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Il giglio infranto: [Uno sci-fi Land Editore]
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E-book284 pagine4 ore

Il giglio infranto: [Uno sci-fi Land Editore]

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Info su questo ebook

In una notte d’inverno, uno strano meteorite cade sulle colline che sovrastano Firenze. Da esso escono due misteriose figure, che presto scompaiono nel sottosuolo della città. Pochi mesi dopo, in piena estate, il diciottenne americano Julian Grant giunge a Firenze per una vacanza studio. Proprio a Firenze sperimenta per la prima volta cos’è l’amore, grazie alla splendida e fragile Serena.
“Noi uomini siamo strani, Julian, e voi americani dovreste saperlo bene: ci preoccupiamo di mandare navicelle nello spazio, ma non ci interessiamo di ciò che è sotto i nostri piedi.”
Sulla città è però calato un periodo oscuro: molte persone sono misteriosamente scomparse nell’arco di pochi giorni. Si sospetta la presenza di un serial killer, ma le autorità italiane scoprono che la situazione è perfino peggiore: in uno scontro con un gruppo di poliziotti viene ucciso un misterioso essere nero dalla forma di un gigantesco insetto, che dalle successive analisi risulterà non proveniente dalla Terra. 
Da quel momento è il caos: le creature sono affamate, e gli esseri umani sono impotenti di fronte alla loro forza sovrastante. Nessun esercito potrà fermarle. Nemmeno quello dello scapestrato ma infallibile tenente William Grant, giunto dall’America per portare in salvo suo fratello. 
Ma quando Julian perde Serena e la città cala nel caos di un’irrefrenabile ecatombe, le creature venute dal sottosuolo scopriranno che l’essere umano ha una forza nascosta e formidabile: l’amore. 
LinguaItaliano
Data di uscita25 set 2021
ISBN9791220850056
Il giglio infranto: [Uno sci-fi Land Editore]

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    Anteprima del libro

    Il giglio infranto - Marco Brunelli

    Firenze, 28 febbraio, la sera del Martedì Grasso

    Le colline di Fiesole erano coperte di neve, come se un candido manto di cotone fosse caduto sui boschi, sui campi e sui vitigni che sovrastavano la città di Firenze. Solo pochi chilometri separavano quei luoghi di pace dalle luci e dalla confusione del carnevale fiorentino, ma la differenza era tale che sembravano appartenere ad un altro mondo, uscito da un tempo ormai scomparso.

    Era stata una nevicata come sulla Toscana non se ne vedevano da anni; in soli due giorni di intense perturbazioni aveva coperto la città medicea, per la gioia dei bambini e per la rabbia e le imprecazioni degli adulti, con quasi trenta centimetri di coltre candida e morbida, che sembrava coronare i monumenti rinascimentali di una chioma da venerabili anziani. Nell'ultima notte di Carnevale, però, per la prima volta da oltre quarantotto ore la cappa apparentemente impenetrabile di nubi - oscillanti tra il grigio ferro e il bianco abbacinante - si era improvvisamente aperta, e il cielo era ora punteggiato di stelle, come solo una notte invernale sa essere. Il freddo era comunque intenso, e nonostante in città nessuno sembrasse accorgersene a causa della festa, nella campagna non c'era anima viva che osasse mettere il naso fuori di casa. Perfino gli animali sembravano essersi rifugiati nelle proprie tane, quasi rifuggendo uno scenario a loro sconosciuto.

    Una serie di combinazioni, quelle, che resero possibile un evento che normalmente non lo sarebbe stato, soprattutto in una zona fittamente abitata: e infatti nessuno notò una scia dorata attraversare il cielo, tracciando un segno bruciante sul nero notturno e offuscando per qualche secondo con la propria luce un largo tratto di firmamento. Del resto, anche se qualcuno l’avesse notata, con ogni probabilità l’avrebbe scambiata per una stella cadente fuori stagione.

    Neanche gli addetti ai radar dell’aeroporto di Peretola la inquadrarono: un segno passò sui loro schermi, ma era qualcosa di molto piccolo e veloce, e scomparve talmente in fretta da essere ignorato. Furono molti, invece, nei paesini dell'hinterland fiorentino, a udire un lieve boato nel cielo, subito seguito da un secondo, apparentemente più basso, che però venne in massima parte ignorato, considerando che non vi era stato nessun apparente danno. I pochi che si posero qualche domanda finirono per attribuirlo a una lieve scossa di terremoto, e le persone più sensibili, il giorno successivo, riportarono sui social network l'impressione di aver avvertito un lieve tremore. Un'impressione che sollevò un certo dibattito, considerando che l'Osservatorio Nazionale Terremoti non aveva registrato, in quelle ore, niente che avesse anche soltanto raggiunto il II Grado della Scala Richter, e che risultasse percepibile dalla popolazione. Nessuno, però, si sognò di nominare un possibile meteorite: da nessuna parte comparvero foto spettacolari come quelle scattate nel 2013 in Russia, sopra la città di Čeljabinsk: a Firenze nessuno vide la fiammata attraversare l'aria sopra la città, e le troppe luci ostacolarono anche i pochi che, al momento giusto, si trovavano a guardare il cielo. In campagna nessuno vide lo spettacolo. Non ci furono cellulari levati a immortalare il momento nel quale un misterioso corpo piombò verso il suolo a poca distanza da Settignano, al limite tra un boschetto di querce ed un campo coltivato. E nessuno vide lo schianto, o il fuoco, o gli alberi caduti. Nel silenzio ovattato della neve, lo scoppio riverberò solo per breve distanza. Un cratere fumante nel terreno rimase come unico segno che qualcosa era accaduto.

    Una voragine abbastanza regolare, di quasi cinque metri di diametro e tre di profondità, feriva il suolo della collina, mentre una nube grigiastra si levava sopra le cime degli alberi, mischiandosi al fumo nero del fuoco delle piante. Al centro dello squarcio si poteva vedere uno strano oggetto di colore rosso intenso.

    Aveva una forma pressoché circolare, grande più o meno come un pallone da spiaggia, butterato da strane protuberanze.

    Il rosso appariva venato da strisce arancioni, e volute di vapore si alzavano dalla sfera. Sembrava incandescente: la caduta attraverso l’atmosfera aveva alzato la sua temperatura a livelli inauditi. Un osservatore sarebbe rimasto sorpreso per l'aspetto dell'oggetto: non soltanto non sembrava una meteora, ma era rimasto perfettamente intatto nonostante lo schianto, al contrario di quanto sarebbe accaduto ad un qualsiasi oggetto proveniente dallo spazio e caduto a velocità ipersonica per centinaia di chilometri. Di più: non si era neppure piantato nel terreno, se non con la parte inferiore, mentre avrebbe dovuto scomparire a grande profondità - ammesso che fosse costituito da un materiale duro abbastanza da non frantumarsi all'impatto. Una persona dotata di fantasia, se avesse assistito allo strano spettacolo, avrebbe avuto la possibilità di intuire la verità, anche se ne sarebbe occorsa molta per dedurre che non di uno schianto si era probabilmente trattato, bensì di un brusco atterraggio.

    I minuti passarono, e il colore dell'oggetto cambiò in fretta, schiarendosi: sembrava che la temperatura superficiale stesse calando a velocità scientificamente impossibile, quasi fosse stato immerso nell'azoto liquido o riportato negli spazi siderali, rivelando un colore azzurro intenso con striature di un blu molto scuro. Il vapore cessò di salire e l’oggetto si raffreddò completamente. Per parecchi minuti non accadde nulla: il silenzio tornò a regnare sovrano sulla campagna toscana temporaneamente trasformata in un paesaggio alpino, quasi come se tutti gli esseri viventi del mondo avessero deciso di scomparire allo stesso tempo.

    Quando ormai sembrava che nulla più dovesse accadere, la sfera si animò di colpo: iniziò a tremare come un diapason, e l’aria si riempì di un basso ronzio. Infine, dalla parte superiore dell'oggetto iniziò a salire un filo di fumo verdastro, mentre un’area di alcuni centimetri si copriva di increspature. All'apparenza sembrava stare cercando di passare dallo stato solido a quello liquido, quasi fosse stato costituito da cera esposta ad una fiamma, ed effettivamente dopo qualche secondo iniziò a sciogliersi: delle gocce dall'aspetto grumoso scivolarono verso il basso, rigando la strana palla. In meno di due minuti si era formata una piccola apertura, ed entro dieci era larga quasi quindici centimetri: continuava ad ampliarsi, come se un acido stesse sciogliendo la superficie.

    Quando la reazione chimica cessò, il varco sulla sommità del visitatore giunto dallo spazio profondo era ampia una ventina di centimetri. Passarono altri minuti, poi qualcosa comparve sul bordo: qualcosa di sottile e scuro, come la zampa di un ragno. Subito una seconda forma uguale spuntò accanto alla prima, e pochi secondi dopo una figura grande quanto un volpino si issò sul margine e saltò a terra. Nell’oscurità la sua forma era indefinibile ma, tranne che nella grandezza, non somigliava affatto a un cane. La creatura girò quella che sembrava essere la sua testa verso l’oggetto sferico ed emise un verso stridente, simile a quello di una mostruosa cicala. Entro un minuto una seconda entità pressoché identica fuoriuscì dalla sfera e atterrò sulla neve, muovendosi con la goffa approssimazione di chi sta cercando di rimettere in funzione dei muscoli che non ha mosso per troppo tempo.

    Scambiandosi i loro strani stridii, i due esseri si arrampicarono sul bordo del cratere. Quasi immediatamente la reazione chimica sembrò riprendere a velocità molto superiore rispetto alla prima fase, e ciò che restava della sfera iniziò a sciogliersi come una candela lasciata sopra una stufa. Nel giro di pochi minuti non ne era rimasta nessuna traccia, se non una macchia di materia bluastra che già la mattina successiva sarebbe stata assorbita dal terreno. Le due creature, però, non videro sparire lo strano artefatto che li aveva condotti sulla Terra dallo spazio: quasi fossero stati spinti da un misterioso istinto, avevano iniziato a scendere verso valle. Verso le luci di Firenze.

    La città era in festa: le strade erano piene di gente allegra e sgargiante nei costumi di Carnevale. Piazza della Signoria era gremita; i bambini si erano ormai ritirati a causa dell'ora tarda, ma gli adulti si aggiravano ancora da un locale all'altro, recandosi verso feste che sarebbero durate tutta la notte. La maggior parte indossava abiti elaborati e chiassosi, benché non mancasse chi si era arreso a coprirli con un pesante giaccone imbottito. L'aria fredda sembrava trasudare gioia.

    Tutti erano troppo coinvolti per notare due strani esseri che si muovevano furtivi negli angoli più bui delle strade. Non si spostavano a caso: erano decisi, parevano avere una destinazione misteriosa. Nessuno li vide.

    O meglio, una persona scorse qualcosa: un solo uomo vestito da cavaliere, con addosso una finta cotta di maglia e una tunica con la Croce Rossa, una birra nella mano destra e la sinistra poggiata sull’elsa della spada. I suoi occhi registrarono un movimento: un’ombra nell’angolo tra due. Scomparve prima che il suo cervello avesse il tempo di elaborare l’immagine e, quando si rese conto che c’era stato qualcosa, quel qualcosa era già scomparso.

    Si convinse di aver visto solo due cani randagi, nient’altro; bevve altre quattro birre quella sera, ma anche nella poca lucidità della sbornia incipiente il suo cervello tornò diverse volte a chiedersi come aveva potuto immaginare che quegli animali avessero troppe zampe per essere cani.

    ***

    Scesero giù, sempre più giù, lontani dalle luci, dallo strano gelo che non avevano mai conosciuto, nella calda oscurità. I loro sensi sviluppati avevano individuato una strada perfetta, una via per il luogo più adatto a loro. Una parte della loro natura li attirava dove c’erano le tante creature viventi: l’odore delle miriadi di esseri a sangue caldo che popolavano la superficie era un richiamo quasi irresistibile - quasi inebriante per chi aveva compiuto un lungo viaggio.

    Il loro istinto più potente, però, li spingeva a scendere sempre di più, a nascondersi, a ripararsi. Erano troppo piccoli, ed erano soli. Ci sarebbe stato tempo, più avanti, ma per il momento dovevano solo andare più giù.

    Trovarono il luogo che cercavano: ampio, buio, sicuro. Era il posto migliore dove stabilirsi, dove crescere ed attendere il momento giusto.

    ***

    Le piogge dei primi giorni di marzo quasi cancellarono il cratere, e quando le prime persone tornarono a passare nelle sue vicinanze non era rimasto che un avvallamento nel terreno, mentre l'acqua aveva rimosso quasi tutte le tracce del piccolo incendio. Nessuno avrebbe potuto, a quel punto, distinguere che lì era avvenuto qualcosa di mai visto.

    Durante la successiva primavera gli abitanti di Firenze si accorsero di qualche piccolo cambiamento nella loro vita: per prima cosa, molte persone che per tutta la vita avevano combattuto contro infestazioni di topi, soprattutto coloro che possedevano case vicino all’Arno, notarono che il numero dei roditori si era ridotto di molto, e che continuava a diminuire. Entro la fine di aprile erano quasi scomparsi. Molti lo trovarono strano, considerando la fatica che normalmente era richiesta per eliminare i roditori, ma nessuno si preoccupò troppo: i subdoli invasori pelosi non erano certo molto amati, e la loro scomparsa portò quasi più sollievo che domande. Perfino il Comune, benché interpellato da diverse associazioni per la protezione dell'ambiente - che temevano che la scomparsa di una delle specie animali solitamente più resistenti potesse significare la presenza di una qualche forma di avvelenamento dell'ambiente - non sembrò impegnarsi più di tanto per scoprire come mai, di colpo, non si trovasse più nessun tipo di roditore: dai ratti di chiavica ai semplici topolini, tutti sembravano essere scomparsi di colpo. D'altronde non era stato ritrovato neanche un singolo cadavere, quindi non sembrava che fosse apparso un inquinante precedentemente sconosciu to. Il mistero si guadagnò qualche articoletto sui giornali e alcuni post su internet, ma l'aria che aleggiava sembrava suggerire un pensiero pressoché unanime, riassumibile con Meglio così .

    Poi toccò a cani e gatti, e questa volta la preoccupazione non si fece attendere: con l’avvicinarsi dell’estate il numero di randagi calò sempre più velocemente, per poi lasciar spazio alla scomparsa degli animali domestici. Era già capitato altre volte che si verificassero morie di animali, causate solitamente da qualche depravato che si divertiva con dei bocconi avvelenati, ma oltre ad essere di solito più un problema da periferia e da paesi che da centro cittadino, il caso era evidentemente diverso, perché non c'era alcuna giustificazione per la scomparsa dei corpi: gli animali non sembravano essere stati uccisi, si erano semplicemente volatilizzati. La reazione fu decisamente più rumorosa rispetto alla scomparsa dei topi: Firenze venne tappezzata di avvisi di ricompense, i principali quotidiani regionali dedicarono in almeno tre occasioni una intera pagina alla questione, con le esternazioni preoccupate quanto furibonde dei proprietari delle bestiole scomparse e le accorate quanto inutili promesse di intervento delle autorità, che in realtà non sapevano minimamente cosa fare per un problema mai verificatosi in precedenza. La rete, ovviamente, si riempì delle più folli teorie del complotto, che andavano dalla presenza di un laboratorio clandestino che usava gli animali come cavie per esperimenti farmaceutici ad un ancora più improbabile centro di produzione di pellicce economiche. Qualcuno addirittura arrivò a suggerire l'esistenza di una setta satanica che utilizzava gli animali per dei sacrifici al Diavolo. Talk show televisivi e programmi radio locali si riempirono di esperti decisi a sostenere le più diverse ipotesi, di animalisti che urlavano la loro rabbia contro tutti e nessuno e di testimoni che raccontavano la scomparsa misteriosa dei propri compagni pelosi. Furono molti coloro che storsero la bocca per quello che stava accadendo, ma poiché nessuno riuscì a trovare spiegazioni, i fiorentini si abituarono semplicemente a tenere quanto più possibile i propri animali in casa.

    Intanto, mentre in superficie la popolazione continuava la sua vita sciamando avanti e indietro per le strade, mentre gli uomini di sopra non vedevano e non sentivano nulla, nel sottosuolo qualcosa cresceva. Cresceva e si moltiplicava.

    Firenze, 10 luglio, lunedì mattina

    Le nuvole di un luglio afoso e caldo si stagliavano sopra i tetti di Firenze, velando con le loro ombre un paesaggio che non aveva ancora finito di sorprendere il diciottenne Julian Grant. Quando il gracchiante altoparlante annunciò, prima in italiano e successivamente in inglese, che il treno stava per entrare in stazione, si alzò per prepararsi a scendere, scoprendo di avere le giunture anchilosate. Cercò di stirare contemporaneamente tutti i muscoli del corpo dinoccolato, rischiando di colpire con un gomito il suo vicino di posto, che reagì con uno sbuffo scocciato.

    Si sentiva piuttosto stanco, ma era abbastanza normale. In fondo era in viaggio da quasi due giorni, e aveva dormito soltanto sui sedili di qualche mezzo di trasporto: partito dalla nativa Des Moines, capitale del rurale stato dell'Iowa, aveva raggiunto in volo Atlanta, per poi cambiare aereo e attraversare l'oceano fino a Roma, dalla quale si era diretto alla volta della stazione di Santa Maria Novella tramite un treno di dimensioni talmente piccole che il giovane aveva inizialmente temuto di aver sbagliato e di essere finito sui servizi ferroviari delle poste. Tutto, in effetti, fin dal suo arrivo in Italia gli era sembrato stranamente antiquato e di dimensioni ridotte: Des Moines non era certo una metropoli, ma perfino lì non mancavano grattacieli ed edifici molto moderni. Lo scorcio di Roma che aveva visto mentre l'autobus lo conduceva dall'aeroporto alla stazione, e la sfilza di paesini dall'aria antica che aveva incontrato durante il tragitto attraverso Lazio e Toscana, gli avevano chiarito perfettamente a quanta distanza si trovava dalla propria casa.

    Benché fossero appena le dieci e mezzo del mattino, un grande cartellone elettronico all'interno della stazione fiorentina segnava 35 gradi Celsius. Julian scese dal vecchio treno e, con un voluminoso zaino e un grosso trolley, si diresse verso l'uscita. Il giovane si passò una mano nei capelli castano-rossicci, lunghi fin sotto le orecchie, ormai appiccicosi a causa del molto sudore versato. Ebbe qualche piccola difficoltà per reperire un taxi, con siderando che gli indigeni tendevano a non capire la sua lingua, ma alla fine riuscì a farne chiamare uno, con il quale sperava di concludere il suo apparentemente infinito viaggio. Iniziò a pentirsi della sua scelta non appena vide la vecchia vettura bianca che si accostava al bordo della strada di fronte all'ingresso della stazione: l'autista neanche scese per aiutarlo a caricare nella bauliera la valigia, e il ragazzo impiegò un paio di secondi per capire che l'uomo davanti a lui non sapeva una sola parola d'inglese. Si era tenuto pronto un discorso in lingua italiana, ma nel momento del bisogno dovette arrendersi al fatto che, dopo due giorni nei quali aveva dormito a stento sei ore, non riusciva in alcun modo a farselo tornare in mente. Si limitò quindi ad estrarre dalla sua agenda un biglietto col nome della via dove si trovava il suo appartamento: «Via...de... dell'Anguillara, per piacere.»

    Il tassista non fece alcuno sforzo per trattenere una risata; disse qualcosa di incomprensibile nella sua lingua, e finalmente partì con una sgommata, infilandosi agevolmente in mezzo al traffico caotico. Il giovane americano dovette ammettere che se la cavava bene in una situazione non esattamente facile, benché immaginasse, pur senza capirle, che le imprecazioni che lanciava ogni volta che finiva per trovarsi davanti a un semaforo rosso non fossero esattamente il punto più alto della lingua di Dante.

    Via dell'Anguillara era vicina all'Arno, a Piazza della Signoria e a Santa Croce, e Julian Grant dovette ammettere di non aver mai visto nulla di simile in quasi vent'anni spesi sul pianeta terra: tutto in quel luogo aveva un ordine estetico molto diverso da quello al quale era abituato. Dal momento in cui finì di scaricare i bagagli e pagare il tassista, gli occorsero appena due minuti per innamorarsi del microcosmo appassionato che passava attraverso quella via, dei colori, della puzza di orina di gatto, dell'odore di qualche indistinta verdura rustica che andava a sposarsi perfettamente con i rifiuti indifferenziati e i gas di scarico degli scooter. Non erano odori gradevoli, ma nel complesso gli apparivano genuini in una maniera che non avrebbe saputo spiegare neanche a se stesso. Sorprendentemente, non aveva voglia di estrarre il cellulare e immortalare quel luogo in una fotografia. Certo, avrebbe scattato qualche immagine della sua vacanza: lo avrebbero preso per pazzo se non avesse portato a casa qualche scorcio della città… ma già dai primi panorami visti durante il tragitto lungo le strade fiorentine aveva capito che quel luogo aveva la capacità di entrargli dentro in un modo strano, magnetico, e che non avrebbe dimenticato un solo secondo di quell’incredibile avventura.

    I suoi genitori avevano optato per un bilocale in via dell'Anguillara, su consiglio di un amico che lavorava per una rete televisiva di Des Moines e che per anni aveva tenuto un appartamento per le vacanze estive proprio in quella parte della città. Mentre saliva le scale per raggiungere il primo piano, Julian sentì uno straordinario senso di euforia invaderlo, al punto da sembrare sul punto di traboccare: non solo si era dimenticato che i suoi scopi, nel corso di quel viaggio, avrebbero dovuto riguardare primariamente lo studio, ma sembrava avere anche rimosso qualsiasi ricordo dei suoi genitori, della sua città, dei suoi amici, dei sandwich preparati dalla mamma, dei campi di mais che andavano oltre il punto dove un uomo era in grado di spingere il proprio sguardo, del latte freddo portato in tavola la mattina, della sua casa che sembrava nuova anche se aveva quarant'anni. Era la prima volta che era così lontano dalla sua vita di tutti i giorni, e si sentiva avvolto da una incredibile sensazione di libertà. Nell'entrare nella piccola casa, grande nel complesso più o meno come la sala da pranzo di quella dei suoi genitori, si rese conto che, da quel momento e per le successive sei settimane, sarebbe stato padrone pressoché assoluto della propria vita. L'appartamento, un semplice salotto con angolo cottura e un minuscolo balcone, gli sembrava simile a una reggia, nonostante i vecchi mobili un po' scrostati e le tende fuori moda che sembravano essere state prese di peso da sopra il lavello di una vecchia signora: si sentiva come se avesse appena firmato la sua personale dichiarazione di indipendenza.

    Si gettò sulla piccola poltrona che occupava un angolo della sala: Se Bill potesse vedermi in questo momento, sarebbe decisamente fiero di me - pensò, mentre un sorriso si stampava sul suo volto di adolescente - Subito dopo piomberebbe qui a fare casino con qualche ragazza e parecchie bottiglie di whisky!

    Bill era suo fratello maggiore, ma non si vedevano quasi mai: benché, dopo essere entrato nell'Esercito contro il parere dei genitori, lui fosse il solo familiare con il quale aveva mantenuto dei veri rapporti, erano ormai parecchi mesi che non aveva una licenza e non poteva raggiungere la città natia per stare con il fratellino. I loro contatti si erano ridotti a un rarefatto scambio di e-mail e a qualche saltuaria lettera cartacea. Il ragazzo prese un appunto mentale di prendere contatto con il fratello per raccontargli della sua vacanza, prima di alzarsi ed andare ad aprire il trolley. Ne estrasse come prima cosa il materiale necessario per fare una doccia, seguito da un cambio d'abito: benché fosse stanco morto e avesse la fortissima tentazione di buttarsi sul letto con il ventilatore acceso e una bibita gelata, sapeva di doversi trovare all'edificio dove avrebbe studiato nelle successive sei settimane alle tre e mezzo del pomeriggio, e aveva l'assoluto bisogno di lavarsi, di mettersi addosso qualcosa che non puzzasse di sudore e, soprattutto, di trovare un luogo dove mangiare qualcosa, considerando che il suo ultimo pasto risaliva al volo tra Atlanta e Roma. E poi, aveva la sensazione che nel suo stomaco si stesse svolgendo una piccola rivoluzione.

    ***

    La scuola estiva dove i signori Grant avevano iscritto Julian era situata in un palazzo dall'aspetto venerabile, apparentemente realizzato in un periodo storico nel quale veniva data una certa importanza all'estetica e non soltanto alla funzionalità. Il palazzo sorgeva molto vicino alla Sinagoga di Firenze. Il ragazzo ci arrivò con qualche minuto di anticipo, ancora intontito per i troppi fusi orari attraversati in troppo poco tempo, mentre quella che una

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