lo hai chiamato, poi si è comportato da perfetto stronzo con me per un paio di mesi. Ho appena ricominciato ad avere buoni rapporti con lui.»

    Scorro l’elenco dei miei contatti, cercando il suo nome.

    «Crew...» So che i suoi occhioni da cerbiatta mi stanno supplicando. So anche che, se la guardo, sarò propenso a cedere.

    Perciò non lo faccio.

    Capitolo 2

    JULIA

    Finisco un’altra fiaba su una povera principessa che incontra un principe gentile. Queste sono le storie della buonanotte preferite da Everleigh. Se ripenso alla mia infanzia erano anche le mie. Di notte stavo sdraiata con gli occhi chiusi e creavo storie su un cavaliere con l’armatura scintillante che veniva in mio soccorso. Si sarebbe arrampicato sul traliccio fuori dalla mia camera da letto e avrebbe bussato quattro volte alla mia finestra. Non sono sicura del motivo per cui dovessero essere quattro, ma era sempre così. Io mi sarei precipitata verso i vetri e lui mi avrebbe portata giù, lontano dai miei genitori.

    Quelle storie sono ciò di cui sono fatti i sogni delle bambine. Quello che devono ancora imparare è che, quando hai quei sogni nel palmo della mano e si sgretolano, diventano anche ciò di cui sono fatti gli incubi.

    Poso il libro sulle lenzuola di Everleigh. È sdraiata accanto a me, fresca di bagno, e profuma di gomma da masticare alla fragola. Si accoccola al mio fianco, con la scimmia di peluche che ha da quando è nata stretta tra le braccia. Le tolgo i capelli dal viso e mi sorride.

    «Pensi che un giorno potrei incontrare un principe, mammina? E potrei essere una bellissima principessa e vivere in un castello?»

    Sorrido alla sua innocenza.

    Imparerà presto.

    «Non si sa mai.»

    «Esistono dei veri prìncipi?» I suoi occhi brillano di eccitazione e vorrei fermare il tempo, farla rimanere così pura per sempre.

    «Certo, tesoro. Esistono ancora prìncipi nel mondo.»

    «Come papà?»

    Il mio cuore si gonfia quando lo nomina; non è un argomento raro quando è l’ora della nanna. C’è qualcosa nella pace della routine, nei momenti tranquilli proprio prima di dormire, che le fa pronunciare il nome di Gage.

    Ha parlato molto di lui di recente, e non solo prima di andare a letto.

    Anche se non sono sicura del motivo, so che, a prescindere dal fatto che siano trascorsi quasi due anni, non manca mai di farmi venire le lacrime agli occhi. Il solo pensiero di mio marito mi provoca una cascata di emozioni che ho a malapena imparato a gestire.

    «Sì, tesoro. Come il tuo papà.»

    «Pensi che Butterscotch sia in paradiso con lui?»

    Annuisco. «Sì. Scommetto che papà si sta prendendo cura del tuo gattino.» Sorrido alla mia bambina e cerco di inghiottire il nodo in gola. «E scommetto che in questo momento ti sta guardando e pensa che dovresti dormire.»

    Mi sorride con quel sorriso sbilenco, tanto simile a quello di Gage da far male fisicamente. «E zio Crew? Anche lui è un principe?»

    Devo sforzarmi per non ruotare gli occhi.

    Abbassa lo sguardo, gioca con la sua scimmia e spero che abbia finito con questo argomento.

    Oltre a me, Crew è tutta la famiglia che ha. I suoi nonni paterni sono morti e i miei non la conosceranno mai. Amano troppo l’alcol perché mi fidi a farli avvicinare a mia figlia. Conosco il dolore nel vederli sbronzi, il tormento nell’ascoltare le loro aggressioni verbali, la sensazione bruciante del braccio stretto in una presa così forte da dover inventare, per le settimane successive, storie su come mi fossi procurata quei brutti lividi. Non vedono Ever da quando è nata. Le rare volte in cui chiamano è perché hanno bisogno di qualcosa, mai perché vogliono incontrare me o mia figlia. A volte mi chiedo se si ricordano dell’esistenza di Everleigh.

    Vedo le sue palpebre farsi pesanti e sbadiglio, rannicchiandomi accanto a lei e appoggiando la testa al di sopra della sua. Il mio sguardo scivola sulla foto incorniciata di Gage e Crew, sul suo cassettone.

    Sono così giovani e spensierati in quell’immagine e i loro volti meravigliosi sorridono alla macchina fotografica. Ricordo di averla scattata dopo una lunga giornata in spiaggia e di aver ascoltato le mie amiche, dietro di me, spettegolare sul fatto che potevano essere modelli.

    La fotografia è sbiadita, vittima del passare degli anni, ma, ancor di più, dei liquidi rovesciati dalle tazze con beccuccio per bambini, perché Everleigh la portava in giro per casa nel suo piccolo carrello. Quando ha superato quella fase, ha chiesto che fosse messa nella sua camera.

    I suoi prìncipi.

    Non posso fare a meno di sorridere mentre chiudo gli occhi e ricordo la prima volta in cui li ho visti.


    «Stanno venendo qui» dice Lauren, dandomi una gomitata nelle costole.

    Mi sento infiammare le guance. Volto subito le spalle ai ragazzi che stanno venendo verso di noi. Li avevo visti prima passeggiare per Castle Island, un’isola di South Boston. Abbiamo trascorso la giornata lì, a chiacchierare sull’acqua, a fare picnic e, in generale, a comportarci da adolescenti. Non sono riuscita a smettere di lanciare sguardi furtivi verso di loro per tutto il giorno.

    Non sono come la maggior parte dei ragazzi che conosco. Hanno un corpo più solido, più magro, più scolpito rispetto agli altri della nostra età. Non è stato solo il loro aspetto fisico a catturare la mia attenzione, piuttosto il modo in cui si ponevano.

    Camminavano per il parco con una totale sicurezza, come se non avessero paura di niente.

    Il mio gruppo di amiche comincia a ridacchiare, io giro piano la testa e me li ritrovo davanti.

    «Ehi, ragazze» dice uno di loro.

    Lancio una rapida occhiata, respirando il profumo muschiato della loro colonia, permeato da un lieve accenno di odore di sudore, provocato dal sole caldo.

    Quello che ha parlato è un po’ più alto dell’altro. I suoi capelli sono di una tonalità di castano più scura e i suoi occhi di un azzurro più luminoso. Il suo sorriso è gentile, lo sguardo maturo.

    L’altro ha i capelli corti, un paio di occhi pensierosi e un sorriso arrogante, che mi fa diventare le ginocchia di gelatina. I suoi occhi luccicano e un brivido mi scorre sulla pelle, nonostante il caldo.

    «Sono Gage Gentry» dice quello più alto, sorridendo, e non riesco a fare a meno di distogliere lo sguardo. Sono troppo. Anche solo la loro vicinanza mi fa sentire debole e potente, allo stesso tempo. Non mi ero mai sentita così prima... e mi piace. «Questo è mio fratello Crew.»

    Crew sorride alle mie amiche, facendo aumentare le loro risatine. Io non ridacchio; riesco a malapena a respirare.

    Gli lancio una rapida occhiata e lui stringe le labbra carnose in un innegabile sorrisetto. Solleva le sopracciglia come per sfidarmi in qualche modo.

    Una sfida che non avrei mai dovuto accettare.


    «E lo zio Crew?» chiede di nuovo la mia bambina, assonnata.

    Mi sforzo di non dire a mia figlia di cinque anni che il suo amato zio Crew è tutt’altro che un principe. È l’esatto opposto di Gage, in quasi tutti i sensi. Lo so per esperienza.

    Sebbene condividessero gli occhi azzurri e l’innato carisma, Crew Gentry è sconsiderato ed edonista. Insegue le cose che desidera nel momento in cui le vuole, con scarsa considerazione sia alle conseguenze future, sia alle persone intorno a lui nel presente. E anche se una volta è stato nominato il miglior lottatore emergente nel Paese, non ha mai combattuto per le cose giuste.

    Ever sospira e sento il mio umore sprofondare un po’ con il suo. So che lo ama e so che, a modo suo, anche Crew la ama. Ma so anche che, con lui, quello non è sempre sufficiente.

    «Tuo zio un principe?» sbuffo. «Qualcosa del genere, piccola. Ora dovresti metterti a dormire.»

    «Ci provo, ma mi fa ancora male la pancia.»

    La bacio sulla fronte e tiro la trapunta sopra i nostri corpi.

    Rimaniamo in silenzio, un silenzio trafitto dalle urla provenienti dalla strada sottostante.

    Comincio a canticchiare una canzone dei Maroon 5 che abbiamo ascoltato prima, nel tentativo di attutire la confusione. Odio farla vivere in questo appartamento di merda, ma è stato tutto ciò che sono riuscita a permettermi dopo la morte di Gage. Vorrei che fossimo potute rimanere nella piccola casa con due camere da letto che avevamo comprato a Cambridge, ma, senza un’assicurazione sulla vita su cui contare, è stato impossibile.

    Non avrei mai pensato di essere così attaccata a qualcosa di materiale, soprattutto perché non avevo mai avuto nulla in vita mia, ma quella casetta era l’unico luogo che racchiudeva i nostri ricordi, una capsula del tempo della nostra vita assieme.

    La casa è stata la prima cosa che abbiamo acquistato insieme, il posto in cui abbiamo portato Everleigh quando è uscita dall’ospedale. Abbiamo condiviso baci sotto il vischio nel corridoio e cene a base di ramen in cucina, a lume di candela.

    Per ogni scatola che ho imballato quando ci siamo trasferite, ho aggiunto un secchio di lacrime. I ricordi sarebbero svaniti col passare del tempo? Avrei scordato l’odore della sua acqua di colonia in bagno? Avrei dimenticato l’avvallamento del materasso dal suo lato del letto? Lasciare quella casa mi ha fatto sentire come se mi stessi lasciando alle spalle Gage. L’unica cosa che mi ha fatto superare quei momenti era sapere che avevo due legami con lui: Everleigh e la mia fede nuziale. E quando sono uscita per l’ultima volta dalla piccola casa di Impala Avenue, ho lasciato lì un pezzo della mia anima.

    Il respiro di Ever è tranquillo. Dovrei alzarmi e pulire la cucina, ma non lo faccio. So che il lavandino è pieno e i resti della cena sono ancora sul tavolo, ma non mi muovo. Il mio corpo è sfinito e, non appena penso ad alzarmi, si rifiuta. Lavorare tutto il giorno alla One Boston Place, come segretaria, e quel paio di turni settimanali al Ficht’s Diner mi sfiniscono. Ma esaurire le mie energie in quei lavori senza prospettive è l’unico modo che ci permette di continuare a vivere, anche in questo orribile appartamento.

    La morbidezza del letto culla il mio corpo stanco e chiudo gli occhi. Vedo subito il viso di Gage, come sempre: sta ridendo e il timbro della sua voce mi conforta.

    Il mio corpo si riscalda come se fosse avvolto in una calda coperta. Sospiro e mi godo i ricordi di un tempo in cui la mia vita era proprio come volevo che fosse. Un momento in cui la mia vita era più di quanto avessi mai immaginato potesse essere.

    Mi sentivo al sicuro, amata. Una priorità. Gage lo aveva reso possibile.

    Ripercorro i momenti più belli, che esplodono rapidi nella mia mente come fuochi d’artificio: immagini di lui che nuota nel mare; di lui che cucina la sua ricetta preferita per la cheesecake, ricetta che non ha mai condiviso con me; di lui che torna dal lavoro in giacca e cravatta.

    Mi addormento, con le braccia che tengono stretta la mia meravigliosa bambina e il mio cuore che tiene stretti quei preziosi ricordi.

    CREW


    La porta emette uno scampanellio mentre la apro. L’interno dello Shenanigan’s, il mio bar preferito a Boston, è scarsamente illuminato e mi ci vuole un secondo per abituare gli occhi. Jordyn, la rossa che lavora qui quasi tutte le sere, alza lo sguardo mentre versa da bere. Sorride e mi fa l’occhiolino, prima di riportare l’attenzione al suo lavoro.

    Delle luci verdi pendono disposte a caso lungo il vetro dietro al bancone, e una canzone dei Kings of Leon esce dagli altoparlanti. Questo posto è tranquillo e fuori mano, un buco rispetto agli altri bar di questa città. Il posto che fa per me.

    Faccio un respiro profondo, lasciando che l’aria calda e densa lenisca i miei polmoni. Quei pochi chilometri di corsa, fatti prima di venire qui, mi hanno davvero steso. Correre ogni giorno per nove o dieci chilometri è un’abitudine consolidata in anni di allenamento. Mi fa concentrare e mi permette di prendermi una pausa dal caos che parte in automatico, invadendo la mia mente, e mi riporta indietro a un momento migliore, a un momento in cui avevo un futuro davanti a me. A quando tutto era possibile.

    Il rumore delle palle da biliardo risuona all’interno del piccolo edificio di mattoni e, insieme all’odore di salsedine, mi mette stranamente a mio agio. Mi faccio strada tra i clienti e vedo Will al nostro solito tavolo nell’angolo. È un po’ più tranquillo là dietro e abbiamo una visuale libera della televisione sulla parete. Da lì riesco anche a vedere la porta, e chi entra ed esce.

    Will porta una bottiglia di birra artigianale alle labbra, mentre ha il braccio intorno a una ragazza che non ho mai visto prima. Adam e Dane, un paio di ragazzini che stanno sempre qui dentro, sono in piedi accanto al tavolo e scoppiano a ridere per qualcosa che ha detto Will.

    Li saluto con un cenno della testa. Sono due ragazzi che riesco a tollerare perché abbiamo molto in comune, e so che è così non perché mi abbiano detto qualcosa, ma perché posso vederlo nei loro occhi: conoscono il rispetto e hanno la naturale capacità di sapere quando tacere. Queste cose non te le spiega una babysitter, te le spiega la strada. Non è qualcosa che ti viene insegnato, è qualcosa che impari. Capisci come muoverti in un mondo che la maggior parte delle persone non vede mai, rimanendo zitto e osservando, ascoltando e intuendo chi ha il controllo di una situazione.

    «Ehi, Crew.» Will sorride mentre la Bionda, ubriaca accanto a lui, lo bacia sul collo facendo scorrere la lingua sull’ombra di barba.

    «Come va?» Prendo una sedia e mi accomodo. La Bionda mi guarda, scopandomi con gli occhi.

    «Ehi, Crew,» interviene Adam, sondando il terreno, «andrai a vedere il combattimento Pampa-Reyes questo fine settimana?»

    Scrollo le spalle. Combattere è la mia passione... o lo era. A volte riesco a guardare un incontro e godermelo, altre volte ha un sapore troppo maledettamente amaro.

    «Io punto su Pampa» dice Will, spalancando gli occhi per qualcosa che la Bionda gli sta facendo sotto il tavolo. È un grande fan dei combattimenti e sa sempre cosa succede in quell’ambiente. Ai vecchi tempi, Will ha combattuto al fianco mio e di Gage, un paio di volte. Non era male, ma aveva una madre e un padre a casa a cui rendere conto e questo l’ha tenuto lontano da molti guai.

    «Sì, sono d’accordo» dice Dane. «La lotta a terra di Pampa è forte e, se riesce a stendere Reyes sul tappeto, non credo che l’altro abbia una possibilità.»

    «Pampa non riuscirà mai a stenderlo, perché Reyes lo metterà fuori gioco per primo.» Prendo una sigaretta dal pacchetto di Will sul tavolo e la rigiro tra le dita. «Anche se non lo fa, Reyes ne ha più bisogno. Ha perso gli ultimi due incontri con la decisione unanime dei giudici.»

    «Reyes, eh?» Un altro ragazzo, di cui non conosco il nome, appare accanto ad Adam. «Fanno entrambi schifo. Chi vince combatterà contro Davidson, e quel figlio di puttana è una bestia.»

    Will e Adam mi guardano subito, aspettando la mia reazione.

    «Vacci piano, Slick» lo avverte Dane. «Stai per trovarti in un mucchio di merda senza nemmeno accorgertene.»

    «Questo è certo, cazzo» ride Will.

    Capelli neri a spazzola e un orecchino di diamante in un orecchio, Slick ha un ghigno sul viso come se avesse appena sentito la peggiore stronzata della sua vita. Quest’idiota è il motivo per cui di solito cerco di evitare la folla; troppi figli di puttana che vanno in giro con una faccia che urla colpiscimi e che non riesco a tollerare.

    Probabilmente sarei dovuto restare a casa stasera, ma dovevo trovare qualcosa per occupare la mente. Ieri notte ho sognato Gage. Eravamo seduti sulla spiaggia a guardare le onde infrangersi e mi ha detto che dovevo darmi una regolata. Io ho riso, perché era una cosa che mio fratello mi diceva sempre. Ha preso una manciata di sabbia, l’ha lasciata scorrere piano tra le dita e ho guardato i granelli cadere sul mucchio di conchiglie sotto.

    «Datti una regolata, fratellino. È tempo che ti comporti da uomo, cazzo. Conto su di te.»

    Mi sono svegliato con i sudori freddi. Non sogno spesso Gage, anzi, per niente, in realtà. Ma c’era qualcosa nel modo in cui ha detto quelle parole, nella chiarezza della sua voce e nell’intensità nel suo sguardo, che mi ha lasciato una sensazione strana nello stomaco per tutto il giorno. Non riuscivo a scrollarmela di dosso, non riuscivo a togliermi dalla testa il suono della sua voce.

    Alzo lo sguardo su Slick. Lui sorride e mette un braccio intorno alla spalla di Dane. Dane si scosta e mi guarda nervoso.

    «Davidson? Perché è un combattente?» Giro la sigaretta tra le dita e poi la picchietto sul tavolo.

    Slick sbuffa. «Se è un combattente? Ma sei serio? È il figlio di puttana più spietato che abbia mai visto da molto tempo. Non vince solo i combattimenti, vince perché uccide. Si dice sia imbattibile e io ci credo.»

    Inclino la testa e lo guardo ridacchiando.

    «Forse ti conviene chiudere quell’aspiratutto» lo avverte Will con un ghigno.

    «Aspiratutto?»

    «Sai, l’aspiratutto. La bocca. Il tuo succhiacazzi» ride Will. «Non sparare cazzate che non puoi dimostrare.»

    «Amico, sai almeno chi è questo tizio qui?» interviene Adam scuotendo la testa. «È Crew Gentry. L’unico uomo che può battere il tuo cosiddetto figlio di puttana più spietato

    «Stai scherzando? Sei Crew Gentry?» Ride. «Pensavo fossi più grosso.»

    «Ora è il momento in cui Slick smette di usare l’aspiratutto e compra una birra a Crew Gentry» sorrido, un avvertimento nascosto a malapena sotto la superficie.

    Il suo viso impallidisce. «Ehi! Qualunque cosa stia bevendo Gentry la offro io!» grida a Jordyn. Si volta e mi guarda dalla testa ai piedi. «Sì. Ora posso vederlo. Sei ancora solido come una roccia. Amico, non riesco ancora a credere che tu non sia diventato Pro...»

    «Sì, lo so» lo interrompo. Ci ho rimuginato così tante volte, senza contare quelle che ho trascorso rivivendolo attraverso i miei allenatori o i dottori, o ragazzi qualunque che pensano di sapere qualcosa sui combattimenti. Non ho bisogno di sentire i suoi farfugliamenti su ciò che è andato storto, o è andato bene, o cazzate varie. È ovvio che questo moccioso non sa nulla sui combattimenti, a parte farsi prendere a calci in culo.

    «Andiamo a ordinare qualcosa da bere» dice Dane a Slick, cogliendo al volo il mio umore. Da ragazzo sveglio di strada qual è, ha intuito cosa succederà a Slick se non starà zitto. «Dai.»

    «Voglio parlare con Crew.» Slick trascina una sedia vicino al tavolo e distolgo lo sguardo.

    «Fidati di me, amico,» insiste Dane «non vuoi. Andiamo.»

    So che Slick mi sta fissando, ma non lo guardo. Non voglio chiacchierare. Accidenti, non voglio nemmeno compiacere questo tipo. Questo ragazzo andrà in una delle migliori università private del Paese, e mamma e papà pagheranno il conto. È uno stronzo con la

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